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Intervista a Chris Bachelder

Zack Hatfield BIGSUR, Interviste

L’infortunio è l’ultimo romanzo di Chris Bachelder. Pubblicato integralmente a puntate sulla Paris Review nel 2015 e finalista al National Book Award nel 2016, è da poco uscito nella collana BIG SUR. L’intervista che segue è apparsa originariamente su Full Stop e viene qui riprodotta per gentile concessione dell’autore.

di Zack Hatfield
traduzione di Dario Matrone

Ogni attimo merita di essere esaminato e indagato alla ricerca di significati: questa idea percorre dall’inizio alla fine l’ultimo romanzo di Chris Bachelder, L’infortunio, che la Paris Review sta pubblicando in quattro puntate. Il romanzo ruota intorno a un gruppo di uomini di mezza età che si riuniscono ogni anno per rimettere in scena la partita della National Football League del 1985 in cui Joe Theismann subì una violenta frattura alla gamba in diretta televisiva, un momento che lasciò sconvolti gli appassionati di football di tutto il paese e che Bachelder ricorda bene (l’emittente ESPN l’avrebbe in seguito ribattezzato «il momento più scioccante della storia»). Come premessa rischia di sfiorare il ridicolo, e tuttavia a giudicare dalle prime due puntate fin qui pubblicate L’infortunio gioca bene con l’assurdo, trasformando il quotidiano nello stravagante, passando dall’umorismo sfrenato alla malinconia nel giro dello stesso capoverso. Con una prosa lenta, che esalta ogni dettaglio, Bachelder presta pari attenzione – fondendoli – al prodigioso e al banale, ed esprime una straordinaria carica di vitalità.

In uno scambio di mail, Bachelder ha discusso con me di commedia e tragedia, dell’infortunio di Theismann e dell’estrema letterarietà del non ottenere ciò che si vuole (ed esserne contenti).

Zack Hatfield: Quando scrivi un romanzo, da dove inizi?

Chris Bachelder: In genere parto da una premessa, qualcosa che mi interessa approfondire, anche se mi serve un po’ di tempo per capire come. Gli aspetti più difficili da affrontare sono il punto di vista, la voce, la struttura, tutto ciò che riguarda lo svolgimento e la drammatizzazione del concetto di partenza. Perché il discorso non sembri freddamente tecnico o astratto, vorrei precisare che il concetto di cui parlo non è una semplice idea ma una serie di associazioni di idee con un tono particolare. Le premesse che tendono a fissarmisi in testa come possibilità narrative di solito sono quelle più complesse dal punto di vista del tono. Nel mio mestiere niente è più importante del tono, e io scrivo meglio quando lavoro con un tono che in un certo senso è in contrasto con sé stesso, o in contrasto con l’argomento, o entrambe le cose. Con la trama o i semplici eventi non ci faccio granché. Uno dei motivi per cui trovo interessante l’infortunio di Theismann è appunto che è per raccontarlo servono sfumature di tono molto particolari: perché contiene dentro di sé sia la violenza che la nostalgia. E gli uomini che si riuniscono ogni anno per rimettere in scena l’azione forse sono ridicoli, ma le ragioni per cui lo fanno sono profonde e umane.

Perciò parto da un concetto centrale, ma mi servono un paio d’anni prima di trovare il punto di vista e l’approccio che mi permettono di entrare davvero nel progetto e tirarne fuori qualcosa. Per gli ultimi tre romanzi, ho iniziato da un racconto. Non ero sicuro di avere tra le mani un romanzo e dovevo verificare la validità dell’idea di partenza. In tutti e tre i casi, il racconto non è riuscito bene. Non sto facendo il modesto. Sono stati dei veri fallimenti. E, per quanto possa sembrare perverso, ho pensato: «Be’, scritto in venticinque pagine non tiene, ma magari con duecento o trecento pagine funziona». In gran parte è perché ero fiducioso che la mia idea centrale poteva dare buoni risultati, era solo questione di trovare la strada giusta. Non volevo rinunciarci. Sono brutti momenti, per inciso, pieni di frustrazione e di dubbi e di false partenze. Ma una volta che prendo l’abbrivio, tendo a scrivere piuttosto velocemente e con entusiasmo.

Quando hai scritto questo romanzo sapevi che sarebbe stato pubblicato a puntate e, se sì, la cosa ha avuto ripercussioni su come l’hai scritto?

