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«Sono stanca di vivere, e ho paura di morire»: l’eredità di Horace McCoy

Pubblichiamo oggi un interessante approfondimento su Horace McCoy [1], autore di Non si uccidono così anche i cavalli? [2]. L’articolo, uscito originariamente sulla Los Angeles Review of Books [3], viene qui riprodotto per gentile concessione della testata. Buona lettura!

di Chris Morgan
traduzione di Filippo Bizzaglia

Horace McCoy il fallimento lo conosceva bene. Nel 1931 si lasciò alle spalle una fortunata carriera come giornalista e scrittore di racconti pulp, a Dallas, e andò a Los Angeles col proposito di diventare attore, solo per ritrovarsi a fare un lavoro umile dopo l’altro per i successivi due anni. Alla pubblicazione del suo primo romanzo ricevette un modesto riscontro di critica, ma per oltre un decennio non riuscì a trovare un pubblico. Iniziò a sfornare sceneggiature per il cinema al ritmo di quattro all’anno, ma così facendo soffocò le proprie aspirazioni artistiche. Nel 1955, quando morì a cinquantotto anni, il suo patrimonio era così misero che per coprire le spese del funerale fu necessario vendere la sua collezione di libri e dischi. Storie di fallimenti artistici come questa non sono affatto rare, e rimestare una vicenda così avvilente sarebbe pura cattiveria, se solo McCoy non fosse un caso tanto eccezionale. Che un artista abbia successo è già difficile di per sé, sia prima che dopo la morte; ma riuscire a guardare negli occhi il fallimento con tanta fermezza e sfruttarlo per scrivere vere opere d’arte è forse ancora più complicato.

Questa conoscenza intima del fallimento è l’aspetto che più ci aiuta a capire il nucleo del romanzo d’esordio di McCoy, Non si uccidono così anche i cavalli?, se lo guardiamo oggi a ottant’anni dalla pubblicazione. Non è un romanzo autobiografico in senso stretto, eppure è pervaso dallo sconforto, dalla disperazione e dal fatalismo. La forza bruta del libro suggerisce una certa familiarità coi fallimenti, non solo quelli dello stesso McCoy, ma anche della gente accanto a cui si trovò a lottare durante la Grande Depressione degli anni Trenta. Uscito l’anno dopo Il postino suona sempre due volte, crudo ed essenziale romanzo breve di James M. Cain, Non si uccidono così anche i cavalli?, che a uno sguardo superficiale lo ricordava nel titolo e nel tono, venne preso per una favola hard boiled. La Saturday Review of Literature lo definì «violento», The Nation lo etichettò come «disgustoso». Ma il successo tardava ad arrivare. E fin dalla prima tiratura le vendite non decollarono mai. Se Il postino suona sempre due volte vendette molto e fu oggetto di censura almeno una volta, Non si uccidono così anche i cavalli? venne ignorato e basta.

In ogni caso Non si uccidono così anche i cavalli? è l’unico romanzo di Horace McCoy a non essere mai finito fuori catalogo negli ultimi decenni. Capace di ammaliare almeno quanto di ispirare disgusto, è pertanto la quintessenza dell’oggetto di culto, anche se oggi è sempre più difficile distinguere tra ciò che costituisce il culto trasgressivo di una nicchia e ciò che rappresenta un semplice vezzo all’interno del mainstream. Il culto di questo romanzo resiste ancora, e non ha perso vigore nemmeno la sua forza di trasgressione rispetto a idee semplici come quella di vivere una bella vita o di coltivare belle amicizie.

La cosa che mi suona strana è quanto siano tutti interessati alla vita e così poco alla morte. Perché quei capoccioni di scienziati diventano matti a cercare di prolungare la vita, invece di trovare qualche maniera piacevole di morire?

Horace McCoyTroviamo qui, al terzo capitolo di questo romanzo di 129 pagine, la tesi principale: ma andando avanti nella lettura, più che una tesi diventa un fervido appello. A parlare è Gloria Beatty, che si rivolge a Robert Syverten,il narratore della storia; sono due attori falliti che si incontrano dopo aver tentato senza successo di farsi assumere come comparse. È la prima cosa che si dicono, e anche l’inizio di una breve ma intensa collaborazione che li vede gareggiare insieme in una maratona di ballo. Alla fine del romanzo, Gloria morirà per mano di Robert. Ma questo in realtà lo sappiamo fin dal primo capitolo:

Mi alzai. Per un istante vidi di nuovo Gloria, seduta su quella panchina giù al molo. La pallottola l’aveva appena colpita alla tempia; il sangue non aveva ancora iniziato a scorrere. Il bagliore della pistola le illuminava ancora il volto. Tutto era chiaro come il sole. Lei era rilassata, completamente a suo agio. L’impatto del proiettile le aveva fatto appena voltare la testa; non vedevo bene il profilo, ma riuscivo a scorgere a sufficienza il viso e le labbra per capire che sorrideva.

