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Giocare a scrivere un romanzo
(invece di scriverlo)

Raccontare la vita privata di artisti e scrittori sembra essere una delle ossessioni del nostro tempo. All’argomento sono stati dedicati infiniti film e libri, e ora perfino un videogioco. Ce lo racconta l’autore argentino Patricio Pron in un contributo tratto da Letras Libres [1], che ringraziamo.

di Patricio Pron
traduzione di Giulia Zavagna 

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L’epoca in cui viviamo è ossessionata dalla vita privata degli scrittori (vale a dire, con la «parte reale» della loro esistenza in contrapposizione a quella «inventata», nella terminologia proposta da Rodrigo Fresán), a cui sono stati dedicati film (Il segreto di Joe Gould, The Door in the Floor, 2046, Truman Capote – A sangue freddo, Barton Fink – È successo a Hollywood, gli assurdi El lado oscuro del corazón e Lucía y el sexo, eccetera), libri (quelli di Ricardo Piglia, Roberto Bolaño ed Enrique Vila-Matas, alcuni di Javier Marías, César Aira, Justo Navarro e Javier Cercas e Jardines de Kensington e La parte inventada di Fresán, per menzionare solo titoli di ambito ispanofono), biografie e documentari. L’epoca in cui viviamo è anche testimone di un insolito ampiamento dei supporti della funzione narrativa ed è interessante che, al contrario di quanto succede con la vita privata dei farmacisti, degli spazzini o dei commercialisti, esistano già (anche) due videogiochi che hanno come protagonista uno scrittore, Alan Wake [2] e The novelist [3].

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Alan Wake (Moises Rodolfo, 2010) possiamo scartarlo: sebbene il protagonista sia lo scrittore omonimo, che si trasferisce con la moglie nel paese costiero di Bright Falls, in Oregon, per lavorare al suo prossimo romanzo, con la sparizione della moglie Alan Wake si trasforma rapidamente in un gioco d’azione in cui la professione del protagonista è del tutto indifferente.

The novelist (Kent Hudson, 2013), invece, si occupa della vita di uno scrittore in condizioni normali; meglio detto, di quella di Dan Kaplan, che si trasferisce per tre mesi con la moglie Linda e il figlio Tommy in una casa di fronte al mare (anche questa in Oregon, tra l’altro) per scrivere un romanzo e, nei limiti del possibile, per rimettere insieme il proprio matrimonio.

The novelist ha vinto il premio per il Miglior Gioco Indie del 2014 della rivista Continue Play ed è stato finalista di altri due premi: recensori e giocatori lo hanno definito «sincero, realista», «poco convenzionale», «fresco», «commovente» e «superbo» ma, ovviamente, nessuno di questi è uno romanziere. Cosa succede quando al gioco gioca qualcuno che lo è davvero?

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Nel suo fondamentale Half-real: Video games between real rules and fictional worlds (MIT Press, 2005), Jesper Juul definisce i giochi in generale e i videogiochi in particolare come sistemi formali basati su regole con finali variabili e quantificabili ai quali si assegnano diversi valori (positivo, se il giocatore vince, e negativo, se perde), in cui il giocatore deve portare a termine determinati compiti per influire sul finale della storia e si sente emozionalmente legato a questa, e le cui conseguenze sono opzionali e negoziabili (vale a dire, che la morte in un videogioco, per esempio, non è «reale»). La definizione, comunque, non è priva di complicazioni.

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La principale di queste deriva dalle sue implicazioni. Juul sostiene, per esempio, che il videogioco ha una struttura aperta in opposizione a quella della narrativa, che sarebbe chiusa; ma la verità è che anche il videogioco ha una struttura chiusa (nella maggior parte dei giochi di strategia non è possibile realizzare una focalizzazione interna di ogni personaggio); la differenza sostanziale tra l’uno e l’altra è che, mentre la narrativa si «limita» a esplorare solo una risoluzione possibile del conflitto, il videogioco (la cui rappresentazione grafica sarebbe quella di un albero) deve esplorare molte possibili risoluzioni e orientare il giocatore tra le varie possibilità attraverso risorse che la narrativa «lineare» non possiede: indicazioni, istruzioni, assegnazione di punteggi alti per alcune azioni a detrimento di altre, eccetera.

