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Il fantasma di Ricardo Piglia. Una conversazione con Emilio Renzi

Ilan Stavans Autori, Interviste, SUR

Pubblichiamo oggi un’intervista immaginaria di Ilan Stavans a Emilio Renzi, alter ego letterario di Ricardo Piglia. L’articolo, originariamente pubblicato dalla Los Angeles Review of Books, viene qui riprodotto per gentile concessione dell’autore. Buon lettura!

di Ilan Stavans
traduzione di Elena Longo

Poco prima della morte di Ricardo Piglia (1940-2017) avevamo deciso di scrivere assieme una collezione di interviste per l’editore spagnolo Anagrama. Piglia aveva insegnato a Princeton per anni ed era tornato a Buenos Aires dopo aver scoperto di essere affetto da SLA. Dopo sole poche pagine (che un giorno o l’altro mi deciderò a rendere pubbliche) mi disse che non aveva la forza di andare avanti. Preferiva concentrarsi sui 327 diari che aveva scritto durante la sua vita. O meglio, i diari scritti dal suo alter ego, Emilio Renzi, protagonista di diversi romanzi di Piglia come Respirazione Artificiale (1980) e Solo per Ida Brown (2013).. Qualche anno prima era uscito, sempre per Anagrama, il primo di tre volumi della sua autobiografia, Los diarios de Emilio Renzi. Piglia fece in modo che ne ricevessi una copia.

I tre volumi che compongono i Diarios rappresentano un piacere intellettuale incredibile. Quando nel 2017 venni a sapere che Piglia ci aveva lasciato, mi rattristò moltissimo il pensiero di non poterlo più intervistare. Ma poi, come per magia, venni contattato direttamente da Emilio Renzi, che propose di prendere parte alla conversazione come sostituto di Piglia. (A questo punto devo precisare che ho una passione per le interviste ai personaggi letterari. Il primo che intervistai fu Erik Lönnrot, l’investigatore protagonista di «La morte e la bussola», 1942, di Jorge Luis Borges). Il nostro tête-à-tête è ancora in corso, ma nel dialogo che segue ci siamo concentrati sugli «anni della formazione», ovvero il periodo che va dal 1957 al 1967, quando il giovane, squattrinato e presuntuoso Renzi era, usando le sue parole, «un giovinastro che vagava per la città pregando di trovare un posto dove rinchiudersi e fare l’amore».

Durante la nostra chiacchierata, il fantasma di Piglia aleggiava sullo sfondo. Ho cominciato domandando a Emilio Renzi dettagli sull’ossessione, negli ultimi giorni che restavano da vivere a Piglia, di lasciare un’eredità ai posteri. Renzi mi ha risposto che, a settantatré anni, «il mio creatore» pensava ancora nello stesso modo di sempre, criticando le cose che criticava a venti. E ha poi aggiunto: a quel punto Piglia era «circondato da convertiti che cambiano idea continuamente per adattarsi a quello che pensa la massa. Queste persone abbandonano le loro convinzioni e i loro testi di riferimento in continuazione, mentre io sono rimasto fedele alle mie idee». Leggendo i suoi diari, ha continuato Renzi, i lettori saranno in grado di sapere, di intuire, o di immaginare com’era stata la vita di Piglia, anche se aveva sottolineato più volte che l’autore dei diari era lui, Renzi, e non Piglia stesso.

Quella che segue è una versione editata della nostra conversazione.

Ilan Stavans: Perché concentrarti così tanto su te stesso? 327 diari sono tanti. Mi sembra di intuire che hai sostituito la vita con la letteratura. Alcuni mi incolpano dello stesso peccato, anche se ho avuto una vita piena.
Emilio Renzi: Per scrivere è necessario sentirsi a disagio nel mondo. Scrivere è uno scudo per affrontare la vita (e per spiegarla).

Fino ad ora, le mie pagine migliori sono scaturite dai dettagli più insignificanti delle mie esperienze personali trasformati in un’altra storia, dove l’esperienza vissuta persiste solo sotto forma di sentimenti ed emozioni espressi nel racconto.

