Catherine Lacey

La potenza dello scomparire: intervista a Catherine Lacey

Dwyer Murphy BIGSUR, Interviste, Scrittura

Pubblichiamo un’intervista di Dwyer Murphy a Catherine Lacey, apparsa originariamente su Electric Literature. Ringraziamo l’autore e la testata.

di Dwyer Murphy
traduzione di Dario Matrone

Nessuno scompare davvero è un libro difficile da descrivere. Una giovane donna di nome Elyria lascia New York e il marito per andare a fare autostop in Nuova Zelanda. Non ha un vero e proprio progetto e non sembra destinata ad avere un’epifania. È attraversata da pensieri oscuri. La prosa della Lacey è fatta di frasi lunghe e spiraleggianti e spesso il lettore ne emerge con la sensazione di essere stato toccato nel vivo. Tutto ciò rende difficile riassumere il romanzo in poche parole o stilarne un giudizio critico sintetico. In ogni caso, Nessuno scompare davvero non è necessariamente il tipo di libro che viene voglia di consigliare a tutti gli amici. È il tipo di libro che ti fa chiedere se vale la pena di avere degli amici, una famiglia, un marito e un lavoro, o se non sia meglio comprare un bel biglietto d’aereo e scomparire creandosi una nuova vita, almeno per un po’.
Ho incontrato Catherine Lacey in un bar di Brooklyn. Aveva già ottemperato a quasi tutti i suoi impegni per la promozione del libro e aveva l’aria rilassata. Era appena tornata da una crociera, durante la quale – mi ha raccontato con orgoglio – era riuscita a ottenere un badge di quelli riservati al personale, che le garantiva una serie di privilegi, e nello spazio per la mansione aveva scritto Sono in crociera. Nel corso di un pomeriggio abbiamo parlato di black humour, della potenza dello scomparire, della religione nel Sud degli Stati Uniti, e del perché le autrici donne vengano tanto spesso confuse con i loro personaggi.

Elyria, la narratrice di Nessuno scompare davvero, ha una voce particolarissima, malata. Sono curioso di sapere come ti è venuta in mente la prima volta. C’è stato un brano o una scena in cui hai scoperto chi era davvero Elyria e che voce aveva?

Per parecchio tempo ho avuto difficoltà a entrare in sintonia con lei, ma poi ho iniziato a lavorare a un brano in cui racconta di una lettera al marito, e lì ho capito la sua visione del mondo, l’origine della sua oscurità. A quel punto ero in grado di scrivere qualsiasi scena dal suo punto di vista. Avrei potuto farla entrare in questo bar dove siamo adesso e farle ordinare da bere. Era come quel gioco, Forza Quattro: io inserivo la pedina e quella cadeva, magari aveva qualche tremolio ma poi andava a sistemarsi nell’unico posto possibile. Anche Elyria era guidata da una specie di forza di gravità.

Parliamo di Elyria come di una persona con un fortissimo lato oscuro – il che è vero – ma il tuo è anche un romanzo divertente. Da dove proviene l’umorismo, secondo te?

Io mi diverto a vedere quando una persona si inceppa. Un po’ come le comiche del cinema muto: c’è Charlie Chaplin con il suo bastone, e tu ridi perché lui non riesce a evitare di farlo cadere per terra. Elyria, quando incontra una persona, non riesce a evitare di pensare che su quella persona incombe la morte. Non riesce a sfuggire alla propria disperazione. Qualcuno non ci vede niente di divertente in questo. Durante una delle prime interviste che ho rilasciato, la giornalista si è messa a contestare una frase che era riportata sulla copertina delle bozze, secondo la quale il libro aveva «uno humour nero come il carbone». Lei continuava a sostenere che non c’era nessuno humour. La gente è divisa, a quanto pare. Per me, è un libro divertente. Elyria è in fuga dalla propria vita, è sola, pensa troppo alla morte… è un continuo far cadere il bastone a terra.

Hai scritto un pezzo per BuzzFeed Books in cui provi a distinguere quali aspetti di Elyria sono calcati su di te e quali no; parli addirittura di costruire un diagramma di Venn con le vostre rispettive caratteristiche. È stato fastidioso, il fatto che la gente pensasse che Elyria eri tu?