No, non ne avevo idea. La pubblicazione a puntate è stata proposta ad aprile, quando il libro era già chiuso e in fase di bozze. Inizialmente il romanzo doveva essere pubblicato a novembre, poi è stato rimandato a marzo in modo che ci fosse tempo per quattro uscite sulla rivista. Avrei avuto difficoltà a scrivere il libro se avessi saputo che sarebbe stato pubblicato a puntate. Credo che ne sarebbe stato deformato. Sarei stato troppo attento alla trama e alla suspense, che non sono i miei punti di forza come scrittore né certamente le caratteristiche salienti di questo romanzo.

Viviamo in una cultura in cui una serie tv o la filmografia di un regista si possono divorare in una sola settimana o anche meno. In un’epoca in cui la narrativa sembra essere una delle ultime forme che richiedono un’attenzione prolungata, il Washington Post ha recentemente proposto il ritorno del romanzo a puntate, affermando che aiuterebbe a ravvivare il dibattito su un certo tipo di opere e che funzionerebbe meglio di formule pubblicitarie ormai stantie. Secondo te c’è qualcosa che la pubblicazione a puntate aggiunge all’esperienza della lettura?

Certo, la pubblicazione a puntate può essere vista come una strategia di comunicazione o di marketing, un modo di portare all’attenzione i libri, di creare il passaparola. Per la maggior parte dei libri le opportunità di essere notati si concentrano in una finestra di tempo molto ristretta, e la pubblicazione a puntate rallenta le cose. In linea generale, io sono favorevole a rallentare le cose. Ma per quanto riguarda l’esperienza di lettura c’è da fare una considerazione più ampia. Leggere narrativa significa in un certo senso non ottenere ciò che si vuole, o almeno veder scontrare i propri desideri con la volontà implacabile del libro (o del suo autore). Quando leggo, voglio che accadano certe cose – banalmente, voglio che il protagonista abbia la meglio – ma la cosa interessante è che non voglio davvero ottenere ciò che voglio. Esiste una forma di piacere nel ritrovarsi alla mercé di un buon libro, che stimola in noi sensazioni forti e allo stesso tempo le ignora. Al libro non importa cosa vogliamo. Se ci concedessero ciò che vogliamo, i libri sarebbero una bella noia, perciò è molto probabile che ciò che vogliamo sia non ottenere ciò che vogliamo. (Forse a livello superficiale desideriamo che succedano cose positive, ma nel profondo desideriamo qualcosa che sembri vero e autentico.) E la mia ipotesi è che la pubblicazione a puntate possa in qualche modo estendere questa dinamica, questa tensione tra il libro e il lettore. Vogliamo continuare a leggere il libro, ma non possiamo perché non è ancora disponibile. È frustrante, certo, ma non è una forma piacevole di frustrazione? Ottenere tutto ciò che si vuole – per esempio, guardare un’intera stagione di una serie tv in un weekend – può sembrare una cosa fantastica. Siamo liberi, controlliamo noi la situazione, ma c’è anche un che di deprimente e spiritualmente deludente in queste scorpacciate televisive. Penso che ci sia qualcosa di spiccatamente letterario nel non ottenere ciò che si vuole (ed esserne contenti).

La prima parte del libro sembra introdurre una sorta di indagine farsesca su un argomento frequente nei romanzi, la crisi di mezza età. C’è un umorismo che senz’altro provocherà risate a crepapelle, ma anche una vena di tristezza e di ennui. Perché hai scelto questo argomento? Quali sono stati i tuoi esempi di umorismo letterario, e in che modo la commedia può essere complementare alla tragedia in letteratura?

All’inizio ero fortemente interessato a scrivere dell’infortunio di Joe Theismann, poi un po’ alla volta l’infortunio ha smesso di essere l’argomento della storia ed è diventato il suo contesto. Non avevo intenzione di scrivere del malinconico spaesamento degli uomini di mezza età, ma è lì che alla fine sono andato a parare. Ho un’inclinazione naturale per l’umorismo – non riesco a immaginare di scrivere un romanzo che non sia essenzialmente comico – ma invecchiando ho perso interesse nelle scenette buffe o nelle pagliacciate satiriche. Non siamo abituati a parlare dei diversi registri della comicità, perciò non saprei neanche come definire il mio libro. Nella mia testa, L’infortunio non è satira. Quello che ricerco è una complessità di toni, una voce narrante esatta e indagatrice non aliena al paradosso e all’ambivalenza, in modo che l’umorismo sia inestricabilmente legato al dolore, al dispiacere, alla frustrazione. Il tono non sostituisce necessariamente la trama, ma può creare attrito, energia, movimento. Molti dei libri più divertenti che ho letto sono anche incredibilmente tristi. Ammiro lo humour delle opere di George Saunders, Lydia Davis, Lewis Nordan, Padgett Powell, Mary Robison, Barry Hannah, Tom Drury, Donald Antrim, Sam Lipsyte. Kurt Vonnegut è un eroe. È stato lui a dire che le risate più grosse sono basate sulle delusioni più forti e le paure più profonde.

