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«Dormire al sole», un estratto

«Una volta ho detto che se i libri fossero case, mi piacerebbe andare a vivere in Dormire al sole [1]. È forse il libro che mi rappresenta nel modo più autentico». Il 15 settembre 1914 nasceva Adolfo Bioy Casares [2]. Vogliamo ricordare il maestro della letteratura argentina con un brano tratto dal suo libro del cuore. Buona lettura!

da Dormire al sole
di Adolfo Bioy Casares
traduzione di Francesca Lazzarato

C’è chi ha detto, lo so, che nel matrimonio non ho avuto fortuna. Sarebbe meglio che gli estranei non dicessero la loro sulle faccende private, perché di solito sbagliano. Ma vaglielo a spiegare, a quelli del quartiere e ai parenti, che sono degli estranei.
Il carattere della mia signora è piuttosto difficile. Diana non perdona la minima dimenticanza, non la concepisce neanche, e se arrivo a casa con un regalo extra mi chiede: «Cos’hai da farti perdonare?» È puntigliosa e diffidente all’estremo. Si rattrista a ogni bella notizia, perché suppone che per compensarla ne arriverà una brutta.
E nemmeno le nasconderò che in molte occasioni io e la mia signora abbiamo litigato e che una sera – il baccano l’ha sentito tutto il pasaje, temo –, fermamente deciso ad andarmene, sono arrivato fino all’avenida de los Incas per aspettare l’autobus, che per fortuna era in ritardo e mi ha dato il tempo di ripensarci. È probabile che molte coppie affrontino dispiaceri del genere. È la vita moderna, la velocità. Posso dirle, però, che le amarezze e le divergenze non sono riuscite a separarci.
Mi stupisce che la gente detesti tanto la compassione. A giudicare da come parlano, si direbbe che le persone siano d’acciaio. Se la vedo dispiaciuta per quello che fa quando non è in sé, provo una sincera compassione per la mia signora, e la mia signora la prova per me, quando sono amareggiato per colpa sua. Glielo assicuro, le persone si credono d’acciaio, ma la sofferenza le ammorbidisce. In questo, Ceferina è come gli altri. Per lei compassione significa solo debolezza e disprezzo.
Ceferina, che mi ama come un figlio, non ha mai accettato del tutto la mia signora. Nel tentativo di capire tanta ostilità, sono arrivato a sospettare che Ceferina avrebbe lo stesso atteggiamento nei confronti di qualunque donna mi stesse accanto. Quando gliene ho parlato, Diana ha risposto: «La ripago con la stessa moneta».
La gente non ama nessuno quanto il proprio odio. Le confesso che più di una volta, fra queste due donne in fondo buone, mi sono sentito abbandonato e solo. Meno male che mi restava sempre il rifugio del laboratorio di orologeria.
Le darò una prova del fatto che la malevolenza di Ceferina nei confronti di Diana era, nella cerchia familiare, tutt’altro che segreta. Una mattina la vecchia comparve col giornale e ci indicò un trafiletto che diceva più o meno: «Tragico ballo in maschera a Paso del Molino. Si è fidato del domino che aveva accanto perché credeva fosse la moglie. Era l’assassina». Eravamo così suscettibili che ci bastò leggerlo per litigare. Diana, lei non ci crederà, si sentì chiamata in causa e io fui d’accordo, e la vecchia, cose da pazzi, prese l’aria di chi dice visto?, come se avesse letto qualcosa di compromettente per la mia signora, o comunque per la categoria delle mogli. Ci misi più di quattordici ore a capire che non era stata la moglie a uccidere l’uomo del ballo. Ed evitai di chiarire, per paura di riaccendere la discussione.
Una cosa l’ho imparata: non è vero che parlando ci si capisce. Le faccio l’esempio di una situazione che si è ripetuta infinite volte. Vedo la mia signora depressa o di cattivo umore e, naturalmente, mi rattristo. Dopo un po’ mi domanda: «Perché sei triste?»
«Perché mi sembrava che tu non fossi contenta».
«Mi è già passata».
Avrei voglia di risponderle che a me no, non sono così svelto, non passo così in fretta dalla tristezza all’allegria. Nel tentativo di essere affettuoso, magari aggiungo: «Se non vuoi rattristarmi, non essere mai triste».
Vedesse come si arrabbia.
«Allora non venire a raccontarmi che ti preoccupi per me», grida, come se fossi sordo. «Non te ne importa niente di quello che provo. Il signore vuole che sua moglie stia bene, per essere lasciato in pace. È tutto preso dagli affari suoi e non vuole seccature. Ed è anche vanitoso».
«Non arrabbiarti, che poi ti viene un herpes sul labbro», le dico, perché è sempre stata soggetta a queste piaghette che le danno fastidio e la irritano.
Mi risponde: «Hai paura del contagio?»
Non le sto raccontando la scena per parlare male della mia signora. Forse la racconto contro me stesso. Mentre ascolto Diana le do ragione, anche se ogni tanto ho i miei dubbi. E se per caso prende la sua posizione più caratteristica – rannicchiata su una poltrona, abbracciandosi una gamba, con il viso appoggiato al ginocchio e lo sguardo perso nel vuoto –, i dubbi svaniscono e, ammaliato, chiedo perdono. Stravedo per la sua figura e le sue forme, per la sua carnagione rosea, i suoi capelli biondi, le sue mani sottili, il suo odore, e soprattutto per i suoi occhi incomparabili. Lei, magari, mi chiamerà schiavo; ognuno è fatto a modo proprio.
Nel quartiere fanno in fretta a dire che una signora è pigra, o ha un brutto carattere, o che va troppo in giro, ma non si preoccupano di capire che cosa le succede. Diana, lo so per certo, soffre perché non ha figli. Me l’ha spiegato un medico e me l’ha confermato una dottoressa piuttosto in gamba. Quando Martincito, il figlio di mia cognata, un ragazzino insopportabile, viene a passare qualche giorno con noi, la mia signora si fa in quattro, non la si riconosce più, è una donna felice.
Come succede a tante donne senza figli, gli animali l’attirano moltissimo. L’occasione per confermare quello che dico si è presentata qualche tempo fa.

© Adolfo Bioy Casares ed eredi, 1973. Tutti i diritti riservati