So bene che quando si legge un libro viene spontaneo domandarsi quanto del personaggio coincida con l’autore, ma mi sembra che alle donne questa domanda venga fatta più spesso che agli uomini. Nella nostra cultura abbiamo una visione limitata di ciò che può essere una giovane donna. Per gli uomini le possibilità sono ampie. È il retaggio secolare di archetipi, storie, mitologie. (Anche per questo trovo che le donne sappiano scrivere da una prospettiva maschile meglio di quanto gli uomini sappiano farlo da una prospettiva femminile: ci siamo sciroppate talmente tanti racconti al maschile che cambiare punto di vista ci viene naturale.) Per una giovane donna, invece, le possibilità sono ristrette: può essere una madre, una non-madre o una troia, e più in là di questo non si va. Buona, cattiva o insignificante, in sostanza.
E dal momento che Elyria non è nessuna di queste cose, la gente pensa che debba essere modellata su una persona reale. Che sia me. Credo che la nostra cultura attribuisca agli uomini una maggior capacità di dar vita a creazioni completamente originali. Si dà per scontato che le donne si occupino solo di sé stesse, che facciano arte per parlare di quanto è difficile essere loro, essere una certa donna in particolare.

Ho notato che molti si sono chiesti se il tuo sia un libro femminista, se sostenga teorie femministe, se la stessa Elyria sia una femminista. Hai un’opinione in merito, o ti dà fastidio anche solo che sia stata sollevata la questione?

No, non mi dà fastidio. È una questione interessante. Non esiste una definizione universalmente riconosciuta di cosa qualifichi come femminista un libro, o un personaggio o una trama. Se fossimo nel 1914, probabilmente il mio sarebbe un libro femminista, perché all’epoca era un gesto ben più radicale lasciare il proprio marito e partire per ricostruirsi una vita da sola. Oggi come oggi, invece, Elyria è soltanto un essere umano che interrompe una relazione. Il fatto che sia una donna non è tanto essenziale per la storia, né i problemi della relazione derivano dal fatto che il marito sia uno stronzo maschilista. Dwight Garner, nella recensione in cui tira in ballo il genere letterario delle «Donne in gamba alla deriva», scrive che le protagoniste dei romanzi di Joan Didion o di Renata Adler potrebbero ingoiarsi Elyria come un’ostrica. Mi è sembrata un’immagine perfetta. Davvero, se la mangerebbero come un’ostrica.

In quella recensione Garner sembra vedere Nessuno scompare davvero come un libro su un particolare tipo di ennui, quello che si sperimenta a cavallo tra i venti e i trent’anni, mentre altri, ad esempio Sasha Frere-Jones, sostengono che Elyria avrebbe anche potuto essere una donna di mezz’età. Secondo te la sensazione che prova Elyria è caratteristica di un’età o di un periodo della vita?

Non saprei, ma forse mi piace pensare che la sua inquietudine sia più ampia. Si tende a credere che questo tipo di malessere – il sentirsi alla deriva, il non sapere cosa fare di te stesso e della tua vita – colpisca soltanto chi ha tra i venti e i trent’anni, ma forse continuiamo a vivere quel tipo di momenti per sempre. Probabilmente ritornano ogni tot anni, come il tema ricorrente di una fuga musicale, e ci si ritrova da capo a chiedersi se si sono fatte le scelte giuste, se si sono prese le strade giuste.

Il tuo romanzo parla di una persona che abbandona il tetto coniugale e sparisce. Ti sei ispirata a qualche libro in particolare mentre cercavi di capire come scriverlo? Quando Elyria arriva in Nuova Zelanda, io non ho potuto fare a meno di pensare alla scena di «Coniglio» Angstrom che fugge via in macchina da Mount Judge.