La complessità di tono è ciò che rende tutto così avvincente e realistico, ma a volte apre anche la porta al ridicolo. C’è un passo che mi è rimasto impresso in modo particolare: «Robert cominciò a ricucire il sottogola, che si era strappato nel senso della lunghezza quando se l’era allacciato l’anno prima. Il bianco del filo era parecchio simile, anche se non uguale, al bianco del sottogola». La prima parte del libro è piena di frasi come queste. Quale credi sia il valore dei dettagli, nella letteratura?

Questi piccoli, vividi tocchi sono uno dei grandi motivi che mi hanno fatto avvicinare alla letteratura, sia come scrittore che come lettore. Provo grande piacere nell’articolare e descrivere le cose con precisione. È un riconoscimento della vita di tutti i giorni, un modo per riscattare ciò che è banale e sottovalutato. L’inessenziale, si scopre, è essenziale. Quando leggo un autore attento alle piccole cose, sento la finzione prendere vita. Inizio a credere nel mondo inventato perché è chiaro che il primo a crederci è l’autore. L’osservazione è una forma di prova, di dimostrazione. Preferisco il passo lento; mi piace la sensazione che lo scrittore non abbia una gran fretta di andare da qualche parte o di portare avanti la storia. L’osservazione attenta fa brillare il mondo romanzesco. Gli oggetti assumono colore, suono. Nelle Lezioni americane Calvino scrive che in letteratura, persino nella letteratura contemporanea realista, tutti gli oggetti sono magici. È una specie di residuo delle fiabe e dei miti, con i loro anelli e le loro spade incantate. Da lettore, desidero quella sensazione che lo scrittore sia attento ai dettagli, che osservi davvero, e che di conseguenza investa il mondo di energia.

Quando ti muovi lentamente, quando descrivi con precisione, crei un forte senso degli stati d’animo e delle atmosfere, e approfondisci anche i personaggi. Nel passaggio che hai citato, se mi concentro con un’attenzione assurda sul sottogola del casco in parte è perché getta luce sul personaggio di Robert. C’è una specie di effetto «contagio» qui, nel senso che le caratteristiche della prosa si estendono al personaggio senza che sia necessario attribuirgli direttamente dei pensieri o delle parole. La pedanteria, la puntigliosità con cui è scritta la frase è un riflesso della coscienza di Robert. Non si tratta soltanto di un narratore che si fissa sul colore di un filo. È proprio Robert che viene fuori qui. Un uomo che preferirebbe di gran lunga che i due colori fossero identici, ma che riesce a convivere anche con questa piccola discrepanza. I lettori, spero, riescono a sentire la soddisfazione e l’insoddisfazione che Robert prova contemporaneamente. Forse mi sto prendendo gioco di lui, ma spero che non sia tutto lì. Sto cercando di rispettare il modo in cui è abituato a vedere il mondo e a pensare. E, in un senso più generale, il rituale dei personaggi del libro ha a che fare con il controllo e l’accuratezza. La mia speranza è che questi piccoli momenti si ricolleghino alle tematiche più generali che percorrono il libro senza risultare apertamente o meramente simbolici.

Credo esistano scrittori che preferiscono spingere in avanti e scrittori che preferiscono frenare, e credo esistano lettori che preferiscono essere sospinti e lettori che preferiscono essere frenati. Ovviamente io preferisco frenare ed essere frenato, forse anche perché nella vita di tutti i giorni mi sento deconcentrato, scisso. La letteratura può aiutarmi a rimanere concentrato, mi fa andare più piano, mi rende più attento e consapevole.

L’azione di Joe Theismann l’hai vista in televisione all’epoca?

Sì. Avevo quattordici anni. Probabilmente non avrei scritto questo romanzo se non l’avessi vista. Avendola vista, l’azione in un certo senso mi «appartiene». E a mia volta credo di appartenere al gruppo di persone che la videro.

