Il 14 giugno del 1986 ci lasciava Jorge Luis Borges, unanimemente considerato tra i padri della letteratura argentina. A trent’anni dalla morte, lo ricordiamo con un brano tratto da Il fattore Borges di Alan Pauls.
di Alan Pauls
traduzione di Maria Nicola
Non tutti hanno letto Borges. Tutti, però, lo hanno sentito. Tutti sanno come parlava, tutti saprebbero riconoscere la sua voce. A un certo punto della loro vita, quando raggiungono la fama, gli scrittori, in genere già un po’ stanchi, tendono a rilassarsi e a compendiare la loro identità – tutto quello che sono, tutto quello che li ha resi celebri – in un album di immagini rappresentative. Gesti, atteggiamenti, accessori che ritornano da una fotografia all’altra, espressioni… Il cipiglio, la bocca imbronciata e gli occhiali scuri di Sabato; Cortázar e la sua sigaretta, le sue camicie cubane, la sua eterna aria da adolescente; le giacche inglesi, le sorridenti lentiggini di Bioy Casares. Ciascuno di questi segni particolari è come il logotipo dello scrittore, il marchio che lo riassume e lo identifica. Borges, naturalmente, non fa eccezione, anche lui ha il suo piccolo tesoro di icone allusive: gli occhi strabici; le mani, incrociate sull’impugnatura del bastone o posate sul dorso di Beppo, il gatto d’angora più famoso della letteratura argentina; i capelli bianchi e lisci, finissimi, da scienziato pazzo dei fumetti… Tutti questi elementi ricorrenti dell’iconografia sono popolari e già sedimentati nella memoria sociale, ma nessuno si è imposto con il potere insinuante, l’efficacia e la persistenza della sua voce. Per un curioso paradosso, lo scrittore più «libresco» della letteratura argentina, il più legato ai cerimoniali della scrittura, è anche quello che meglio approfittò delle possibilità della registrazione sonora, lo scrittore più orale, più parlato, della letteratura argentina.
Perché il dire di Borges è più popolare della sua letteratura? In parte perché la voce viaggia meglio della scrittura, e perché è un materiale più sensibile alla logica riproduttiva dei mezzi di comunicazione di massa. Dalle prime conferenze pubbliche, a metà degli anni Cinquanta, fino alle conversazioni radiofoniche con Antonio Carrizo dei primi anni Settanta, la voce di Borges varca i confini di un’intimità relativamente accademica e passa ad animare uno dei programmi maggiormente seguiti della radio argentina. Ma anche, e soprattutto, perché in più di un senso la voce di Borges funzionò sempre come una versione amabile, «umana», della sua letteratura. Mentre i suoi libri sembravano immortali, la sua voce era storica e promanava, fragile e vulnerabile, da un corpo; mentre i libri affermavano il meccanismo di uno stile senza cedimenti, modello di una lingua perfetta, la voce di Borges metteva in scena l’inciampo, la dimenticanza o la fatica del ricordo, e in ogni sua esitazione traspariva il piccolo dramma che consiste nell’articolare idee e parole; mentre la prosa borgesiana sembrava ermetica e autosufficiente, la voce di Borges suonava esile e disseminata di vuoti, quasi allarmata dalla presenza di un interlocutore o dalla minaccia di una domanda; mentre il Borges scrittore proiettava l’immagine di un’autorità sovrana (il Grande Creditore della letteratura argentina), il Borges parlato, come un Grande Debitore Riconoscente, preferiva profondersi nell’arte del tremore, del dubbio e della falsa modestia. La voce di Borges aveva successo anche perché ci bastava udirla per sentirci tutti in qualche modo vendicati: ogni suo balbettio metteva in scena un pensiero che sembrava farsi proprio lì, davanti ai nostri orecchi, e ci ripagava delle ferite che la sua presenza scritta ci aveva inflitto. Il Borges scritto affascinava ma era inattaccabile; il Borges orale proponeva un incantamento meno costoso e forse più commovente, quello di una voce esposta, sempre in pericolo, nuda. Dolce rivincita del lettore umiliato: Borges, parlando, si concedeva il lusso di aver bisogno di noi.