Be’, visto che tiri in ballo Updike, mi tocca attaccarti un pistolotto. Ci ho provato, ma proprio non riesco a passare sopra al fatto che Updike e quelli come Updike avevano una visione del mondo meschina e gretta. So che erano il prodotto del loro tempo, e so che qualche lettore riesce a chiudere un occhio sul fatto che nei loro libri ci siano pochissime donne complesse, forti sfumature omofobiche e un razzismo smaccato, ma non sono cose che io mi sento di ignorare. Io voglio leggere autori che sapevano riconoscere quella roba per ciò che era: uno schifo. Voglio leggere autori che considerino le persone con più pienezza e complessità e con maggior empatia. Updike è uno scrittore brillante – dal punto di vista del giro di frase e della costruzione della storia non gli si può dire nulla – ma esistono molti altri che sanno scrivere belle frasi e hanno anche la capacità di apprezzare l’umanità in tutte le sue sfaccettature. Le belle frasi e le buone trame non mi bastano, se ho la sensazione che lo scrittore non sappia guardare oltre la propria circoscritta situazione culturale. Lo stesso problema ce l’ho con Roth, anche se lo rispetto da tanti punti di vista. Ma non mi sembra abbia mai raggiunto una visione abbastanza evoluta del mondo di cui scriveva. Un altro è Saul Bellow. Riconosco che era un grande, ma non lo leggerò più, perché non sapeva vedere al di là dei propri privilegi maschili, e questo semplicemente non mi sta bene.

Io credo che tutti abbiano bisogno di una lista di grandi scrittori – vivi o morti – con cui desidererebbero litigare, se ne avessero la possibilità. È una promessa che bisogna fare a sé stessi.

Sì, ci sono decisamente alcuni scrittori che vorrei mettere alle strette e che mi piacerebbe affrontare. Molti degli «Scrittori Maschi Super Importanti di una Certa Età» non hanno mai usato i loro privilegi e il loro talento se non per perorare la causa dei loro privilegi e del loro talento. La trovo una cosa tremendamente noiosa. Soprattutto se scrivendo dopo la seconda metà del ventesimo secolo non sono mai riusciti a suscitare empatia per la causa delle donne, degli omosessuali, dei neri, neanche con uno solo dei loro personaggi. Ma dove vivevano, sottoterra? Sai a chi mi riferisco. O meglio, si potrebbe discutere su chi inserire nella lista, ma sarebbe comunque una lista bella lunga.

Come autore, ti sembra che con queste presentazioni, con queste interviste, tu ti stia trasformando in un personaggio pubblico? Dai sempre l’idea di essere una parecchio combattiva, pronta a litigare e ad alzare la voce. Lo dico in senso positivo.

Sì, credo che il personaggio pubblico inizi a prendere forma da solo. Ma credo anche di essere semplicemente fatta così. Sono una progressista che viene dal Sud conservatore. Mi viene naturale essere polemica.

Non voglio confondere i confini tra te ed Elyria – è una cosa di cui abbiamo già parlato – ma uno dei temi principali di Nessuno scompare davvero è l’impulso di sparire, abbandonando una relazione e la propria vita. È un impulso che senti anche tu?

Sì. C’è una certa potenza nello scomparire. Se nessuno conosce il tuo passato, hai la possibilità di reinventarti. Il mio impulso però è diverso da quello di Elyria. Lei vuole scomparire senza dirlo a nessuno. A me piace viaggiare da sola e non rispondere alle mail né telefonare per giorni e giorni, ma mi piace anche tornare a casa.

Prima di scrivere il libro hai fatto un lungo viaggio in Nuova Zelanda. Qual era la tua disposizione d’animo? Volevi solo girovagare senza meta? Oppure volevi fare come Kerouac, raccogliendo ostinatamente materiale per un romanzo on the road?

Ci sono andata perché volevo studiare la permacultura e la biodinamica. Avevo finito il dottorato e non sapevo bene cosa fare nella vita e in più odio l’inverno, perciò me ne volevo andare nell’altro emisfero, in un posto dove potermi muovere da una fattoria all’altra in autostop e senza mai allontanarmi troppo dal mare. La Nuova Zelanda era l’unico posto che soddisfaceva tutti i requisiti. Mentre ero lì non ho scritto quasi per nulla. Ho passato tutto il tempo lavorando nelle fattorie, leggendo libri, facendo l’autostop. Mi sa che ho scritto un solo racconto, cinquecento parole. Alla fine si è rivelato l’embrione della storia di Elyria, ma in quel momento tutto pensavo meno che fosse un romanzo.

Cos’è che ti attirava tanto nel fare l’autostop?

Non avevo molti soldi e non mi piace guidare. Sembrava un modo facile e interessante di conoscere le persone. Inoltre mi disorientava e mi rendeva nervosa, e pensavo che quel tipo di tensione potesse farmi bene.

