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La lunga risata di tutti questi anni / 2

Diego Erlan Rodolfo Fogwill, SUR

Pubblichiamo la seconda parte del saggio ripreso dalla rivista «Ñ» che ci introduce nei diari di Fogwill. Qui la prima parte.

di Diego Erlan
traduzione di Cintia Scianna e Fabrizio Gabrielli

Gli anni del topo

Il catalogo dei sogni è stata l’unica scoperta, nell’archivio? “Io scopro qualcosa ogni giorno – riconosce Vera –, ma dal punto di vista familiare”.

Tuttavia c’è stato qualcosa in più. Nel bel mezzo di uno di questi quaderni, Verónica ha iniziato a notare che Fogwill cambiava il tono dei suoi testi, ripeteva certe parole e si riferiva a persone del suo entourage. “Non erano solo sogni, allora”, s’è detta. Si tratta di una ventina di pagine, nelle quali si possono leggere frasi come “Giorni paralizzati dall’andirivieni del topo”, “Andare da Franck” [Potrebbe riferirsi alla panetteria Franck Douffois, una delle più en vogue di Buenos Aires], “Cucino solo”. “Al mercato non solo penso all’effetto dei cinesi”, “Come pulirsi”, “Dialogo con Vera. Perché non le scrivo? E s’arrabbia”, “Liberarmi del topo”, “Dove sono caduto”, “Vera solidale, fino a che punto?”, “Paralizzato fino alle quattro”; o ancora, su un post-it giallo si legge: “Potrei non avere ragione alcuna?”. Cambiava il colore della stilografica, o addirittura modificava la calligrafia. Ci sono pagine scritte in rosso in cui la calligrafia, in un certo modo, descrive la sua ansia. “Era l’anno in cui il mio vecchio voleva mollare la cocaina”, ricorda Vera.

Se lo ricorda perché è stato l’anno in cui se n’è andata a vivere da sola, e perché poco tempo dopo il padre le ha chiesto aiuto, ché non aveva un posto in cui stare. È una specie di diario intimo, quello che tenne Fogwill per tutto il 1988. Differente dall’idea di diario di scrittore così come lo conosciamo. Vera cerca di decifrare una parte di questi scritti, e Verónica la aiuta: “Bilancio: di tutta la nidiata l’unico serio e adeguato è stato FF [Francisco Fogwill, uno dei figli]. Renata ha rimediato, Elsa s’è fatta nobile, Francisco ha amato. Vera ha pagato. Andrés ha pagato, e l’ha fatta pagare. R. Jakoby ha accolto”.

“Scriveva Jacoby con la k?”. “Tu non sai come scriveva mio papà”, dice Vera. “Impazziva”.

Ci sono file nel suo computer nei quali invece di leggersi “las” si legge “lllllllllllas”. “Non gli importava niente, scriveva senza arrestarsi mai”. Inoltre aveva sempre le tastiere rotte. A volte, dato che gli mancava il tasto “i”, utilizzava la “o”. E poi di tanto in tanto correggeva. Come fa uno scrittore a scrivere senza una tastiera funzionante?, si domandavano. Per questo Vera aveva fatto così tanta fatica a capire alcuni dei libri rimasti inediti.

Un giorno, mentre mettevano sottosopra la casa di Palermo, Verónica ha trovato un manoscritto originale d’un centinaio di pagine. Lo ha dato da leggere a Vera, ma più o meno alla metà ha avuto la conferma di quanto supponeva: “Questo non è del mio vecchio”, si è sentita dire. Capita che nel testo appariva la parola “ritirata” (nel senso di toilette): Fogwill non l’avrebbe mai utilizzata, quella parola. “Il mio vecchio non avrebbe mai scritto frasi come una donna deliziosa. No. Avrebbe scritto, piuttosto: una donna fatta per essere scopata. Uno lo sa come pensava, e quello che ha scritto”. Per interpretare quei testi, Vera ha fatto affidamento su alcuni degli amici scrittori, come Damián Ríos o Ignacio Echevarría, ai quali Fogwill dava i suoi libri ancora in progress.

Lettore di originali

Damián Ríos è scrittore ed editore, e vive in un appartamento nel quartiere di Once dove conserva, in un paio d’armadi della sua stanza, centinaia di manoscritti originali di scrittori consacrati o sconosciuti. Come direttore editoriale di Interzona, nella prima tappa della sua carriera, a Ríos toccò sopportare un Fogwill ossessionato dalla letteratura argentina, era attentissimo a tutto quello che veniva pubblicato, “a quello che funzionava, al canone come campo di tensione”, confessa l’editore. Uno dei grandi insegnamenti che gli ha lasciato Fogwill, e che può ritrovarsi nella sua letteratura, nella sua corrispondenza e nel suo mito, è che pensare è ancora possibile. E pensare, da un punto di vista letterario, significava utilizzare procedimenti che sono al fulcro del linguaggio: lui pensava attraverso figure retoriche, rime, allitterazioni. Fogwill tornava a ritroso fino al Siglo de Oro per pensare, ed è proprio questa una delle maggiori sfide per la traduzione di un’opera alla quale si aggiungono ora tre nuovi libri: La gran ventana de los sueños, La introducción e Nuestro modo de vida.