Ho letto quello che ha dichiarato Dan Dierdorf [ex giocatore di football americano, n.d.t.] a proposito dell’infortunio di Theismann: «Quella sera abbiamo assistito a una scena estremamente cruda, e quando vedi qualcosa di così fuori dal comune ti manca il respiro, ma non puoi fare a meno di continuare a guardare». Anche se sono il contesto e non l’argomento, come romanziere ti interessa dilungarti su quei pochi secondi, così difficili da guardare e che però sono stati visti milioni di volte su internet?

L’azione dura solo cinque secondi ma possiede un’intensità e una potenza straordinarie. È come un evento astronomico. Il basket e il calcio sono un flusso continuo, mentre il football è composto da tante unità d’azione separate. A me interessa la singola azione come evento che entrambe le squadre cercano di controllare con ordine e strategia rigorosi ma che spesso degenera in caos e casualità. È una bella metafora, forse, della vita o della mezza età o della stessa scrittura. Hai un progetto grandioso, organizzi ogni dettaglio con cura, poi provi a metterlo in pratica e si incasina tutto, nascono mille imprevisti e pericoli. Il football è un gioco che mette in luce le tensioni tra l’ordine estremo e il disordine estremo. Quando finisce un’azione i giocatori si sparpagliano in tutto il campo, ma poi si raggruppano in un huddle ordinato e organizzano una nuova azione ben pianificata.

Anche se non sai niente di Lawrence Taylor o di Theismann, o della National Football Conference East, o della stagione 1985, anche se non sai di quale quarto di gioco si trattava o qual era il punteggio, quell’infortunio raccapricciante ti scatena comunque una reazione viscerale. Provi una sensazione terribile di casualità e di caos. Nella nostra mente si apre la spaventosa possibilità che ogni azione di gioco – ma anche ogni progetto, ogni intenzione – potrebbe finire così. Tutto questo mi interessa, e l’azione mi è utile come scrittore perché è qualcosa di concluso in sé, di separato. Non è come cercare di scrivere di un’intera partita o un’intera stagione.

Per cui l’azione in sé è circoscritta e drammatica, ma nel romanzo serve soprattutto come catalizzatore della nostalgia di questi uomini di mezza età. Nel loro desiderio di rimettere in scena quell’azione disastrosa c’è un che di spirituale, in senso quasi primitivo. Cercano di controllare, perfezionare, padroneggiare un evento che rappresenta chiaramente il caos, il caso, la confusione. È quasi come se cercassero di esorcizzare gli spiriti maligni. Li si potrebbe definire stupidi e immaturi, ma spero si colga il pathos che c’è nelle motivazioni che stanno dietro i loro gesti (e che restano in larga parte incomprese).

Tu sei l’autore del primo ebook pubblicato da McSweeney’s, nel 2004 – cosa che per l’epoca poteva essere considerata uno sguardo sul futuro della letteratura – e ora sei tornato a un formato ben più antico, quello del romanzo a puntate. Qual è il prossimo passo? Sei interessato a sperimentare con la forma e con le modalità di consumo della letteratura?

La forma è una cosa che mi interessa sempre molto, e sono senz’altro intenzionato a sperimentare con gli elementi formali e tecnici del romanzo. Prima la mia scrittura era molto più appariscente nel suo cosiddetto sperimentalismo, mentre ora probabilmente sono meno interessato alle stranezze strutturali dichiarate. Mi piacerebbe essere più sottile e lavorare sul punto di vista, sul tono, sul movimento narrativo. La verità è che scrivere un romanzo è sempre un esperimento, e d’altra parte la vera innovazione è piuttosto rara.

Quanto agli esperimenti nelle forme di pubblicazione, non è una cosa a cui penso molto. L’ebook lo scrissi, almeno all’inizio, come un libro normale, e anche il libro a puntate l’ho scritto come un libro normale. Non mi ero ripromesso di fare una cosa insolita o di sperimentare un particolare formato di pubblicazione. Quelle sono state idee proposte dagli editor e dagli editori e io sono stato più che lieto di accoglierle. Quindi no, non cerco attivamente nuove modalità di pubblicazione, ma di sicuro sono flessibile. Più che altro, sono felice che i miei libri vengano resi disponibili.

© Zack Hatfield, 2015. Tutti i diritti riservati.

 Zack Hatfield è uno scrittore freelance. I suoi pezzi sono usciti su Electric Literature, The Rumpus, Los Angeles Review of Books, Bomb Magazine e altre testate. Vive a Brooklyn.

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