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Sessant’anni di Pedro Páramo

A sessant’anni dalla pubblicazione di Pedro Páramo, considerato il capolavoro dell’autore, pubblichiamo un articolo che ripercorre il territorio narrativo di Juan Rulfo per scoprire una serie di racconti sul potere, lo sconforto e la memoria. Il pezzo è uscito su Horizontal [1].

di Geney Beltrán Félix
traduzione di Francesca Signorello

Le parole che inaugurano l’entrata di Juan Rulfo nel mondo letterario sono dominate dalla negazione: «Dopo tante ore passate a camminare senza incontrare neppure l’ombra di un albero, neppure un seme di albero, una radice di niente, si sente il latrare dei cani». Si tratta del paragrafo iniziale di «Ci hanno dato la terra», il primo racconto di La pianura in fiamme (1953), originariamente pubblicato nel 1945 sulla rivista Pan. La scrittura si rifiuta di delineare una visione dell’ambiente; disegna ciò che non esiste. La natura è un posto arido in cui mancano il verde e un appiglio per vivere: è assenza pura, l’annullamento dell’essere.

I contadini hanno peregrinato con il timore che «non si potrà trovare niente laggiù, in fondo a questa piana rigata da crepe e torrenti in secca» che il governo aveva distribuito loro durante la riforma agraria affinché la coltivassero. È una concessione ipocrita, poiché questa terra non dà sostentamento; non è materna ma aspra, nemica tanto è desertica. La traversata sembra finita quando gli uomini scoprono che lì nei paraggi c’è un paesino; ma le tracce di vita umana sono in realtà tracce di animali: «Si sente che latrano i cani e si sente nell’aria l’odore del fumo, e si assapora quest’odore di gente come fosse una speranza».

Ricordiamo bene questo dettaglio: nella pagina primordiale delle creazioni rulfiane quello che si trova degli altri, fatta eccezione per una lunga barriera di negazioni, non è la loro presenza, bensì il loro odore, inafferrabile come il fumo, che preannuncia in lontananza la presenza benevola di un respiro.

I temi della distruzione

Non c’è via d’uscita: l’elenco dei fatti narrati nella Pianura in fiamme e Pedro Páramo (1955), le due facce dell’universo letterario di Rulfo, è tutto meno che confortante: contadini condannati alla fame per aver ricevuto terre sterili, una famiglia in rovina a causa di un’inondazione, bambine e adolescenti senz’altro futuro che la prostituzione, migranti fucilati mentre attraversano un fiume, un militare che impiega i suoi soldati per compiere una vecchia vendetta familiare, la persecuzione e l’assassinio di un uomo che ha sterminato a sua volta una famiglia intera, un adolescente che perpetua violenze e uccisioni senza che nessuno riesca a fermarlo, un malato che agonizza e muore durante un viaggio… Inoltre, in Pedro Páramo, si può riconoscere un sociopatico che, tra le altre doti, approfitta di ogni occasione per sottrarre terre ai vicini e genera figli che lascia cadere nel dimenticatoio. Rulfo è un esempio, come ce ne sono pochi, di artista che considera la materia trattata, i temi della sua narrativa, come profondamente propri. È possibile immaginare un libro di Rulfo sulla Germania nazista o sull’impero messicano di Massimiliano d’Asburgo? Sebbene non siano mancate le letture mitiche e metafisiche di Pedro Páramo («La sua visione del mondo è, in realtà, visione di un altro mondo», scrisse Octavio Paz nel 1960), la misura della sua longevità come narratore si può ricondurre all’origine nostrana, locale, delle sue storie, e alla visione oscura che le genera.

Qua e là, tuttavia, si registrano casi – pochi – di tenerezza o affetto. Eppure, questi gesti finiscono per essere messi in discussione o sovvertiti del tutto dall’ironia drammatica: un esempio è quello di un racconto della Pianura in fiamme, in cui l’affetto è rivolto a un animale (una gallina) invece che a un essere umano; un altro caso è quello di un uomo che sente la mancanza della propria famiglia, ma non per questo rinuncia a sterminare quella di un altro; infine, in Pedro Páramo, una donna che desiderava diventare madre e allevare un neonato fa l’impossibile per procurare ragazzine a uno stupratore…

Quindi non c’è solo un ambiente arido e ostile. Se esiste una definizione appropriata degli esseri umani presenti nell’opera di Rulfo, è il carattere infido, meschino e malevolo delle loro azioni.