Credo che in letteratura sia indispensabile possedere un universo personale. Nel mio caso, il materiale è segretamente autobiografico e dipendente dalla miriade di storie familiari che ho ascoltato nel corso della vita. Così il romanzo lavora per allontanarsi dalla realtà che è già stata raccontata e il narratore cerca di ricordare e ricostruire le vite, le catastrofi, le esperienze che ha vissuto sulla propria pelle e quelle che gli sono state raccontate (per me, le cose vissute e quelle raccontate hanno lo stesso valore).

IS: Le «cose raccontate», come dici tu, sono ciò che trasforma la realtà in lingua. La realtà diventa un testo.
ER: Una lingua è un sistema arbitrario attraverso il quale i membri di una comunità interagiscono fra loro e imparano a vivere in un certo modo.

La realtà come la conosciamo è condizionata dalla grammatica e dalla sintassi che utilizziamo (sono questi gli elementi che decidono l’ordine, la coerenza e i tempi verbali, cioè la consapevolezza che abbiamo della differenza tra presente, passato e futuro). La grammatica definisce l’organizzazione del mondo e propone una morfologia (che è responsabile del modo in cui le parole vengono combinate in proposizioni e frasi).

IS: Questi diari ti fanno sembrare un iperrealista. Ogni cosa che dici è l’oggetto di una meta-consapevolezza: cosa sai di sapere, cosa sai di non sapere, cosa non sai di sapere e, soprattutto, cosa non sai di non sapere.
ER: Il tono della prosa di questi diari deriva dal ribaltamento dell’atto di scrivere consciamente. Non c’è preparazione: all’improvviso ti siedi e scrivi un po’ di qualcosa che è successo, o che ricordi oppure che hai pensato. Ogni cosa succede nel mezzo della vita e dell’azione. Scrivere un diario significa stabilire un intervallo, una temporalità personale definita dall’ordine cronologico dei contributi. Scrivere la data è il solo segnale formale che rende un diario un diario. Tutto quello che c’è scritto corrisponde alla verità, è un contratto. Nonostante ciò, spesso ci scrivi qualcosa che pensi sia accaduto e la realtà lo contraddice. Bisogna superare l’inerzia, sedersi a un tavolo e scrivere. Tutto qui, un semplice movimento del corpo, un’intenzione senza un obiettivo o un precedente chiari.

IS: Ti riconosci ancora nelle opere degli inizi?
ER: Il primo libro è l’unico che conta. Diventa un rito d’iniziazione, un passaggio, un punto di attraversamento da un lato all’altro. È una cosa importante solo per te, ma sono sicuro che è impossibile dimenticare l’emozione di vedere pubblicato per la prima volta un libro che hai scritto. Dopodiché, devi cercare di non diventare «uno scrittore».

IS: Sei parte di una generazione di autori argentini che è cresciuta sotto il peronismo. Gli anni Sessanta sono stati il periodo di Tacuara, il gruppo antisemita di guerriglia urbana. Fu il decennio in cui peronisti e comunisti partecipavano alle elezioni, un periodo di crescita economica che si concluse con l’ennesimo colpo di stato, come i molti altri che hanno definito l’Argentina nel Novecento.
ER: Quando si parla di nuovi autori (Germán Rozenmacher, Miguel Briante, io stesso), è importante ricordare che non sono «nuovi» per una questione generazionale, ma perché hanno un’idea di arte diversa da quella degli scrittori che li hanno preceduti. La nuova visione consiste nello studiare la cultura argentina dopo il peronismo? Secondo il concetto di «storia vissuta» di Pavese sì.

È giusto considerarci una generazione, cioè un gruppo di persone con delle esperienze in comune (il peronismo, ad esempio), che ha letto gli stessi libri e scelto gli stessi autori, perché l’età – o la giovinezza – è anche un problema culturale. Nel nostro caso, siamo estranei alle forme riconosciute e dominanti dello sviluppo culturale. Ci emozioniamo leggendo Roberto Arlt, che per noi è un contemporaneo. Vogliono rappresentarci come ragazzini petulanti che si ribellano e che tentano per l’ennesima volta di trasformare il problema di una nuova letteratura in una questione sociologica e legata allo spirito del tempo. Detto ironicamente, siamo un gruppo di scrittori che lavorano alacremente per una nuova cultura in Argentina. Una nuova cultura che ricostruisca la tradizione e scelga i suoi personali punti di riferimento.

