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L’esecuzione di Severino Di Giovanni

È uscito da poco per Agenzia X il libro «Severino Di Giovanni. C’era una volta in America del sud», del giornalista e scrittore argentino Osvaldo Bayer, curato e tradotto da Alberto Prunetti. (Qui [1] trovate una breve scheda del libro.)
Severino Di Giovanni (1901-1931), tipografo emigrato in Argentina nel 1922 per sfuggire alla repressione fascista, proseguì la sua attività di anarchico insurrezionalista. Uomo d’azione, organizza rapine in banca per finanziare il movimento e assalti ai commissariati di polizia dove venivano torturati gli oppositori politici. Figura controversa, soprattutto dopo l’uccisione di un altro dirigente anarchico, viene arrestato nella sua tipografia, dopo un’inutile difesa e un tentativo di suicidio ed è subito condannato e fucilato.
Alla sua esecuzione assiste come giornalista un testimone d’eccezione, Roberto Arlt, che scrive poi una delle sue “acqueforti”.
Pubblichiamo uno stralcio del libro che riproduce proprio questo pezzo giornalistico di Arlt, ringraziando la casa editrice e il curatore, Alberto Prunetti.

Quando il plotone era ormai pronto e il sergente diede l’ordine di puntare, Di Giovanni si irrigidì fortemente contro la spalliera della sedia, alzò la testa, tese tutti i muscoli, e ergendosi quanto gli fosse possibile, concretizzò in un grido il suo ultimo pensiero. Nell’angosciato silenzio del momento, un grido acuto uscì dalla sua gola:
‘Evviva l’anarchia!’
Pochi secondi dopo, il capo del plotone abbassò la spada e il corpo di Di Giovanni fu attraversato da otto pallottole. II suo viso si contrasse in una smorfia violenta di dolore. Una reazione muscolare lo fece sollevare un po’ dalla sedia per poi ricadere pesantemente sul lato sinistro del costato. Lo schienale della sedia saltò, fatto a pezzi. Un grande fiotto di sangue inondò la sedia e cadde al suolo.
Appena caduto, il capo del plotone si avvicinò al corpo e gli tirò il colpo di grazia, che penetrò nella tempia destra.
Un atroce ululato ruppe il silenzio: erano i prigionieri del carcere che salutavano il loro compagno”
“L’Italia del popolo” aggiunge: “Si muove ancora, per quanto abbia il petto attraversato dai proiettili non è morto sul colpo. Si avvicina il sergente per il colpo di grazia. Preciso e efficace. C’è un tremito del corpo, che poi rimane immobile. Sono le 5.10 del mattino”.
Il “Buenos Aires Herald” scriverà: “La scarica ha ucciso il più bello tra i presenti”. Per i cattolici, era stato estirpato dal paese “l’essere più maligno che abbia mai calcato il suolo argentino”.


Tra il pubblico c’erano persone vestite in abito da sera, convinte di andare a un ricevimento mondano. Confuso tra di loro c’è un testimone silenzioso, solitario. È lo scrittore Roberto Arlt, che ha intenzione di scrivere una delle sue “Acqueforti portegne” per “El Mundo”. Ha osservato tutto e scriverà quello che ha scritto, nient’altro. Verso l’anarchico non prova né ammirazione né misericordia. Solo una profonda curiosità. Per la società che lo condanna non sente odio né disprezzo. Non ha bisogno di descriverla con aggettivi, di definirla. Senza saperlo, applica il distanziamento brechtiano. Si permette una morale solo alla fine, un tocco di ironia. Il suo pezzo si intitola “Ho visto morire”. Eccolo:

