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Testo a fronte: Horacio Quiroga

Il Testo a fronte di oggi è dedicato allo scrittore uruguayano Horacio Quiroga, con un estratto dalla nouvelle I perseguitati, di recente pubblicazione per i tipi di Arcoiris.

Los perseguidos
di Horacio Quiroga

Una noche que estaba en casa de Leopoldo Lugones, hace una infinidad de años, la lluvia arreció de tal modo que nos levantamos a mirar a través de los vidrios. El pampero silbaba en los hilos, sacudía el agua que empañaba en rachas convulsivas la luz roja de los faroles. Después de seis días de temporal, esa tarde el cielo había despejado al sur en un límpido azul de frío. Y he aquí que la lluvia volvía a prometernos otra semana de mal tiempo.

Lugones tenía estufa, lo que halagaba enormemente mi flaqueza invarnal. Volvimos a sentarnos, prosiguiendo una charla amena como es la que se establece sobre las personas locas. Días anteriores Lugones había visitado un manicomio; y las bizarrías de su gente, añadidas a las que yo por mi parte había observado alguna vez, ofrecían materia de sobra para un confortante vis a vis de hombres cuerdos.

Dada, pues, la noche, nos sorprendimos bastante cuando la campanilla de la calle sonó. Momentos después entraba Lucas Días Vélez.

Este individuo ha tenido una influencia nefasta sobre una época de mi vida, y esa noche lo conocí. Según mi costumbre, Lugones nos presentó por el apellido únicamente, de modo que hasta algún tiempo después ignoré su nombre.

Díaz era entonces mucho más delgado que ahora. Su ropa negra, su color trigueño mate, su cara afilada y sus grandes ojos negros daban a su tipo un aire no común. Los ojos, sobre todo, de fijeza atónita y brillo arsenical, llamaban fuertemente la atención. Peinábase en esa época al medio, y su pelo lacio, perfectamente aplastado, parecía un casco luciente.

En los primeros momentos Vélez habló poco. Crúzose de piernas, respondiendo lo justamente preciso. En un instante en que me volví a Lugones, alcancé a ver que aquél me observaba. Sin duda en otro hubiera hallado muy natural ese examen tras una presentación; per la inmóvil atención con que lo hacía me chocó.

Pronto dejamos de hablar. Nuestra situación no fue muy grata, sobre todo para Vélez, pues debía suponer que antes de que él llegara nosotros no practicaríamos ese terrible mutismo. Él mismo rompió el silencio. Habló a Lugones de ciertas chancacas que un amigo le había enviado de Salta, y cuya muestra hubo de trae resa noche. Parecía tratarse de una variedad repleta de agrado en sí, y como Lugones se mostraba suficientemente inclinado a comprobarlo, Díaz Vélez prometióle enviar modo para ello.

Roto el hielo, a los diez minutos volvieron nuestros locos. Aunque sin perder una palabra de lo que oía, Díaz se mantuvo aparte del ardiente tema. Por eso cuando Lugones salió un momento, me extrañó su inesperado interés. Contóme en un momento porción de anécdotas – las mejillas animadas y las labios precisos de convicción. Tenía por cierto a esas cosas mucho más amor del que yo le había supuesto, y su última historia, contada con honda viveza, me hizo ver que entendía a los locos con una sutileza no común en el mundo.

Se trataba de un muchacho provinciano que al salir del marasmo de una tifoidea halló las calles pobladas de enemigos. Pasó dos meses de persecución, llevando así a cabo no pocos disparates. Como era muchacho de cierta inteligencia, comentaba él mismo su caso con una sutileza tal que era imposible saber qué pensar, oyéndolo. Daba la más perfecta idea de farsa; y ésta era la opinión general al oirlo argumentar picarescamente sobre su caso – todo esto con la vanidad característica de los locos. Pasó de este modo tres meses pavoneando sus agudezas sicológicas, hasta que un día se mojó la cabeza con el agua fresca de la cordura y modestia de las propias ideas.

«Ahora está bien», concluyó Vélez, «per le han quedado algunas cosas muy típicas. Hace una semana, por ejemplo, lo hallé en una farmacia; estaba recostado de espaldas en el mostrador, esperando no sé qué. Pusímonos a charlar. De pronto un individuo entró sin que lo viéramos, y como no había ningún dependiente llamó con los dedos en el mostrador. Bruscamente mi amigo se volvió al intruso con una instantaneidad verdaderamente animal, mirándolo fijamente en los ojos. Cualquiera se hubiera también dado vuelta, pero no con esa rapidez de hombre que está siempre sobre aviso. Aunque no es perseguido ya, ha guardado sin que él se dé cuenta un fondo de miedo que explota a la menor idea de brusca sorpresa. Después de mirar un rato sin mover un músculo, pestañea y aparta los ojos, distrído. Parece que hubiera conservado un oscuro recuerdo de algo terrible que le pasó en otro tiempo y contra lo que no quiere estar más desprevenido. Supóngase ahora el efecto que le hará una súbita cogida del brazo, en la calle. Credo que no se le irá nunca».