IS: Percepisco un’ambivalenza nelle tue parole. Ti senti veramente parte di quella generazione? O sei un individualista?
ER: Gramsci diceva che parlare di una generazione significa esprimere un giudizio culturale. Scoprire la propria epoca è un modo di stabilire cosa bisogna aver letto e imparato in gioventù. Il concetto di generazione cessa di avere uno scopo: l’artista non è più analizzato secondo l’orizzonte culturale del periodo in cui vive (cioè della sua epoca). Più che dipendere dalle sue opinioni o dichiarazioni, l’età di uno scrittore è un fatto legato all’epoca in cui vive. L’età, in termini di letteratura, è un simbolo. Ogni generazione legge la sua lista striminzita di libri ed è questo che la rende identificabile e che diventa visibile nella sua scrittura.

Nonostante ciò, sono scettico quando si parla di associazioni o circoli di intellettuali, perché implicano che se un gruppo di persone si concentra sullo stesso campo di studi, questo di per sé dà luogo a degli interessi comuni. Sarebbe più logico raggruppare gli scrittori a seconda della loro poetica letteraria e in tal modo considerare la loro posizione politica.

La politica ha un proprio registro e delle modalità specifiche che non possono essere applicate direttamente alla letteratura o alla cultura. Questo non significa che letteratura e cultura sono autonome, ma solo che hanno un modo tutto loro di discutere e «fare» quella che chiamiamo politica. O piuttosto, che rispondono a delle relazioni di potere interne a loro stesse. Non bisogna però dimenticare che la letteratura è una società senza uno stato. Nessuno – nessuna istituzione o forma di costrizione – può obbligare una persona ad accettare o mettere in atto una certa poetica artistica.

Le decisioni sostanziali dell’arte appartengono alla loro sfera. In realtà, più che parlare di politica in generale, bisogna parlare della dinamica fra il museo e il mercato. Da un lato il museo in quanto sito e metafora della consacrazione o della legittimità e dall’altro il mercato come ambito di circolazione delle opere, sempre mediato dal denaro. In questo contesto, il problema della «creazione» diventa allo stesso tempo più chiaro e più complesso. Questo dev’essere il nodo che spiega perché si pubblica qualcosa di nuovo.

In un certo senso, si può dire che l’errore principale degli scrittori argentini sta nelle loro metafore «eccezionali» e falsamente letterarie. Forniscono sempre una definizione per ogni situazione, cioè definiscono e spiegano sempre le azioni dei personaggi quando succedono.

L’unico criterio valido per definire una storia della letteratura deve essere il presente. Cioè, quello che giustifica uno scrittore storicamente parlando non è la sua permanenza all’interno dello Zeitgeist. Piuttosto, la sua realtà è una sorta di presente continuo che diventa contemporaneo in alcuni momenti e oscuro in altri. Perché non esistono per nessuno, in alcun momento, dei valori assoluti.

IS: La vita di uno scrittore non è fatta solo dei libri che scrive, ma anche di quelli che legge. Per esempio, la mia vita di lettore è stata segnata dall’amicizia che ho stretto con Don Chisciotte. La mia autobiografia potrebbe essere scandita dalle cronache dei diversi momenti in cui ho riletto il capolavoro di Cervantes e contenere i dettagli di come mi ha cambiato ogni volta. I libri, i libri…
ER: Non sono tanto quelli che ho semplicemente letto, ma piuttosto quelli di cui ricordo con precisione il contesto e il momento in cui l’ho fatto. Se mi ricordo le circostanze in cui mi trovavo mentre ero accompagnato da un certo libro, vuol dire che per me è stato determinante. Non sono necessariamente i libri migliori, o quelli che mi hanno influenzato di più. Sono quelli che hanno lasciato il segno.