Con l’eccezione di quest’ultima risorsa (in The novelist non c’è un sistema di punteggio), il videogioco di Kent Hudson orienta il suo utente tramite tutte le risorse menzionate. Nel gioco bisogna riunire informazioni sul romanziere Dan Kaplan e la sua famiglia e aiutarli a prendere decisioni che contribuiscano ai loro obiettivi. Per farlo, il giocatore deve muoversi per la casa senza essere visto (l’idea sembra aver ispirato anche solo in parte l’ultimo romanzo di Stephen King, Chi perde paga) per leggere una serie di documenti (diari personali, corrispondenza, riviste, disegni di Tommy, appunti sul frigorifero, eccetera); è anche possibile leggere i pensieri dei personaggi e, posizionandosi alle loro spalle, di esplorare la loro memoria, un’idea particolarmente inquietante per chiunque ma soprattutto per uno scrittore. Il giocatore deve prendere una decisione che contempli i desideri e le necessità dei personaggi e, nello specifico, i requisiti della scrittura del libro di Dan; da questa decisione dipende la risoluzione di ognuno dei nove capitoli del gioco.

Nel primo, intitolato «Writer’s block», Dan è bloccato, il suo agente e il suo editore gli fanno pressione, e lui coltiva pensieri suicidi mentre Tommy e la moglie reclamano la sua presenza. Dan guarda dalla finestra; poi si siede di fronte alla sua macchina da scrivere, batte sui tasti per qualche istante e poi si alza; immediatamente torna a guardare dalla finestra; un istante dopo si butta sul divano e si copre il volto con un braccio; poi si rialza e guarda fuori dalla finestra. Tommy disegna davanti al televisore; se sua madre si siede davanti a lui, dal televisore escono risate registrate. Linda deambula tra il divano, il suo studio, dove di tanto in tanto dipinge, e le finestre. (Anche le mogli degli scrittori guardano molto fuori dalle finestre, a quanto pare.) Linda crede che Dan non le stia vicino nei suoi sforzi per diventare una pittrice professionista ed è preoccupata per Tommy, che ha difficoltà a scuola; stasera vuole bere un bicchiere id vino con suo marito, ma l’unica cosa che Dan desidera è trovare un taccuino in cui ha preso degli appunti per il suo libro: se il giocatore sceglie che la trovi, Linda e Tommy si sentono delusi.

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Un aspetto interessante di The novelist è che è pieno di riferimenti al cinema del terrore degli anni Settanta e Ottanta, ma non alla letteratura, come se l’autore sapesse degli scrittori solo quello che ha visto al cinema e/o pensasse alla letteratura come a un film horror. (Una cosa che, in verità, la letteratura è davvero.)

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Inoltre, Dan ha i baffi: è forse l’unico scrittore con i baffi al mondo dalla morte di Carlos Fuentes nel 2012, cosa che trasforma il tutto, in qualche modo, in un incubo.

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Uno dei problemi più evidenti di The novelist è che i suoi personaggi sono incredibilmente antipatici. Dan è un frignone lamentoso che lotta con un romanzo che non ha il talento per scrivere (se ce l’avesse, non sarebbe una lotta, ovviamente); la sua visione della letteratura (vale a dire, quella del creatore del videogioco e, di conseguenza, quella dei suoi giocatori) è quella di una disciplina che obbliga a subire pressioni enormi e a trascurare tutto ciò che non è letteratura. Tommy è un personaggio noioso con una patologica incapacità di divertirsi. Linda si lamenta del fatto che il marito non passa tempo con lei e con il figlio e dimentica che quel marito è l’unica fonte di entrate per la famiglia. (Se si considera questo, e si adottano le decisioni che favoriscono la carriera di Dan, il gioco finisce «bene», con un romanziere che vince il National Book Award. Se, al contrario, si gioca «a perdere», Dan divorzia da Linda e inizia a bere per dimenticare e per scrivere, cosa che non costituisce, a pensarci, il peggiore finale che si possa immaginare per uno scrittore.)

The novelist è angosciante, come probabilmente il suo creatore desiderava che fosse; il problema è che lo è solo per l’irritazione che provoca in chi ci gioca e per il desiderio di fare qualsiasi altra cosa, per esempio (nel mio caso) scrivere un romanzo invece di giocare a farlo. La scrittura del romanzo non occupa praticamente alcun posto in The novelist nonostante si presuma che tutto gira intorno a questo; la frustrante ripetizione che la meccanica del gioco implica e la puerilità delle decisioni che il giocatore deve prendere per Dan non dicono molto sulla vita di uno scrittore perché, tra le altre cose, sono le stesse decisioni che deve prendere qualsiasi persona con un lavoro, che sia un idraulico, un redattore di guide turistiche o un impiegato.