I perseguitati
traduzione di Giulia Zavagna

Una notte mi trovavo a casa di Lugones, e la pioggia fuori imperversava al punto che ci alzammo a guardare attraverso i vetri. Il pampero soffiava tra gli scrosci d’acqua, scuotendo la pioggia che in raffiche convulse sfocava la luce rossa dei lampioni. Dopo sei giorni di temporale, quel pomeriggio il cielo si era rasserenato verso sud, mostrando un azzurro limpido e freddo. Ed ecco che la pioggia tornava a prometterci un’altra settimana di maltempo.

Lugones aveva una stufa, il che lusingava a sufficienza il mio torpore invernale. Tornammo a sederci e continuammo a chiacchierare amabilmente, come si fa quando si parla di matti. Giorni prima Lugones aveva visitato un manicomio, e le bizzarrie dei suoi ospiti, unite a quelle che io da parte mia avevo osservato tempo addietro, offrivano materiale più che sufficiente per un confortante vis-à-vis tra uomini sani di mente.

Scesa ormai la notte, fummo piuttosto sorpresi quando sentimmo suonare alla porta. Qualche momento dopo entrava Lucas Díaz Vélez.

Tale individuo, che vidi quella sera per la prima volta, ebbe un’influenza piuttosto nefasta su un periodo della mia vita. Come d’abitudine, Lugones ci presentò usando solamente il cognome: scoprii il suo nome solo qualche tempo dopo.

Allora Díaz era molto più magro di adesso. Il suo vestito nero, i capelli biondo cenere, il viso affilato e i grandi occhi neri gli davano un’aria fuori dal comune. Gli occhi, soprattutto, fissi, come attoniti, e allo stesso tempo di una lucentezza velenosa, attiravano molto l’attenzione. All’epoca si pettinava con la riga in mezzo, e i suoi capelli lisci, perfettamente ordinati, formavano un casco lucente.

Sulle prime Vélez parlò poco. Seduto a gambe accavallate, rispondeva solo quando strettamente necessario. D’un tratto, mi voltai verso Lugones e notai che il tizio mi stava osservando. Senza dubbio, se si fosse trattato di un’altra persona avrei trovato naturale quell’analisi in seguito a una presentazione; eppure, l’immobile attenzione che mi rivolgeva mi stupì.

Ben presto smettemmo di parlare. La situazione non fu molto piacevole, soprattutto per Vélez, poiché probabilmente supponeva che prima del suo arrivo non fossimo chiusi in quel terribile mutismo. Fu lui stesso a rompere il silenzio. Parlò a Lugones di certe chancacas che un amico gli aveva mandato da Salta, e di cui avrebbe dovuto portare un assaggio quella sera. Sembrava si trattasse di una varietà particolarmente gustosa, e poiché Lugones si mostrava piuttosto incline a verificarlo, Díaz Vélez gli promise di inviargliene qualcuna.

Rotto il ghiaccio, in dieci minuti tornammo ai nostri matti. Sebbene non perdesse una parola di ciò che sentiva, Díaz non proferì verbo su quel tema scottante; forse non era di suo gradimento. Per questo, quando Lugones si allontanò un momento, mi sorprese il suo inaspettato interesse. In un attimo, mi raccontò stralci di aneddoti – le guance arrossate e le labbra precise e convinte. Senz’altro quegli argomenti gli erano molto più cari di quanto pensassi, e il suo ultimo racconto, riferito con profonda vivacità, mi diede a intendere che capiva i matti con una profondità non comune al mondo.

Era la storia di un ragazzo di provincia che una volta superato il marasma di una febbre tifoidea si era ritrovato a camminare lungo strade popolate di nemici: aveva sofferto per due mesi di manie di persecuzione, facendo non pochi danni. Poiché si trattava di un tipo piuttosto intelligente, lui stesso commentava il suo caso con una tale precisione che, ascoltandolo, non si sapeva davvero cosa pensare. Sembrava che stesse fingendo in tutto e per tutto, o almeno quella era l’opinione generale quando lo si ascoltava raccontare in modo picaresco il suo caso – il tutto con la vanità tipica dei matti.

Aveva passato i tre mesi successivi a pavoneggiarsi della sua perspicacia psicologica, finché un giorno non si era bagnato la testa con l’acqua fresca della sanità mentale e della modestia per le proprie idee.

«Ora sta bene», concluse Vélez, «ma gli sono rimasti alcuni tratti tipici del disturbo: una settimana fa, per esempio, l’ho incontrato in una farmacia; era appoggiato con la schiena al bancone ad aspettare non so cosa. Ci siamo messi a parlare. D’improvviso è entrato un tizio, senza che lo vedessimo, e poiché non c’era nessun dipendente si è messo a tamburellare le dita sul bancone per essere servito. Il mio amico si è girato bruscamente verso l’intruso con uno scatto davvero animale, e ha preso a guardarlo fisso negli occhi. Chiunque si sarebbe voltato, ma non con la rapidità di un uomo che sta sempre all’erta. Sebbene non soffra più di manie di persecuzione, ora gli è rimasto un inconsapevole fondo di terrore che lo coglie al minimo indizio di una brusca sorpresa. Dopo averne fissato la causa per un momento senza muovere un muscolo, sbatte le palpebre e distoglie lo sguardo, distratto. Sembra che abbia conservato un oscuro ricordo di qualcosa di terribile accadutogli in un altro tempo e contro cui non vuole più farsi trovare impreparato. Si immagini l’effetto che gli farebbe un’improvvisa stretta al braccio, per strada. Credo che non gli passerà mai».