IS: Raccontami di quando hai conosciuto Borges. Hai dichiarato che è stata un’esperienza che ti ha cambiato per sempre. Molte cose che hai scritto sono state un tentativo di confrontarti con la sua eredità. Inoltre, hai dedicato la tua carriera a mappare la letteratura argentina, a studiare il lavoro di Domingo Faustino Sarmiento, Roberto Arlt, Julio Cortázar e Juan José Saer. Ma Borges è la forza gravitazionale. Le volte in cui il suo nome appare nella tua opera, soprattutto nei saggi, sono innumerevoli.
ER: Il mio incontro con Borges… La sensazione è stata quella di trovarsi di fronte alla letteratura, o piuttosto, di vedere una strabiliante macchina produci-letteratura in azione. Parlava lentamente, interrompendosi in maniera singolare a metà delle frasi. Mi veniva la tentazione di suggerirgli una parola, come se si fosse fermato perché non gli veniva in mente. Alla fine, pronunciava sempre una parola diversa da quella che avevo immaginato io, molto più bella e più precisa. Si toccava la testa per indicare la cicatrice dell’incidente che ha dato vita al racconto «Il Sud». Non si percepiva assolutamente, ma mi sembrò che si trattasse di una sorta di rituale per lui. Provai la stessa sensazione al momento di andarmene. Borges mi prese la mano per un po’ e temetti di essere io quello che lo teneva prigioniero, ma alla fine la strizzò delicatamente e tornò a sorridere. Non era così alto come ricordavo ed era più bello: occhi grigi, un sorriso rassicurante.

Era impossibile fargli pronunciare qualcosa di diverso da quello che diceva sempre, ma questo non modifica la magia che creava quando parlava, anche se diceva le stesse cose che avevi letto nei suoi libri. Mi emozionavo ogni volta che lo sentivo usare un tono sentenzioso e intenso per recitare un brano scritto da lui o da qualcun altro.

IS: Quando leggo Borges, mi pare uno scrittore anglofono che scriveva in spagnolo.
ER: A livello tecnico, Borges è legato allo stile narrativo anglofono più pulito. Dietro al materiale narrativo c’è lo stesso ragionamento; c’è un narratore comune in tutta la sua opera – lo stesso Borges –; e la struttura prepara l’azione. La sua intelligenza consiste nell’erigere mondi complessi e immaginari su queste strutture del significato. Un’altra delle qualità di Borges è che la realtà non viene mai presentata. È sempre oscura e intrigante e quindi diventa l’oggetto di un’indagine che dà luogo a delle ricerche (spesso per lui sono ricerche bibliografiche) che pongono fine agli eventi. La sua «umiltà» lo rende un trasmettitore perfetto per i libri scritti da altri, per delle storie che non esistono, per i personaggi fantastici che incontra, ricrea ed espone. L’esempio migliore di questo metodo è il racconto «Tlön, Uqbar, Orbis Tertius», la cosa migliore che Borges abbia mai scritto. Una piccola ricostruzione bibliografica porta a un mondo parallelo. La storia, accuratamente assemblata con una precisione cronometrica, viene mescolata, cade nel vuoto, nell’irrealtà, nel sogno e nell’incubo. Borges ha tracciato un sentiero che si arrampica sui pendii del mondo per confermare il magico e l’irreale.

Aveva un modo immediato e affettuoso di creare intimità, Borges… era sempre così, con chiunque si trovasse a parlare. Era cieco quindi non vedeva l’interlocutore e gli parlava come se gli fosse seduto di fianco. Questa vicinanza è presente nella sua scrittura. Il suo tono non è mai paternalistico e non esprime superiorità, ma si rivolge a tutti come se fossero più intelligenti di lui, con una tale allusione da rendere inutile una spiegazione su quello che già si conosce. Ed è proprio questo livello di intimità che viene percepito dal lettore.