Hai qualche consiglio da dare agli autostoppisti, ora che sei tornata indietro sana e salva?

Se sei una donna e hai la possibilità di metterti in coppia con un uomo dall’aria tranquilla, meglio essere in due. Se sei una donna sola, ottieni passaggi da signore materne che ti spiegano che non devi fare l’autostop altrimenti sarai trucidata da uno psicopatico. Poi ti dà un passaggio un uomo e vieni sfiorata dal pensiero che lo psicopatico in questione sia proprio lui, anche se sembra una persona a posto. Se sei un uomo, e sei da solo, la gente ha paura di te e non si ferma. Ma se sembrate una coppietta, la gente la trova una cosa tenera e pensa che siate a posto visto che siete in due. E poi un compagno d’autostop aiuta a far passare il tempo più in fretta.

Negli ultimi anni, mentre scrivevi Nessuno scompare davvero, sei stata co-proprietaria di un bed and breakfast gestito in cooperativa nel centro di Brooklyn, il 3B. Mi sembra una cosa da pazzi. Non so bene cosa domandarti. È soltanto che mi sembra una cosa da pazzi.

Certo che è da pazzi! Non l’avrei mai fatto da sola. È stata un’idea di gruppo. Ero appena tornata dalla Nuova Zelanda e cercavo di decidere se restare o meno a New York. Nel frattempo ho trovato una stanza in subaffitto e i ragazzi che vivevano lì stavano per avviare un bed and breakfast. Mi sembravano gente in gamba, e io non avevo di meglio da fare, perciò sono rimasta e li ho aiutati. Sono quattro anni e mezzo che abito lì – in realtà proprio questa settimana mi trasferisco altrove – e quel ritmo giornaliero, quella sicurezza mi hanno aiutato a scrivere il romanzo. Sono una creatura estremamente solitaria. È stato un bene mettermi alla prova, imparare a vivere con altre persone, costruire e gestire un’impresa con sei soci.

Tu vieni dal Mississippi, e di recente hai scritto un pezzo per Guernica in cui affronti problemi che riguardano il Sud di oggi: la religione, l’ipocrisia in materia di omosessualità, il modo in cui le buone maniere di facciata ostacolano il progresso. Leggendo il tuo romanzo mi sono chiesto come ti poni in rapporto alla tradizione letteraria del Sud.

Credo che chiunque sia cresciuto al Sud e scriva, anche se non scrive della sua terra, diventa uno scrittore «del Sud». La sua prospettiva è stata plasmata dalla necessità di reagire a un ambiente pieno di tensioni, con una storia ancor più traumatica. C’è il razzismo, la xenofobia, la povertà, lo sciovinismo, la faccenda della religione, e oggi anche il problema dei diritti LGBT. Forse è anche per questo che tendo a essere un po’ aggressiva, perché nella cultura in cui sono cresciuta i problemi vengono spinti sotto il tappeto, e dietro una cortesia di facciata si nascondono idee retrive e schifose. Questo atteggiamento ostacola il progresso in qualsiasi parte del mondo, non soltanto al Sud. La gente non dice quello che pensa davvero, quello che prova. Sono troppo impegnati a essere cortesi, oppure hanno paura. Quando sono al Sud mi sento sempre un po’ un’aliena. Non ho scritto molte cose ambientate lì, ma da molti punti di vista Nessuno scompare davvero è un romanzo che appartiene alla letteratura del Sud. Parla di una donna in un ambiente rurale che si sente sola e si domanda che senso abbia questa vita.

La tua scrittura – sia la fiction sia la non-fiction – si avventura in sfere emotive assai delicate: Nessuno scompare davvero sembra toccare in molti lettori un nervo scoperto; sull’Atlantic hai raccontato l’esperienza di donare gli ovuli; un tuo racconto apparso su Electric Literature solleva il problema di immagini corporee che mettono a disagio. C’è un pezzo che più di altri sia stato difficile scrivere, o vedere pubblicato?