Non si uccidono così anche i cavalli? è un giallo curiosamente sbrigativo nel presentare il crimine vero e proprio, e sceglie invece di indugiare con metodo, fino al parossismo, sulle cause del delitto. È un giallo in cui il delitto non serve a creare suspense, ma a dare un senso al racconto.

Quando McCoy si trasferì a Los Angeles, la sua carriera d’attore era già fallita in partenza. A dispetto di un provino alla MGM voluto da un responsabile del casting, tutta la sua esperienza fino ad allora era stata solo con una compagnia di teatro amatoriale. Le parti che riusciva a ottenere erano troppo piccole per essere accreditate e ogni tentativo di attribuirgli apparizioni in film precisi rimane al livello di mera ipotesi. Quando sfumò definitivamente la possibilità di lavorare come attore, McCoy iniziò una sequela di lavori occasionali fra cui il bracciante agricolo, il barista e la guardia del corpo, finché a un certo punto non lo presero come buttafuori a una maratona di ballo a Santa Monica. Quel momento gli cambiò la vita, spingendolo come prima cosa a scrivere una sceneggiatura intitolata Marathon Dancers. Il copione non venne mai prodotto ma gli procurò il contratto con la RKO che diede inizio alla sua prolifica carriera di sceneggiatore. Da quel copione respinto nacque il suo primo romanzo.

Proprio come il personaggio del vagabondo che salta di treno in treno, anche la maratona di ballo è un prodotto della Grande Depressione, e spesso più che una realtà sociale ci pare solo una cosa bizzarra. La maratona di ballo è servita a offrire una visione edulcorata della crisi economica americana degli anni Trenta a beneficio delle generazioni più prospere, ma in concreto si trattava di un calvario massacrante mascherato da spettacolo. Le maratone attiravano ballerini amatoriali da tutto il paese e fra produzione e promozione davano lavoro a più di 20.000 persone. Una sfarzosa opera di raccolta e recupero degli scarti del mercato del lavoro. «Sembravano prendere a modello una versione radicale di darwinismo sociale», scrive Carol J. Martin nel suo saggio Dance Marathons: Performing American Culture of the 1920s and 1930s, «dove i più adatti non solo sopravvivevano ma trionfavano, vincendo premi in denaro». Le maratone di ballo erano esibizioni per vaste platee che si svolgevano dentro tendoni, ex armerie e sale da concerto. I concorrenti venivano squalificati se smettevano completamente di muoversi, e avevano a disposizione dieci minuti di pausa ogni due ore per mangiare, dormire, lavarsi o farsi medicare le ferite. C’erano dei medici sempre a disposizione; ed erano presenti anche dei ballerini professionisti, quando il risultato era già stato stabilito in anticipo.

Basandosi su questo spettacolo, McCoy dà vita a un puro delirio di tortura fisica ed emotiva, a cui i suoi due protagonisti si sottopongono volontariamente. All’inizio Gloria e Robert fanno coppia solo per interesse; ma nel corso dei 36 giorni della maratona, quest’unione si trasforma in una tetra dipendenza reciproca. Le speranze e le ambizioni, di venire scoperti o al limite salvati, si dissolvono per gradi insieme alla capacità di resistenza fisica, fino a che resta solo la volontà di arrivare fino in fondo. L’atmosfera creata da McCoy è di assoluta confusione, con un presentatore logorroico, un’orchestra strombazzante, una folla quasi incontenibile composta in egual misura di giovani star e di delinquenti comuni, e «derby» sempre più esasperanti, sera dopo sera, nei quali i concorrenti vengono fatti correre legati con delle cinghie al proprio partner per il divertimento del pubblico. O almeno questa è l’intenzione:

«Fatevi da parte, numero 35», gridò Rocky Gravo, ma prima che un’infermiera o un assistente riuscissero a raggiungerla, la ragazza era già caduta a faccia in giù, strisciando sulla pista per oltre mezzo metro. […] «Attenta!», strillai, ma ormai era troppo tardi. Gloria inciampò sul corpo steso a terra, trascinandomi con sé, e in meno di un istante quattro o cinque coppie si ritrovarono ammassate sulla pista, cercando di rialzarsi. Rocky disse non so cosa al microfono, e la folla sussultò.