IS: Ti pesa essere entrato nel canone letterario argentino?
ER: Vivo esposto alla luce violenta della lingua argentina da così tanto tempo che è impossibile non soffrire delle scottature che mi ha provocato. Perché la luce della lingua è come un raggio chimico. Quella luce limpida, l’acqua più pura del madrelingua, uccide gli uomini che si espongono a essa. Le macchie sulla mia pelle sono state la prova dei patti alchemici che ho stretto con la fiamma segreta della lingua nazionale. Quella luce è come l’oro. La luce della lingua distilla oro dalla poesia. È un’altra caratteristica della mia malattia, che molti hanno considerato come un sintomo squilibrio mentale. Pochi conoscono l’esposizione eccessiva alla luce della lingua argentina, quella limpidezza, e quelli che l’hanno conosciuta ne pagano il prezzo con i loro corpi, perché la luce della lingua martirizza chiunque è esposto alla sua sottile trasparenza.

IS: Cosa pensi di Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez? È stato pubblicato a Buenos Aires nel 1967 e da allora tutto è cambiato. A mio parere, giustifica l’esistenza della lingua spagnola
ER: L’ho letto troppo velocemente e provando sentimenti contrastanti. Da un lato mi sembra – professionalmente – troppo latinoamericano: una sorta di colore locale celebrativo, con un pizzico di Jorge Amado e anche di Fellini. La prosa è molto forte e anche molto demagogica con frasi a effetto ben piazzate all’interno dei paragrafi per ottenere un effetto a sopresa.

IS: Peccato. Sei un patriota cieco alla bellezza non Argentina. Cosa pensi invece dell’ Ombelico della luna di Carlos Fuentes? Non mi piace Fuentes anche se sono messicano, o forse proprio perché lo sono. La nazionalità non dovrebbe essere una prigione, dovrebbe renderci liberi. Forse dico così perché sono ebreo.
ER: Fuentes lavora con una struttura simile a quella di John Dos Passos, dove le vite individuali si mescolano con le storie sociali. Ha difficoltà a uscire da un certo schematismo superficiale. I suoi personaggi vengono spiegati e non narrati. D’altra parte, però, descrive o piuttosto tende a descrivere solo lo straordinario (guerre, rivoluzioni, catastrofi). Gli viene difficile scovare una dimensione breve e concisa, il momento significativo, quel dettaglio che dà la realtà. La cosa più affascinante di Fuentes è l’ampiezza di possibilità della sua prosa, che va dal saggio («Per la prima volta nella storia del Messico esiste una classe media stabile, la difesa più sicura dalla tirannia e dall’instabilità») all’illustrazione poetica, quasi surreale («Città dal dolore immobile… città dall’oltraggio violato»).

Non è affatto uno scrittore di racconti migliore di Cortázar. Ha un buon controllo delle situazioni insignificanti e frivole ma ricorre a soluzioni orribili e sensazionalistiche.

IS: Sono contento di poter dire che su questo punto siamo d’accordo. Parliamo invece delle influenze «straniere». Come Borges (o forse grazie a lui) sei affascinato dagli scrittori di lingua inglese: Fitzgerald, Capote, Faulkner. E dai romanzi hard-boiled. Sei forse arrivato a questi scrittori attraverso una devozione generazionale? Devo ricordare poi che hai anche fatto spazio a Kafka e Pavese.
ER: La letteratura americana ci interessa perché ci permette di vedere come grandi artisti (Salinger, Flannery O’Connor, Truman Capote, Carson McCullers) sono anche popolari. È un caso unico nella letteratura contemporanea. E credo che le ragioni siano tre. Le prime due sono l’ampiezza del sistema d’istruzione, che inserisce le opere nella lista delle letture obbligatorie, e il fatto che l’industria letteraria sia molto sviluppata. Il terzo motivo è dato dalla grande tradizione narrativa che incorpora la sperimentazione formale all’interno della tradizione romanzesca.

Fitzgerald è stato capace di realizzare la fantasia di diventare uno scrittore meglio di chiunque altro. Uno scrittore non potrà mai diventare famoso come un attore, benché la sua celebrità duri probabilmente più a lungo. E non avrà mai lo stesso potere di un uomo d’azione, anche se sarà certamente più indipendente. Certo, facendo questo lavoro siamo sempre insoddisfatti, ma io personalmente non avrei mai potuto sceglierne un altro, per nessuna ragione.