Molti credono che per me sia stato difficile scrivere l’articolo sulla donazione degli ovuli, ma non è così. È soltanto un’esperienza che ho fatto. So prendermi cura di me stessa e non è un problema raccontare le mie esperienze. Invece il pezzo su Guernica, quello sul Sud e su tutta una serie di tematiche che reputo importantissime, mi ha fatto quasi venire l’ulcera. Stavo descrivendo una situazione politica che interessa i miei amici e la mia famiglia. Stavo attaccando la chiesa in cui sono cresciuta. Era fondamentale scriverlo nel modo più inappuntabile che potevo. È stato difficile scriverlo ed è stato difficile vederlo pubblicato, ma una volta messo online mi sono sentita meglio. Voglio continuare a scrivere pezzi come quello ma devo trovare il coraggio.

Da quello che capisco sei stata allevata in un ambiente molto religioso.

Sono cresciuta nella Chiesa Metodista. Non immaginarti roba tipo maneggiare serpenti o parlare in lingue sconosciute – la chiesa stava a tre metri da casa nostra – ma ancora oggi sono in disaccordo con gran parte dell’ideologia che ho ereditato. Ho imparato tutto quell’universo a memoria, a un’età molto precoce, diventando molto devota. Volevo portare la gente in paradiso. Avevo una visione ancora più conservatrice di quella dei miei genitori. La Bibbia mi sconvolgeva nel profondo dell’animo. Secondo me quando si insegna ai bambini piccoli a credere nell’inferno, e loro ascoltano e leggono la Bibbia e ci rimuginano sopra, be’, possono avere una reazione abbastanza estrema e anche un po’ folle. Però c’è una grande verità in quelle storie, la sostanza del Vangelo è meravigliosa, e c’è tanto da ammirare negli insegnamenti di Gesù. È facile venirne risucchiati e assimilare, insieme alle cose giuste, anche tutta l’immondizia che ci si è accumulata intorno.

Ricordi se c’è stato un momento in cui hai iniziato ad allontanarti dalla fede?

Da piccola stavo sempre in chiesa. (Non voglio offendere quelli che vanno in chiesa, ma tanto dubito che leggano Electric Literature, un sito notoriamente pagano.) Intorno ai tredici-quattordici anni ho iniziato a notare cose che da bambina ti sfuggono, ad esempio il fatto che un gay dichiarato non può diventare sacerdote. Può frequentare la chiesa, ma non può essere ordinato sacerdote perché pensano che una certa parte di te sia bacata. Secondo me è una cosa sbagliata, spaventosa e inumana. Il rifiuto di tutte le identità non eterosessuali è una delle questioni più facili da citare, ma ci sono altre contraddizioni interne nella Chiesa e nella Bibbia. Più mi accorgevo di queste cose, meno mi entusiasmava l’idea di impostare tutta la mia vita intorno a un testo e a un’istituzione così lontani dalla mia sensibilità.

Il sentimento religioso è qualcosa che ti appartiene ancora?

Non mi considero più cristiana. Vado in chiesa soltanto se c’è un matrimonio o un funerale. Non sopporto l’adesione passiva al cristianesimo. Se ti limiti a definirti cristiano, ma non affronti i conflitti, allora non stai facendo un favore al cristianesimo né a nessun altro. Stai soltanto partecipando in maniera vaga. Stai votando senza nemmeno guardare la scheda.
Chi è cresciuto fuori dalla religione non sente il bisogno di avvicinarcisi da adulto e neanche di partecipare ai dibattiti sulla religione. Io invece, dato che la religione ha avuto un ruolo così importante nella mia infanzia e nella mia storia familiare, vengo attirata inesorabilmente nel dibattito. Ho perso quella visione del mondo così onnipervasiva: l’idea che sarei andata in paradiso e tutti sarebbero venuti con me purché li convincessi ad accettare Gesù come il loro personale Signore e Salvatore. Ci credevo davvero. Che Babbo Natale fosse una bufala l’ho capito fin dalla più tenera età, ma l’aldilà, la verginità di Maria, Gesù che inganna la morte e sfida la forza di gravità… è stato il primo supereroe della storia. E poi la gente snobba Scientology!

Hai descritto una fede viscerale, e un altrettanto viscerale abbandono della fede. Ti sembra di essere ancora incline a comportamenti e convinzioni estremi?

Credo di sì. Scrivere sta diventando la mia nuova religione. E leggere, imparare. Non essere passiva.

© Dwyer Murphy, 2014. Tutti i diritti riservati.

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