Come scrittore d’atmosfera, McCoy ha pochi rivali. Gloria, Robert e gli altri 138 concorrenti si rinchiudono in una sorta di comune raccapricciante dove tutto è sottosopra e l’abbandono orgiastico è la regola. Schietto e sfrontato come il realismo di Cain, lo stile rapido e feroce di McCoy si avvicina molto di più alla dark comedy, con battute finali sgangherate o lasciate senza risposta:

Era la signora Layden, con un foro di proiettile in piena fronte. […] La testa della signora Layden ruotò lentamente su un lato, e una piccola pozza di sangue, che le si era raccolta in un’orbita, si riversò per terra.

John Maxwell vide me e Gloria.

«Stava venendo a fare il giudice nel derby», disse. «È stata una pallottola vagante».

«Magari fosse toccato a me», disse Gloria.

«Cazzo», disse Socks Donald.

La folla circonda, avvolge e ingoia Robert e Gloria. E McCoy fa di Robert il testimone definitivo di queste disavventure, impaziente di raccontare una storia a chiunque voglia starlo a sentire. Quella di Robert non è tanto una voce tragica quanto patetica, che ci intrattiene con speranze ridicole e fasulle:

Ero su una nave diretta a Porto Said. Me ne stavo andando nel deserto del Sahara a girare quel famoso film. Ero una celebrità e avevo soldi a palate. Ero il regista più importante del mondo. Più importante di Sergej Ėjzenštejn. I critici di Vanity Fair ed Esquire mi avevano dichiarato un genio. Mentre gironzolavo sul ponte, pensando a quella maratona di ballo cui avevo partecipato un tempo e chiedendomi che fine avessero fatto tutti quei ragazzi e ragazze, qualcosa mi colpì alla nuca con estrema violenza, facendomi perdere i sensi. Ebbi la sensazione di cadere.

Va da sé, Robert non otterrà niente, neanche l’ultima parola. Di fatto, per il lettore sarebbe stato lo stesso non incontrarlo proprio, se soltanto Gloria non lo avesse invitato, nel terzo capitolo, ad andare al parco a «sparlare un po’ della gente».

Edmund Wilson stroncò l’opera di McCoy per la sua «assenza di caratterizzazione, assenza di motivazione», una critica sensata se consideriamo che quello di McCoy era un mondo basato su uno sfruttamento disumano e contro ogni umanità. Ma Wilson si fece distrarre troppo dal modo in cui McCoy descrive i «sintomi raccapriccianti» della Grande Depressione, e non seppe riconoscere il vero valore di Gloria Beatty, di certo una delle migliori creazioni della penna di McCoy, nonché uno dei personaggi più memorabili, caparbi e commoventi della narrativa noir, e forse persino della letteratura americana tout court. La sua particolare malignità da una parte precorre la sociopatia da ragazzino viziato di Holden Caulfield, dall’altra eclissa lui e tutti gli altri antieroi futuri con la ruvida solidità dello stile di McCoy. In fuga da un passato di violenze familiari in Texas, nemmeno a Hollywood Gloria riesce a trovare tregua. La sua indole oscilla tra non avere nulla da perdere e aver perso già tutto quanto. «Magari morissi anch’io in qualche guerra», ammette bruscamente. «Perché non lo molli, il cinema?», replica Robert.

«E perché mai?», disse lei. «Potrei diventare una star dalla sera alla mattina. Guarda la Hepburn, guarda Margaret Sullavan e Josephine Hutchinson… Ma te lo dico io cosa farei, se avessi il coraggio: salterei da una finestra o mi butterei sotto un tram, cose così».

Pur così sfiduciata, Gloria non è una che rimugina sulle cose. La sua furia esplosiva, al contrario, spara a zero su chiunque lei incontri. Quando un comitato locale di attiviste morali cerca di far chiudere i battenti alla maratona, Gloria sferra un’invettiva al vetriolo:

«È tempo che qualcuno lo dica, alla gente come voi», fece Gloria, spostandosi e mettendosi con le spalle alla porta, come a impedirgli di andarsene, «e quel qualcuno sono proprio io. Voi siete proprio quella razza di zoccole che si chiudono al cesso a leggere libri porno e raccontare storielle sconce, e poi vanno a rompere le scatole a chi si vuole divertire…»