[…]Benché siano molte le ragioni letterarie che contribuiscono a creare questo destino, Borges, in realtà, è costretto a scoprire (a riscoprire) la propria voce quando perde definitivamente la vista. Come nell’infanzia, la voce e gli occhi tornano a saldarsi. In un certo senso tutta la sua opera successiva al 1955 porta il segno dell’oscurarsi del mondo, della scomparsa della pagina, della sostituzione forzata della scrittura con la voce. Borges, che ha sempre ringraziato il peronismo di averlo costretto a guadagnarsi da vivere parlando, ora dipende dal tenue soffio della voce per fare le due sole cose al mondo che sa e ama fare: leggere e scrivere.
«In quegli ultimi anni Cinquanta era patetico vederlo prendere un libro dallo scaffale; lo avvicinava così tanto agli occhi che sfiorava la copertina col naso. Dopo un po’, faticosamente, decifrava il titolo e quando c’era riuscito manifestava una gioia quasi infantile», ricorda la sua biografa María Esther Vázquez. Impossibilitato a leggere e a scrivere da solo, Borges ha imperiosamente bisogno degli altri (sua madre, le sue amiche, la sua corte di ammiratori, i dipendenti della Biblioteca Nacional, della quale è stato nominato direttore, a titolo di risarcimento, dopo la Revolución Libertadora): ha bisogno della voce degli altri che leggono per lui, dell’udito degli altri che trascrivono quello che la sua voce ora comincia a dettare. È l’ultima grande svolta cui deve far fronte, un cambiamento i cui effetti si protrarranno fino alla sua morte e disegneranno, in un certo senso, l’immagine del Borges icona pop: lo scrittore pubblico, assimilato e venerato dal senso comune, sempre più noto alle masse, condannato a finire sui supplementi illustrati dei giornali, alla radio e in televisione, più che a essere letto. Come Gardel o Perón (due precedenti che certo lui non si sarebbe scelto come colleghi), Borges finisce per essere identificato con la sua voce. Diventa la sua voce, e condivide anche lui, in un certo senso, il peculiare destino musicale cui pare storicamente condannata una certa «argentinità».
Fino ad allora la letteratura di Borges aveva sfruttato un certo rapporto di tensione tra due poli: una scrittura satura (testi «densi», di grande pregnanza retorica, che presupponevano l’esistenza di una rete infinita di letterature) e una specie di scrittura subalterna (testi «parlati», prosodici, la cui semplice esistenza presupponeva una situazione orale – una conversazione – e la ricostruzione di un mondo perduto). L’avvento della dettatura, a questo punto, ha l’effetto di spingere la sua opera verso uno dei due poli: tutto Borges cade sotto il dominio fonetico. Borges oral, il titolo di uno dei suoi ultimi libri, può essere inteso in senso quasi farmacologico, come modalità di somministrazione di una letteratura, ma anche, e soprattutto, come modo in cui è stata concepita e confezionata. Non si tratta solo del fatto che Borges moltiplica le conferenze, i dialoghi, le interviste pubbliche, gli interventi giornalistici (tutti quei materiali eterogenei, non di rado banali, che alimentano gran parte della sua opera successiva al 1970). Dettare è anche assoggettare la scrittura al regime della voce. A partire dal 1955 Borges torna alla poesia, a una poesia esposta a obblighi (formali, metrici), facile da ricordare e addirittura portatile («Uno cammina per la strada o viaggia in metropolitana, e intanto compone e lima un sonetto, perché la rima e la metrica possiedono virtù mnemotecniche»); torna alle narrazioni brevi dell’Artefice, dove la densità stilistica tende a rarefarsi in un’architettura secca e apodittica; e infine torna, ancora una volta, ai «racconti diretti». Nella narrazione orale, parlata, delle storie del Manoscritto di Brodie, Borges riesuma le voci spettrali di una Buenos Aires in cui la verità era un’intonazione, non una parola scritta.
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