Ecco perché la speranza che si assapora nell’odore degli abitanti di un paesino, aprendo le prime pagine di La pianura in fiamme, non sopravvive al contatto, ai fatti: la maggior parte dei personaggi di Rulfo vive nella miseria, patisce gli eccessi del potere e risponde a sua volta con intemperanza. Questi due libri, infatti, sono una sfilata di quadri estremi di povertà, violenza e ingiustizia nella campagna di Jalisco, nel periodo storico che va dal Porfiriato alla Guerra Cristera, scritti da un autore nato negli ultimi anni della lotta rivoluzionaria (1917), rimasto orfano da bambino, e testimone di brutalità tra soldati e cristeros (1926-1929), che avrebbe raggiunto la notorietà (1953-1955) durante l’apogeo del Milagro Mexicano, culmine dell’autoritarismo presidenzialista. Ora si capisce perché la sua opera nasce con una manciata di negazioni fin dalla prima riga. La sua ostinata insistenza nel toccare questa corda ci fa supporre che Rulfo sia l’affabulatore maestro del fatalismo puro.

Il valore critico dello sconforto

La cosa certa è che, fatta eccezione per qualche momento di parodia e farsa, in Rulfo non ci sono né sfumaturené concessioni: nei suoi paesini abbondano i diseredati. E sono vittime trascinate nella miseria da una trinità di nemici: la natura, il governo e la famiglia.

A una terra avara, se non distruttrice immotivata, che priva i contadini di cibo sicuro e di una forma elementare di protezione, si deve aggiungere l’abbandono da parte delle istituzioni statali. Nella Pianura in fiamme il governo si manifesta come una forza distante e crudele che compare di tanto in tanto per spogliare i contadini dei propri averi, arrestare un fuggitivo, chiamare alle armi, condannare alla fame. «Dici che il governo ci aiuterà, signor maestro? Ma tu lo conosci il governo? […] Anche noi lo conosciamo. Guarda caso. Quella che non conosciamo è la madre del governo», rispondono al maestro forestiero gli abitanti di un paesino perduto nella lontananza e nell’abbandono, in «Luvina». Questo maestro, la voce predominante nel racconto «La pianura in fiamme», il più affine per atmosfera a Pedro Páramo, è forse il rappresentante più umano del potere che troviamo in Rulfo, e si presenta in maniera emblematica come un individuo invecchiato precocemente, deluso e distrutto, senza più energie né speranze.

In Pedro Páramo il suo equivalente sarebbe un sacerdote – l’altra figura del magistero per il Messico contadino –, padre Rentería, che esercita le briciole del potere religioso mentre vivacchia tra l’indignazione e l’impotenza davanti a Pedro Páramo, il proprietario terriero che esercita, lui sì, il dominio reale in forma dispotica e che compra la legge quando necessario, se non è lui stesso a generarla con i propri eccessi: «Quali leggi, Fulgor? Da ora in avanti la legge la faremo noi».

Questo tiranno è l’uomo che cerca Juan Preciado nella cittadina di Comala, come si narra nella prima pagina. Sua madre, prima di morire, gli assegnò il compito di costringere quell’uomo a restituire il maltolto: «Pretendi solo ciò che è nostro. Ciò che era obbligato a darmi e che non mi diede mai… Figlio mio, fagli pagare caro l’oblio in cui ci ha lasciati». Lui le assicurò che lo avrebbe fatto, ma non pensava di mantenere la promessa. «Fino a ora, quando cominciai a sognare, a far volare le illusioni. E in questo modo prese forma un mondo intorno all’aspettativa rappresentata da quel signore chiamato Pedro Páramo».