 

Scoperto in Cile grazie a un’amica dell’autore, Nuestro modo de vida sarebbe il primo romanzo scritto da Fogwill al principio degli anni ’80. È minuziosamente dattiloscritto (sicuramente per mano della sua segretaria), ordinato in una cartellina e con una legenda sul frontespizio che avvisa: bozza. Addirittura, quasi il settanta percento delle sue pagine sono barrate in diagonale con un evidenziatore nero. Dovrebbe esserci una versione posteriore, corretta, del 1981. Ma il problema è che quella versione posteriore non si trova da nessuna parte. Narra la vita di una coppia della classe media che vive in quello che oggi chiameremmo un quartiere chiuso. “Ho prodotto Nuestro modo de vida nel tentativo di plagiare La Luz Argentina (scritto nel 1983; ndt), bel romanzo del narratore argentino César Aira. Ho preso un paio di temi centrali – la questione della coppia, il problema della divisione tra il di fuori e il di dentro –  che mi sembravano sviluppati in maniera insufficiente nell’opera di Aira, e mi sono proposto di portarli a uno stadio più avanzato a partire da due indizi: il fiato spezzato del personaggio, dovuto a uno dei suoi acciacchi respiratori, mi conduceva alla questione del confine tra interiorità ed esteriorità del corpo umano; la peculiare psicopatologia di sua moglie, Kitty, mi offriva la possibilità di accedere al tema del confine tra interiorità ed esteriorità all’istituto della famiglia”, scrive Fogwill nel prologo dell’opera. “Ma non si tratta, qua, del dentro o fuori dal corpo, né del dentro o fuori dalla famiglia. Il mio obiettivo, se si riesce a scovarlo nell’opera, è il confine tra il dentro e il fuori dalla famiglia inteso come allegoria del confine tra il dentro e il fuori dalla vita umana”. In quella circostanza Fogwill ammette di non saperlo troppo bene, se c’è realmente riuscito, e conclude con uno dei suoi caratteristici movimenti: “Chissà che non ci riesca Aira in uno dei suoi prossimi romanzi”.

Nuestro modo de vida è un romanzo contemporaneo a Los Pichiciegos, spiega Damián Ríos. E anche al suo miglior periodo di produzione di racconti, come La larga risa de todos estos años. Perché allora esordire con l’intento di entrare in competizione con César Aira? “Fogwill vuole prendere una posizione: aveva realizzato, prima di ogni altri, che Aira sarebbe stato lo scrittore più importante d’Argentina”, spiega Ríos, ed è per questo motivo che vuole confrontarsi con La Luz Argentina, la cui prima edizione (e finora unica, quella del Centro Editor de América Latina) è del 1983. Così come La experiencia sensible o vari altri racconti della stessa epoca, in Nuestro modo de vida Fogwill si dedica alla descrizione dei consumi e dello stile di vita della classe media agiata. Si tratta di un romanzo in cui il Fogwill sociologo è molto più presente del Fogwill poeta. C’è una scena in cui il personaggio, che ha degli uffici dalle parti di Catalinas, guarda dalle vetrate il porto vecchio e ci immagina ardentemente dei ristoranti [Questa zona, oggi Puerto Maderos, è famosa per accogliere ristoranti, alberghi e uffici molto chic; ndt]. “Se lo si inquadra in un’ottica imprenditoriale – dice Ríos – Fogwill ce l’aveva, una visione. Quel ch’è successo è che si è ridotto sul lastrico, per colpa della letteratura. Al di là di quanto possa suonare romantico, come concetto, Fogwill s’era avvicinato alla letteratura per sbaglio: perché un giorno aveva scritto Muchacha punk, un racconto che gli era venuto bene, e s’era entusiasmato. Era stato un impresario di successo. Per questo gli riusciva di mettersi nei panni dell’impresario. Sono testi che presentano il punto di vista di chi ha il potere. La introducción, invece, di par suo, mette in luce – secondo Ríos – un’altra peculiarità nella narrativa di Fogwill: un personaggio femminile totalmente differente da qualsiasi altro personaggio femminile Fogwill abbia mai costruito. Terminato alcuni anni prima della sua morte, La introducción inizia con un viaggio: “La sua testa se ne rimaneva fuori da ogni contemplazione, libera da qualsiasi attribuzione di stile. Se ne stava lì, come se constatare l’armonia, o la disarmonia, del movimento meccanico di altre teste fosse l’unica missione che avesse al mondo, e per questo, l’unico motivo che l’avrebbe portato a salire a bordo dell’omnibus e a piazzarla là, con sé, nella penultima fila di poltroncine”, scrive Fogwill all’inizio di questo racconto, che narra di un uomo che viaggia in omnibus verso le terme di Flores[1]; un’opera del ventunesimo secolo, come spiega l’autore nel prologo, che “si limita a narrare ciò che fanno, pensano, desiderano e sopportano i suoi personaggi, esseri umani del terzo millennio con desideri, azioni, sofferenze, pensieri che sfiorano la banalità, sebbene ci sia sempre qualcosa a far sì che una banalità narrata finisca per sembrare più rimarchevole di quella che quotidianamente vive il lettore”. [Ovviamente non esistono terme, a Flores. Ma è interessante ricordare la genesi di questo posto fantastico nelle parole dello stesso Fogwill: “Siccome il quartiere di Flores è molto significativo per tutti, come La Boca e San Telmo, succede che un signore che aveva degli appezzamenti di terra a Ezeiza trova dell’acqua calda, salata, che è proprio là, in basso, a quattrocento metri di profondità; e allora dice che mette una bomba, a quattromila metri di profondità, e crea uno stabilimento termale. Crea una specie di La Salada (uno dei mercati più tipici e grandi di Buenos Aires, NdT), però di superélite. Fa una Spa, e la chiama Flores, come il quartiere di Flores, che è poi dov’è nato Aira”] Al centro della storia c’è la superbia della scienza medica, una medicina scientifica che è “assolutamente efficace e soddisfa l’ideale umano di benessere, felicità e longevità che sembra essere un tacito articolo della Costituzione dello Stato Moderno”. Il personaggio della donna appare quasi all’ultimo, e secondo Ríos sarà una vera delizia per i critici più analitici: perché è una donna potente, intelligente, economicamente indipendente, molto seducente ma senza quella caratterizzazione di donnaccia o di ragazza molto più giovane tipica in Fogwill, quanto piuttosto di donna matura, che in pratica sottomette il narratore.