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È vero che pochissimi libri e praticamente nessun film riescono a offrire un’immagine verosimile della vita privata di uno scrittore e, ovviamente, nessuno di questi è nemmeno minimamente credibile per chi effettivamente è uno scrittore (cosa che, ovviamente, non fa che contribuire alla nostra ossessione per la figura dello scrittore, che in base a questo sembra un personaggio più interessante di quanto in realtà non sia), ma la non verosimiglianza dei personaggi di The novelist e le implicazioni della concezione dello scrittore che il videogioco sviluppa sono particolarmente interessanti. Cosa porta i giocatori a credere che Dan Kaplan è una figura verosimile di scrittore? Cos’è uno scrittore, in ogni caso? Davvero si crede che gli autori siano dei piagnoni imbecilli incapaci perfino di scrivere? Può qualcuno pensare che il rapporto tra un autore e il suo agente sia di coercizione come quello che ha Dan con il suo? Chi potrebbe mai credere che un personaggio come Dan, privo di ogni tipo di preoccupazione di indole economica, sia rappresentativo di qualche tipo di scrittore, eccetto di una minoranza?

(Che, tra l’altro, buona parte delle mogli degli scrittori che conoscono siano perfettamente indipendenti e generino le proprie entrate non sembra essere un ostacolo alla vecchia credenza che le mogli degli scrittori sono delle vittime sacrificali che danno tutto per la carriera dei propri mariti, cosa che rivela un machismo inerente alla visione sociale dello scrittore e anche un certo anacronismo, dato che – con la sola eccezione che ricordo in questo momento di uno scrittore messicano la cui sposa è la sua biografa – la disattivazione emozionale ed economica della moglie dello scrittore finisce dopo il boom latinoamericano, ed è senz’altro una magnifica notizia, non solo per le donne.)

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In un articolo recente sul secondo volume della biografia di W.B. Yeats curata da Roy Foster, John Banville notava il fatto che la vita stessa di Yeats sottolineava che il poeta era in errore e che, al contrario di quello che credeva, lo scrittore non è obbligato a scegliere tra «la perfezione nella vita o nell’opera».

L’idea è seducente, tuttavia, e le visioni stereotipate sulle relazioni tra vita e opera letteraria vi insistono. In The novelist la totalità dei problemi del protagonista (e, di conseguenza, delle decisioni che il giocatore deve prendere al posto suo) provengono dalla presunta incompatibilità tra le due, quando è evidente che il vero problema di Dan (il suo unico problema, in realtà) è che gli mancano il tipo di preoccupazioni pratiche che nella vita di uno scrittore (e come suggerisce Banville) non costituiscono un ostacolo ma un incentivo. D’altra parte, i veri «problemi» dello scrittore non appaiono in The novelist, probabilmente poiché risulterebbero troppo complessi per il giocatore e perché la loro risoluzione sarebbe perfino più ambigua e insoddisfacente. In mia opinione, sarebbero di due tipi: quelli relativi a una certa sociologia della letteratura (Quali percezioni sociali esistono rispetto alla casa editrice che pubblica i miei libri? Che tipo di istituzioni concedono il capitale simbolico necessario per l’esistenza sociale come scrittore? In che modo gli interessi di quelle istituzioni e i miei coincidono o possono coincidere?) e quelli che hanno a che fare con la configurazione della voce narrativa, che sono ancor più esoterici: che vantaggi mi offre a narrazione eterodiegetica rispetto a quella autodiegetica? Quello che desidero raccontare richiede un’alternanza di scene e un sommario o posso esplorare una velocità diversa, meno canonica? Qual è la focalizzazione di questo racconto? E così via.

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È possibile che alcune epoche storiche abbiano conosciuto meglio i proprio autori e, di conseguenza, compreso in modo più adeguato il tipo di difficoltà che si trovano ad affrontare. Dopo aver giocato a The novelist, l’impressione che si ha è che nella nostra esista un divorzio assoluto tra le visioni sociali dello scrittore (almeno nella misura in cui appaiono riflette nella creazione di Kent Hudson) e la vita reale degli scrittori, e tra quello che si crede che la letteratura sia e quello che è in realtà, nonostante (e questa è la parte preoccupante, o leggermente preoccupante) il videogioco sia stato definito «verosimile» e «realista» dagli utenti.

Forse questo si deve al «lavoro nel buio» che è (proverbialmente) la produzione di letteratura, e forse al fatto che «la parte reale» della vita degli scrittori è di scarsa importanza. Screditate le voci di chi considerava il videogioco un passatempo potenzialmente suscettibile di provocare intontimento, aumento della delinquenza, epilessia e problemi di apprendimento, e rivendicandolo come una forma narrativa e un degno oggetto di studio, in misura non minore grazie alla sua evoluzione tecnica e narrativa, il videogioco sembra ancora lontano da poter offrire un’immagine verosimile dello scrittore. In questo senso, la letteratura è ancora in vantaggio ed è possibile che lo sia ancora per qualche tempo.

© Patricio Pron, 2015. Tutti i diritti riservati.

Patricio Pron è uno scrittore e critico letterario argentino, autore, tra gli altri, di Lo spirito dei miei padri si innalza nella pioggia (Guanda, 2012). Il suo sito web è www.patriciopron.com [4], su Twitter è @Patricio_Pron [5].