Sto leggendo «L’orso», un racconto di formazione di William Faulkner che a mio avviso richiama, segretamente, un po’ Moby Dick di Melville. Le storie con animali selvaggi sono le uniche che vale la pena raccontare, anche se a volte si incontrano racconti pacifici e familiari che hanno come protagonisti cani o gatti. Gli animali migliori in letteratura sono quelli di Kafka: «Indagini di un cane», «Giuseppina la cantante ossia il popolo dei topi», «Una relazione per un’accademia». In realtà, in Kafka gli animali sono intellettuali o artisti, mentre l’orso di Faulkner e la balena di Melville sono forme della natura selvaggia. Detto questo, cosa possiamo dire dei cavalli che abbondano nella letteratura argentina?

Dovrei collegare il concetto di «destino» in Pavese con quello di «passato» in Faulkner. Sono due metodi cristallizzati per definire le motivazioni che i personaggi mettono in atto senza capire cosa stanno facendo. Faulkner scrive come se il lettore facesse parte della storia che sta raccontando senza spiegare niente che i personaggi non sappiano già.

La lista degli autori che sono stati influenzati da William Faulkner è lunghissima: Onetti, García Márquez, Rulfo, Sabato, Dalmiro Sáenz, Saer, Rozenmacher, Miguel Briante. Io provo a restare lontano da questa tendenza cercando una prosa concisa e criptica. Almeno in questo sono unico rispetto alla retorica di questo periodo.

IS: E Joyce? C’è qualcosa negli irlandesi (penso a Yeats, O’Casey, Beckett e Heaney) che imita l’esperienza di fallimento che c’è da noi in America Latina.
ER: Nei suoi racconti, Joyce evita deliberatamente ogni tipo di evento. I suoi racconti quasi non hanno una trama, a parte una visione obliqua che lascia intravedere un frammento di un tema più vasto. Non è alla ricerca dell’avventura o di episodi drammatici, gli interessa la routine quotidiana e tenta di presentare la più ampia quantità possibile di materiale che altrimenti resterebbe implicito. In questo modo nei suoi racconti c’è sempre un barlume, una luce che illumina in maniera fugace ma chiara il mondo. La misura del successo di una forma così aperta risiede chiaramente nel suo livello di concentrazione. Anche se Joyce dichiarava di non conoscere Čechov – in malafede da quello che so –, i suoi racconti sono legati a quelli dello scrittore russo perché anche lui cercava di scrivere dei racconti senza finale, la prima trasformazione importante nel genere della short story dopo Poe.

IS: Per chi scrivi? So che è una domanda trita e ritrita ma per Piglia spesso è entrata in gioco la censura: cos’era stato pubblicato, cosa poteva essere pubblicato, cosa avrebbe potuto essere pubblicato.
ER: Scriviamo per i morti e anche per la polizia segreta. Perché leggono e registrano ogni cosa. Come possiamo evitare che ci leggano se in fondo in fondo scriviamo per loro,?

IS: Scrittori si nasce o si diventa?
ER: Uno scrittore si auto-attribuisce questo ruolo. Fa autopromozione al mercatino delle pulci, ma perché gli succede? Com’è che uno diventa scrittore? Scrittori si nasce? Per la persona alla quale capita di diventarlo, non si tratta di una vocazione né di una decisione. Sembra piuttosto che sia un’ossessione, un’abitudine, una dipendenza. Se smette di farlo, si sente peggio, ma avere bisogno di farlo è ridicolo e alla fine diventa un modo di campare come un altro.

IS: Veramente uno come un altro? Noi scrittori abbiamo la sensazione che l’unica cosa che conta è la letteratura, che attraverso di essa ci assicuriamo di mettere ordine al caos. Facendolo diventiamo degli attori che si scrivono le battute da soli. È quel gioco chiamato vita. Piglia è lo sceneggiatore e tu l’attore?
ER: Il contrario.

 

© Ilan Stavans, 2018. Tutti i diritti riservati.

 

Ilan Stavans è un autore e traduttore messicano-americano, l’editore di Restless Books e professore di Cultura latinoamericana all’Amherst College.

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