Un Fogwill imparruccato, insomma.

L’ultimo agitatore

Si potrebbe azzardare una teoria: lo spazio fisico di Fogwill come un riflesso della sua testa, e la sua opera, come un’estetica del caos. Sudiciume, un’accozzaglia di scartoffie, buste del supermercato, tastiere senza tasti o un laptop con resti di cioccolato e altre sostanze – che i benpensanti identificheranno come after-shave. Una teoria che potrebbe estendersi al suo computer: un monitor pieno zeppo di icone di documenti di Word. Doveva vivere in questo scenario, per poter scrivere? Damián Ríos prova ad analizzare com’è che funzionasse la testa di Fogwill, e crede che non avrebbe potuto dedicarsi alla letteratura se avesse continuato a fare il pubblicitario.

Aveva bisogno di un cambiamento spirituale, e questo cambiamento a sua volta doveva essere anche fisico. “Fu un tipo che non volle proseguire con la sua carriera da impresario, ma neppure perseguire una carriera accademica, un tipo che decise di opporsi all’ordine, all’immagine tipica dell’intellettuale con la sua biblioteca, all’immagine stereotipata di quegli scrittori ipercorretti, precisini, che considerava burocrati. Per questo rinunciò a tutto”. Negli ultimi anni della sua vita gli restavano poco più di mille libri. “C’era qualcosa di vitale nell’incasinamento che era la sua vita”, analizza Ríos. “Tutto ciò che potevi incontrare nel suo appartamento e che sembrava abbandonato era qualcosa di vivo”. Perché magari era una poesia scritta a metà, o una lettera che aveva ricevuto e alla quale stava per rispondere, o un floppy disk con il libro di un autore inedito. Per molto tempo, Fogwill tenne su un tavolinetto i fogli stampati di un libro di poesie, Punctum, di Martín Gambarotta, perché riteneva ci fosse più pensiero critico in uno dei passaggi di quel libro che in tutta l’opera saggistica di Horacio González [Sociologo, docente, saggista, direttore della Biblioteca Nacional; ndt]. In quel disordine, secondo Ríos, Fogwill aveva trovato un luogo molto più potente di qualsiasi altro per pensare alla politica, al sociale, alla letteratura.

Chi l’ha conosciuto ricorda Fogwill come uno degli ultimi scrittori argentini capaci di irradiare un vero entusiasmo e una vera fede nella letteratura. “Poteva darsi che passassero sei mesi senza parlarsi, e poi ti chiamava per domandarti cosa stessi scrivendo, a che stessi lavorando – dice Ríos. – La sua letteratura non importava: voleva spingerti a scrivere perché scrivere era un obbligo morale, perché se non scrivi va tutto male, perché se non scrivi tu scrivono gli altri. E se sono gli altri, a scrivere, va tutto a puttane”.

© Diego Erlan, 2012. Tutti i diritti riservati.

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