“Le cinque meno tre minuti. Volti affannati dietro le sbarre. Cinque meno due minuti. Stride il chiavistello e la porta di ferro si apre. Uomini che si affrettano quasi corressero a prendere il tranvai. Ombre che fanno grandi salti lungo i corridoi illuminati. Rumori delle culatte delle armi. Altre ombre che galoppano.
Siamo tutti qui per Severino Di Giovanni, per vederlo morire.
Pezzo di cielo azzurro. Selciato rustico. Un’aiuola verde. Una comoda sedia da cucina in mezzo all’aiuola. Truppe. Mauser. Lampade che con la luce castigano l’oscurità. Un rettangolo. Sembra un ring. Il ring della morte.
Un ufficiale.
‘… in applicazione delle disposizioni… per violazione del bando… legge numero…’
L’ufficiale sotto il paralume infangato. Davanti a lui, una testa, Un volto che pare imbrattato di olio rosso. Occhi terribili e fissi, verniciati dalla febbre. Un nero assedio di teste.
“È Severino Di Giovanni. Mandibola preminente. Fronte che fugge verso le tempie come una pantera. Labbra fini e straordinariamente rosse. Fronte rossa. Guance rosse. Petto bordato dai risvolti azzurri della camicia. Labbra che sembrano ferite levigate. Si socchiudono lentamente e la lingua, più rossa di un peperone, lecca le labbra, le inumidisce. Questo corpo arde di temperatura. Assapora la morte.
L’ufficiale legge:
‘… articolo numero… legge dello stato d’assedio… tribunale superiore… visto… sia passato al tribunale superiore… di guerra, truppa e sottufficiali…’
‘Di Giovanni guarda il volto dell’ufficiale. Proietta su questo volto la forza tremenda del suo sguardo e della volontà che lo mantiene sereno.
‘… essendo provato si avvisa il tenente… Risso Patrón, consiglieri… tenente colonnelli… bando… due copie… foglio numero…”
Di Giovanni si inumidisce le labbra con la lingua. Ascolta con attenzione, sembra analizzare le clausole di un contratto la cui stipulazione sia importantissima. Muove la testa in segno di assenso, di fronte alla precisione dei termini con cui è stata redatta la sentenza.
‘… si fa leggere al ministro della Guerra… che sia fucilato… firmato, segretario…’
‘Chiedo perdono al tenente difensore…’
Una voce: ‘Non si può parlare. Portatelo via’.
Il condannato cammina come un’anatra. I piedi sono incatenati con una barra di ferro alle manette che gli cingono le mani. Attraversa il sentiero di rustico selciato. Alcuni spettatori ridono. Per idiozia? Per nervosismo? Chissà.
Il reo si siede tranquillo sulla sedia. Appoggia la schiena e tira in fuori il petto. Guarda in alto. Poi si abbassa e sembra, con le mani abbandonate tra le ginocchia aperte, un uomo che controlla il fuoco mentre si riscalda l’acqua per bere il mate.
Rimane così per quattro secondi. Un sottufficiale gli incrocia sul petto una corda, perché non cada a terra quando i proiettili lo ammazzeranno. Di Giovanni gira la testa da destra a sinistra e si lascia legare.
Si è formato il bianco plotone d’esecuzione. Il sottufficiale vuole bendare il condannato. Che grida: ‘Niente benda’.
Guarda con durezza gli esecutori. Emana volontà. Se soffre o no, è un segreto. Ma rimane così, duro, orgoglioso.
Nasce una difficoltà. Il timore che le pallottole possano rimbalzare obbliga i militari, perpendicolari al plotone d’esecuzione, a ritirarsi di qualche passo.
Di Giovanni rimane diritto, con la spalla appoggiata allo schienale. Sopra la sua testa, su un camminatoio in muratura grigia, si muovono le gambe dei soldati. Tira in fuori il petto. Sarà per ricevere le pallottole?
“Plotone, attenti! Puntate!
La voce del reo scoppia metallica, vibrante:
‘Viva l’Anarchia!’
‘Fuoco!’
Improvvisa fiammata. Un corpo robusto si è trasformato in una lamina di carta piegata. I proiettili rompono la corda. Il corpo cade di faccia e rimane sul prato verde con le mani che toccano le ginocchia.
Esplode il colpo di grazia.
Le pallottole hanno scritto l’ultima parola sul corpo del reo. Il volto rimane sereno. Pallido. Gli occhi socchiusi. Un fabbro martella i piedi del cadavere. Gli toglie le ribattiture dei ceppi e la barra di ferro. Un medico lo osserva. Certifica che il condannato è morto. Un signore, venuto in frac e con scarpe da ballo, si allontana con il cappello sulla chierica. Sembra che esca dal cabaret. Un altro dice una parola offensiva.
Vedo quattro tipi pallidi come morti e sfigurati, che si mordono le labbra. Sono Gauna de “La Razón”, Alvarez di “Última Hora”, Enrique González Tuñon di “Critíca” e Gómez de “El mundo”. Io sono come ubriaco. Penso a quelli che ridono. Penso che all’entrata del penitenziario bisognerebbe mettere un cartello con scritto: ‘Vietato ridere. Vietato entrare con scarpe da ballo’”.