«Non è depressa»: è così che un personaggio, forse l’unico a mostrarsi gentile, avverte Robert. «È astiosa. Odia tutto e tutti. È cattiva d’animo, e anche pericolosa». Robert ne è consapevole eppure va avanti, in quello che forse è l’unica, macroscopica carenza di Non si uccidono così anche i cavalli? dal punto di vista della motivazione dei personaggi. Scendono in pista insieme senza un vero perché. Non si sentono soli, non in modo esplicito; e in una situazione diversa, forse, non avrebbero avuto bisogno l’uno dell’altra. Eppure la meccanica angusta della maratona li tiene bloccati lì, letteralmente legati assieme. L’amore non c’entra affatto. Robert e Gloria passano gran parte del romanzo persi dietro ad altre cose, e mai ad altre persone. «Prima di conoscerti», le dice Robert, «mi sembrava impossibile non avere successo. Mai una sola volta ho pensato di non farcela. E adesso…» Nel primo capitolo, quando è sotto processo, Robert sostiene che era «il suo migliore amico […] il suo unico amico». Quando Robert l’abbia compreso e che significato abbia, non viene mai chiarito. Forse lo capisce quando si accorge che Gloria «di sicuro sarebbe stata meglio morta». O forse un attimo prima di premere il grilletto, quando dice: «prima d’allora non l’avevo mai vista sorridere». O quando la polizia gli chiede perché l’abbia fatto, e lui paragona Gloria ai cavalli del titolo. Se è facile lasciarsi coinvolgere dalla violenza, è altrettanto facile trascurare la frase d’addio di McCoy. Ha creato un personaggio al di là della solitudine, dell’amore e di ogni possibile redenzione, e ha scelto di non giudicarlo.

Per il resto degli anni Trenta e nel corso dei Quaranta, McCoy faticò a conquistarsi una sia pur minima fama come romanziere. Non era il solo, all’epoca; Nathanael West e William Faulkner erano ancora più o meno sconosciuti, e tutti e tre finirono assorbiti dal lavoro di sceneggiatore, più redditizio ma meno fertile dal punto di vista artistico. Come nel caso di West e di Faulkner, il lavoro cinematografico di McCoy è decisamente trascurabile. Messo sotto contratto dalla Paramount, scrisse sceneggiature per svariati film di genere e di serie B, di certo niente che potesse andare oltre i parametri del gusto medio. Pubblicato nel 1937, Un sudario non ha tasche, secondo romanzo di McCoy, più idealista dell’esordio, è una rievocazione degli anni in cui faceva il giornalista prima di approdare a Los Angeles. Un reporter scandalistico armato solo della sua penna intraprende una crociata contro la corruzione politica e forse persino contro l’idea stessa della corruzione, ma il finale non infonde maggiore speranza di Non si uccidono così anche i cavalli?. Sarei dovuto restare a casa (1938) lo riconduce nel lato oscuro di Hollywood, sulle orme di un’altra comparsa senza lavoro che, in un passaggio della trama che fa presagire Viale del tramonto, comincia a farsi mantenere da una signora anziana e benestante. Per un decennio sarebbe rimasto il suo ultimo romanzo.

Il periodo di magra di McCoy ebbe fine nel 1948, probabilmente grazie alla riscoperta in Francia di Non si uccidono così anche i cavalli?, in particolare all’interno della cerchia degli esistenzialisti i quali, dopo la seconda guerra mondiale, si erano invaghiti di quello che Mary McCarthy ha chiamato «lo stupido paradiso della violenza» che si può trovare in scrittori come Cain. Simone de Beauvoir definì Non si uccidono così anche i cavalli? «il primo romanzo esistenzialista pubblicato in America». Il ritorno sulle scene di McCoy che ne seguì, Un bacio e addio, ha avuto meno ristampe ma viene spesso considerato quasi allo stesso livello di Non si uccidono così anche i cavalli?. Parte del merito è forse da attribuire all’adattamento del 1950, una mera cornice per James Cagney, ma non è sbagliato pensare che sia dovuto alla pura e semplice ambizione del libro.

Lungo quasi tre volte Non si uccidono così anche i cavalli?, Un bacio e addio narra declino e disfatta di Ralph Cotter, criminale di professione. Cotter è, per sua stessa ammissione, una canaglia: ma «una canaglia con alcuni fiori all’occhiello […] fra cui una chiave Phi Beta Kappa, una laurea e una serie di psicosi per le quali il dottor Lombroso avrebbe fatto carte false». In seguito a una violenta ma riuscita evasione dai lavori forzati, Cotter e la sua banda si rintanano in una città senza nome, dove lui torna alle vecchie abitudini, mettendo a segno furti e raggiri attraverso una rete fatta di malviventi del posto, sbirri e avvocati corrotti, un ex governatore e la sua eccentrica, esotica figlia che si innamora di lui. È un eroe negativo senza grinze, che si è corazzato dietro la bieca disinvoltura con cui uccide anche quando non ce n’è bisogno.