Quanto detto ha fatto supporre a più di un critico che Pedro Páramo sia la riscrittura del racconto di Telemaco, la storia di un uomo alla ricerca delle radici paterne. Ma l’odissea di Juan Preciado non arriva a compiersi; non si conosce la sua vita precedente, né si spiega come la mancanza del padre gli avrebbe mutilato l’esistenza fin dall’infanzia, a tal punto che il confronto con la spettrale Comala, che suo padre dominò e distrusse, finirà per spingerlo a una forma di agnizione. Diciamo che la parentela gli consegna non un’eredità terriera o monetaria ma il ruolo di testimone, che raccoglie le dichiarazioni delle vittime del padre.

Nella Pianura in fiamme c’è una versione più violenta del figlio senza padre; in lui si nota, anche se in maniera superficiale, il conflitto causato dalla propria condizione. È il colonnello di «Digli che non mi ammazzino!». Quasi per giustificarsi della vendetta che sta per compiere, il militare racconta: «Guadalupe Terreros era mio padre. Quando crebbi e andai a cercarlo mi dissero che era morto. È difficile crescere sapendo che tutto quello che hai per attaccarti e mettere radici è morto. A noi, è successo questo». La differenza tra il colonnello e Juan Preciado non è difficile da cogliere: uno è vivo, l’altro – lo verremo a sapere dopo – è morto, e un morto non soffre più a causa di remore psicologiche. Questo sì: nella prima pagina del romanzo, ha espresso i propri sogni e le proprie illusioni; qui, come nell’incipit della Pianura in fiamme, si nomina la speranza («la speranza che era quel signore chiamato Pedro Páramo»), parola che non sopravvive al susseguirsi dei furti e dei tradimenti che nacquero dalla volontà di quel padre sconosciuto.

A quanto si dice, il tiranno ha disseminato figli per la provincia, anche se a predominare sono solo i nomi e le avventure di tre di loro. Tutto questo per sottolineare che, in primo luogo, Pedro Páramo non è tanto un romanzo sulla ricerca del padre, quanto sui crimini commessi da un potente che funge da padre di una comunità. Perciò Jorge Ruffinelli sottolinea il legame tra le caratteristiche del potere politico nell’orbe rulfiano e la figura del padre: «Lo Stato-Padre non è realizzabile se non come espediente ideato dalle stesse classi dominanti… in questo modo indios, meticci poveri, ossia la maggior parte della popolazione messicana, ottengono dal governo un padre che li abbandona, nonostante continui a vivere nella sua promessa di protezione. Il paternalismo statale è una materializzazione del padre onnipotente restio a occuparsi dei figli più bisognosi».

Lo spessore politico del padre non si riduce a questa lettura, poiché il nucleo della devastazione va oltre, fino alla rottura definitiva dei vincoli familiari. Bisogna evidenziare un fatto: quello stesso paese dalle radici cattoliche e dagli usi corporativi, in cui si esaltano i valori famigliari come benigni per natura e imprescindibili per la coesione sociale, ha dato origine a un paio di opere maestre, giustamente considerate gioielli dell’immaginazione letteraria, in cui una delle derive midollari è la distruzione della famiglia. Qui ogni essere umano è potenziale vittima o carnefice dei propri consanguinei. La caratteristica più comune è il disinteressamento, ma anche l’aggressione. Non è difficile collegare la descrizione di una terra sterile con la presenza di parenti negati o incapaci di fornire ai propri figli le cure e gli strumenti necessari: «Nessuno ti farà mai male, figlio. Sono qui per proteggerti. Per questo sono nato prima di te e le mie ossa si sono indurite prima delle tue», aveva promesso al figlio uno dei personaggi di «L’uomo», ma poi non fu all’altezza del compito e il figlio venne assassinato.

Ci sono anche esempi più estremi: l’uomo che tradisce il fratello andando a letto con la cognata e tramando con lei per farlo fuori («Talpa»), l’odio viscerale di un padre nei confronti del figlio («L’eredità di Matilde Arcángel»), l’imbroglione che assassina l’amico e il suocero («Anacleto Morones»), un padre che rifiuta di aiutare la famiglia del figlio quando questo decide di fuggire dal proprio paese («Paso del Norte»), lo scioglimento del legame tra compari, non meno sacro di quello famigliare nella visione cattolica («Digli che non mi ammazzino!»). E già dell’esordio di Pedro Páramo la voce di una madre esorta il figlio a rivalersi delle offese e delle negligenze del padre…

L’aspetto più emblematico dei due libri di Rulfo è la scelta di mostrare come la distruzione della famiglia abbia ripercussioni severe anche al di là del focolare domestico. L’individuo è inerme di fronte ai soprusi dell’autorità e alla natura inclemente a causa della precarietà o della perdita assoluta dei legami di sangue. Non si tratta di una rivendicazione di carattere religioso, bensì di una condizione psicologica. Come spiegato dalla ricercatrice Mary Ainsworth con il concetto di base sicura, precedente alla teoria dell’attaccamento di John Bowlby, dalla famiglia il bambino necessita non solo di cibo, ma anche di conforto e protezione per costruire un atteggiamento di fiducia e sicurezza che gli permetterà, crescendo, di esplorare l’ambiente circostante e di risolvere i dilemmi della sopravvivenza durante le intemperie. Nei due libri di Rulfo non sono pochi gli esempi di individui privi di legami: già solo in Pedro Páramo emergono le donne che accolgono Juan Preciado e parlano con lui (Eduviges Dyada, Damiana Cisneros, Dorotea). L’aspetto più eclatante è che, come succede nell’immaginario degli strati più alti della popolazione messicana odierna, El Llano e Comala sono società in cui la mancanza di protezione è la norma. Il risultato è l’abbandono collettivo. Come sottolinea Jean Franco nel suo straordinario saggio sull’opera di Rulfo, «le relazioni umane autentiche sono governate da una legge di sfruttamento e interesse secondo la quale i più deboli sono schiacciati dai più forti. La crudeltà e l’ingiustizia vengono […] mitizzate o giustificate perché la gente interpreta le situazioni secondo una moralità disumana».

Se oggi la scrittura di Rulfo continua ad avere un peso politico, questo è rappresentato dallo sconforto estremo di un paese governato da una moralità disumana, che porterebbe a mitizzare o giustificare uno stato di cose in cui oggi predominano la disuguaglianza, l’impunità e la corruzione, quasi fossero un elemento inalterabile del paesaggio. «Non ci si cava niente da quel che non dà niente» afferma un personaggio di «Ci hanno dato la terra», e questo dictum attraversa le pagine di Rulfo – e oggi l’animo di milioni di messicani – con forza maggiore rispetto all’odore iniziale della speranza. Ma questo fatalismo si dovrebbe interpretare non tanto come l’essenza della condizione messicana, o come la Weltanschuung pessimista di uno scrittore che soffre per la propria infanzia di privazioni e abbandono, quanto come la conseguenza di processi sociali attraverso cui le élite hanno depredato i poveri, li hanno costretti a sopportare le aggressioni di una natura inospitale e di una criminalità inarrestabile, facendo di tutto affinché questa condizione di orfani finisse per imprimersi nella loro psiche, provocando come conseguenza diretta il logorio dei tessuti famigliari. Insomma: siamo davanti a un circolo vizioso che annulla in partenza qualsiasi tentativo di ribellione o cambiamento.

Ovviamente, la rilevanza di questi due libri non sta nell’orribile elenco di vessazioni e crimini. Il valore critico del pessimismo che emerge nelle narrazioni di Rulfo sta invece nella trasformazione della lettura in un agente revulsivo, particolarmente scomodo. Toccando le note del tremendismo e della tribolazione morale, le voci narranti rendono possibile non il contagio di una prostrazione incurabile ma la contestazione delle radici di una tale violenza e miseria. Le domande sono attuali oggi come sessant’anni fa: come può un popolo perennemente saccheggiato mantenere la propria dignità? Esiste un modo per combattere il degrado a cui sono ridotti tanti uomini che hanno sempre vissuto secondo un’immutabile logica di sopravvivenza? In che modo si può aspirare alla giustizia quando è il potere stesso l’origine di tutte le atrocità?

Gli echi viscerali

Questo fatalismo ammette un’eccezione. In un paesino senza speranza non dovrebbe esserci posto per l’esercizio della memoria, eppure gli abitanti di El Llano e Comala osano prendere la parola.