Messo a confronto con Non si uccidono così anche i cavalli?, Un bacio e addio è più vicino all’essenza del noir. È anche più ricco di trama e caratterizzazione; lo stile in prima persona è più complesso, abbraccia un lessico più ampio e mostra una tendenza quasi compulsiva all’uso della similitudine («il proiettile lo centrò nell’occhio sinistro, sprizzò fuori una goccia di sangue e la palpebra ricadde sopra al foro come una serranda sopra un vetro buio»). È uno scimmiottamento di Chandler ma si ferma appena prima di scadere nella parodia.

È anche il romanzo meno riuscito fra i due. Un bacio e addio vive e muore col suo protagonista. Cotter ci porta nel suo mondo, veniamo edotti su tutto quello che pensa, siamo obbligati ad assistere alle sue azioni. Quello di McCoy è un ritratto meticoloso, da estimatore, nel contrasto esplicito che crea fra depravazione ed eloquenza, ma rivela un difetto di capacità da parte dello scrittore. Cotter è un personaggio di ordinaria crudeltà e di insicurezza mostruosa. Ogni occasione è buona per far vedere al lettore o agli altri personaggi quant’è intelligente, non solo per i titoli accademici che possiede, ma proprio perché è un essere superiore. «I quattrini, non serve altro», dice. «Gesù, prendi Karpis, Dillinger e Pierpont […] Non riusciresti a finire le elementari nemmeno mettendo insieme tutti i loro cervelli». Quando è al suo meglio, esprime una rabbia amara alla Walter White di Breaking Bad, ma l’intelligenza di White è di gran lunga più raffinata, oltre che una risorsa molto più preziosa. Nel caso di Cotter invece è più una nota di colore, qualcosa che serve a nascondere i suoi traumi freudiani e i suoi impulsi irrazionali, grossolani al limite della caricatura. McCoy non era tanto abile a descrivere il male, almeno non se lo si paragona a Jim Thompson, che quattro anni dopo Un bacio e addio pubblicò L’assassino che è in me, incentrato sul sadico sbirro Lou Ford, che senza dubbio è il personaggio più malefico di sempre prima di Hannibal Lecter e del giudice Holden, e che merita il nostro terrore ben più del Cotter di McCoy.

Un bacio e addio è un romanzo dignitoso, che seduce il lettore offrendogli uno sguardo morboso dentro i problemi di un’altra persona. D’altra parte, Non si uccidono così anche i cavalli? non ci dà gli stessi brividi che ci danno Un bacio e addio e altri noir analoghi. È un libro che non sarebbe mai esistito se non ci fosse stata la Grande Depressione e se McCoy non avesse avventatamente lasciato il suo lavoro in piena crisi economica. La frase «Sono stanca di vivere, e ho paura di morire» non è la semplice espressione di un malessere. Scrittori dell’epoca come David Goodis avrebbero potuto uguagliare senza problemi la disperazione di Gloria Beatty, ma non la sua rabbia, che si libra molto più in alto del firmamento del noir. Più che con Il postino suona sempre due volte (McCoy si irritò sempre per il paragone), il romanzo ha più affinità con i saggi del Crollo di Fitzgerald apparsi su Esquire nel 1936. All’affermazione di Fitzgerald che «la vita è tutta un processo di disgregamento», anche se di gran lunga più eloquente del suo discorso, Gloria non avrebbe controbattuto. E un’altra cosa che il noir non può uguagliare è la frenesia amorale del romanzo. Nella famiglia del noir, Non si uccidono così anche i cavalli? è una sorta di fratellastro incattivito e irritabile, ed è allo stesso tempo il genitore irresponsabile di classici della trasgressione più recenti come Crash e Meno di zero.

Far entrare nel canone Non si uccidono così anche i cavalli?, però, vorrebbe dire chiedergli di essere più di quel che è, e al tempo stesso neutralizzarlo. Non è un libro che vuole risultare piacevole, ma uno di quelli che dovrebbe attirare i lettori alle proprie condizioni, per dure che siano. Certe opere d’arte non hanno né pretendono che gli venga riconosciuto un valore sociale di riscatto; certe opere d’arte, come dice J.G. Ballard, vogliono «strofinare la faccia dell’umanità contro il suo vomito e costringerla a guardarsi allo specchio». Il mondo da cui è nato Non si uccidono così anche i cavalli? oggi può esistere solo come un fantasma o un incubo che si ricorda appena, ma quella commistione di cinismo e ferocia è sempre lì, famelica, che ci aspetta al varco di ogni nostro trionfo. E non sarà soddisfatta finché non inizieremo a valutare la remota possibilità che Gloria abbia ragione, e che il delitto di Robert sia giustificato.

 

© Chris Morgan, 2015. Tutti i diritti riservati