Nella raccolta di racconti, il contesto delle loro testimonianze assume spesso un tono incalzante. Da un giovane ritardato che attraverso la parola allontana la paura di finire all’inferno («Macario»), o da un condannato a morte che vuole che suo figlio interceda a suo favore («Digli che non mi ammazzino!»), a dichiaranti che di fronte a un giudice temono per la loro libertà («L’uomo», «All’alba»), o ancora a un anziano che spera di sentire la voce del figlio che gli annunci la vicinanza di un paesino («Non senti abbaiare i cani?»), i personaggi sanno che molto dipende dalle loro parole, e che il discorso è altrettanto urgente dell’azione.

Inoltre, Pedro Páramo comprende una grande varietà di voci, anche se quasi tutte parlano dall’aldilà. In uno studio molto accurato sulla struttura del romanzo, Emir Rodríguez Monegal mostra come l’autore impieghi e alterni due risorse: il monologo («sia interiore, o silenzioso, che esteriore, all’interno di un dialogo») e la narrazione diretta in terza persona. Anche se ci sarebbe molto da dire su questo punto, mi limito a rilevare che, a eccezione dei monologhi di Dolores Preciado, Susana San Juan e lo stesso Pedro Páramo – individui che, nonostante siano morti, narrano con tono nostalgico scene da un passato anteriore al potere e alla decadenza –, buona parte delle testimonianze provengono da personaggi dell’orbita di Pedro Páramo, che esprimono tutto il loro sconforto in un presente paralizzato dalla morte. Tuttavia, è interessante notare come l’autore si mostri clemente con gli umiliati e gli offesi: nonostante siano morti, recupera le loro voci («Questo paese è pieno di echi» avverte Damiana). Dai loro discorsi – alcuni sono frammenti di dialoghi congelati in una casa o su una strada deserta di Comala – traspare poca riflessione, poiché si nutrono in maniera ben più viscerale delle emozioni; qui entrano in campo i ricordi degli appetiti della carne e le amarezze dei desideri frustrati. Sono questi mormorii a schiudere la struttura del romanzo, e a riportarlo al passato quando mostrano le scene dell’ascesa di Pedro Páramo.

Invece l’autore, in maniera significativa, decide di non dare questa stessa libertà a Pedro Páramo, la cui vita è raccontata da un narratore onnisciente – espressione del punto di vista dei subalterni – che in maniera laconica rivela le tappe della propria svolta autoritaria. Gli si dà la parola solo quando lui descrive la propria sconfitta: in questi casi a parlare non è l’anima in pena del proprietario terriero che vorrebbe giustificare le proprie azioni, bensì l’amante frustrato, in vita, di Susana San Juan. Questo filo della trama, eredità del romanticismo gotico (come hanno segnalato diversi critici), è forse l’unica vera debolezza dell’opera; è una sorta di buco nero che avrebbe dovuto mostrare una crepa emotiva nel protagonista ma che finisce invece per congelarlo in un atteggiamento ieratico – trascorre le sue giornate nella contemplazione della pazzia discreta della sua amata –, in un’atmosfera caratterizzata da una forza drammatica minore rispetto a quella dei suoi precedenti, ossia il turbolento Heathcliff di Cime Tempestose (1847) di Emily Brontë, o il brutale Paulo Honório di São Bernardo (1934) di Graciliano Ramos. Nonostante tutto, nella struttura narrativa, c’è una netta svolta politica: nell’aldilà, nell’eternità della morte in cui è entrato Juan Preciado, si sentono le voci e le grida, le conversazioni e i mormorii, di numerosi uomini e donne, anch’essi tutti morti – poveri, torturati, pazzi, indifesi –, ma nessuna di queste anime in pena è quella del tiranno. Il suo potere ha un limite: quello della parola, che sopravvive e ne smaschera i crimini.

Così, a differenza di quanto succede oggi nel sistema politico e nei mezzi di comunicazione, in Rulfo sono i poveri a determinare la conoscenza della Storia. Facendo un passo oltre: Pedro Páramo non è la narrazione degli abusi di un tiranno; altrettanto intenso e necessario oggi come sei decenni fa, è un romanzo sulle vittime, che raccontano i delitti del potente.

 

Le citazioni delle opere di Rulfo sono tratte dai seguenti testi: