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Guida allo stile Nobel-marqueziano/2

Francesco Varanini Scrittura, SUR

Pubblichiamo oggi la seconda parte del lungo saggio di Francesco Varanini dedicato allo stile “Nobel-marqueziano”, ricordando che è tratto dal suo libro Viaggio letterario in America latina (Marsilio 1998, Ipoc Press 2010) e che è stato adattato per la pubblicazione sul blog.

La incredibile e triste storia della Guayaba senza più profumo e dello scrittore ormai senza cuore

Guida allo stile Nobel-marqueziano attraverso esempi tratti da El general en su laberinto

di Francesco Varanini

Regola n.1, ovvero L’estetica del tocco in più

La prima cosa che deve apprendere l’aspirante scrittore nobel-marqueziano è questa: essere ridondante ed enfatico, cercare il ghirigoro esornativo, il vezzo.

In battello sul fiume, di fronte a una situazione di pericolo Simón Bolívar, pur prostrato dalla malattia, pur inesperto di navigazione, interviene a correggere un ordine sbagliato del capitano. Per descrivere la scena queste parole sembrano già troppe. Eppure attorno al gesto autorevole del Libertador Márquez riesce a imbastire due righe traboccanti di istinti che trascinano, di Eroi che si fanno strada tra il vento e la pioggia, di orli dell’abisso sfiorati.

Il maestro, infatti, rende così la scena: Allora si lasciò trascinare dall’istinto, si fece strada tra il vento e la pioggia, e si oppose all’ordine del capitano sull’orlo dell’abisso. L’enfasi è lo scheletro della frase, l’aggettivazione è posta al centro dell’attenzione. Il cerimoniale è untuoso; la conversazione dispersiva; i lamenti amari; il danno grave; la carrozza sgangherata. L’artistocrazia è regressiva; gli indios taciturni; il corteo a cavallo allegro; le stradicciole fangose; il calore mortale; i canneti vasti; il sentiero profumato; la savana splendida; i salici sconsolati. Il gruppo degli amici è, naturalmente, selezionato, l’amicizia grande e vecchia, ed è un sentimento sviscerato, così come è sviscerato un lamento. Le mandrie di cavalli sono magnifiche, i cavalli sono epici, leggiadri, avvenenti (come una donna), e corrono in libertà. Il paraggio può essere tenebroso, come tenebrosa è la notte. E notti scalmanate, notti libertine, notti babiloniche, notti segrete e fresche, notti interminabili nelle quali tutto potrebbe capitare.

L’importante è che l’aggettivo ci sia. Poco importa se è sempre lo stesso, se è gratuito o banale: l’effetto, almeno quello sonoro, è assicurato ugualmente.

È sorprendente l’impressione, ma lo è anche il ruggito. È radiante il cranio a causa della calvizie totale, ma sono radianti anche le voci degli schiavi, così come è radiante il sole ed è immensa e radiante la notte. I tramonti sono, com’è noto, fugaci, ma possono esserlo anche gli svenimenti. Le schiave di Manuelita Sáenz – una fra le tante donne che furono al fianco di Bolivar, sicuramente quella dotata della personalità più forte – sono guerriere e immortali; immortale è anche la blenorragia.

E il luogo in cui terminerà tristemente i suoi giorni Manuelita è irrilevante, è un porto qualsiasi, eppure l’arte del tocco in più permette di descriverlo in questi termini: un sordido porto del Pacifico dove andavano a riposare le navi baleniere di tutti gli oceani.

Anche un semplice bisogno fisiologico può essere occasione per un pezzo di bravura: infatti i colonnelli dello Stato Maggiore del generale non si limitano a orinare, ma scaricano i loro rancori ammoniacali sui vasi di gerani. E il vino di Borgogna bevuto in quella cena non era semplicemente buono, era di gran classe, tanto che il conte lo definì senza pudore come una carezza di velluto. Bolívar, comunque, beve vino molto di rado. Di solito sorbisce un infuso che non può che essere fumante.

Il generale (la cui fronte, oberata com’è dai pensieri, appare solcata da nuvole erranti) è gravemente malato. Anzi: la sua salute sta subendo una erosione insaziabile, e ormai costantemente il suo corpo arde nel rogo della febbre. Allo stesso modo, perché limitarsi a dire che il generale un tempo aveva i capelli lunghi, se si possono riempire due righe spiegando che quando ancora usava portare i capelli lunghi sulle spalle e se li legava sulla nuca con un nastro per stare più comodo nelle battaglie di guerra e d’amore. Se poi lo vediamo radersi baffi e basette, subito ci viene spiegato che così facendo cerca di fermare il vento impetuoso della gioventù fuggitiva che gli scappava tra le dita.

Niente dovrà restare privo di aggettivi. Nemmeno i bagni che il Libertador frequentemente si prende. Già alla seconda riga lo troviamo immerso in acque depurative. Subito dopo le acque ci appaiono medicinali. Cento pagine, e sono divenute abrasive, cinquanta pagine ancora e sono inutili. E sempre l’eroe, pur fiaccato nel corpo e nell’animo, non si limita a uscire dalla vasca, ma emerge dalle acque con l’impeto di un delfino. Approssimandosi la fine (del romanzo e della vita del generale) il bagno si mostra, giustamente, illusorio, benché cinque pagine dopo, di fronte ad una nuova abluzione, forse stanco, l’autore si contenti di un bagno emolliente.

Regola n. 2, o Del machismo stilistico

Le regole dello scrivere nobel-marqueziano sono imbricate. Si sovrappongono l’una all’altra; ma è una sovrapposizione parziale, ogni regola permettendo di fare un passo in più verso il pieno dominio dello stile.

Appreso ad aggettivare comunque e dovunque, a cercare appena possibile la metafora, si dovrà ora imparare a non farlo a caso. Sarà opportuno evitare i mezzi toni, e ci si dovrà invece esprimere per affermazioni decise ed assolute. I vezzi, i ghirigori, i giri ridondanti ed enfatici dovranno aggiungere alla frase un valore di verità irrefutabile, apodittica.

Ma lasciamo subito la parola al nostro maestro, ché gli esempi valgono più di ogni commento.

Scappare a piedi per un appuntamento incerto, di notte e senza scorta, era non solo un rischio inutile ma anche una insensatezza storica. L’autore sa e giudica. Bacchetta sulle dita anche Bolívar. Che recarsi a piedi a un appuntamento incerto di notte e senza scorta fosse un rischio inutile, avrebbe potuto pensarlo chiunque. Ma Márquez, va oltre: è anche una insensatezza storica.

La corda della magniloquenza deve essere sempre tesa all’estremo: l’America è il continente immenso che Bolívar si propone di convertire nella lega di nazioni più grande, o più straordinaria, o più forte mai apparsa fino a quel giorno sulla terra. Perciò non basterà che i generali mostrino coraggio: dovranno dar prova di un coraggio personale quasi folle.

Tutto dovrà essere portato al limite, anche nella descrizione del privato: sarà opportuno non limitarsi a dire che Bolívar vomita: quanto meno sarà sul punto di vomitare le viscere; e se tremerà di freddo e di rabbia, sarà, senza dubbio, fino al midollo. E non solo il generale danza e balla con una grazia insuperabile, ma mostra, nel radersi, un dominio del polso stupefacente. La sicurezza in ogni gesto del Libertador è contagiosa: già nella prima pagina José Palacios, lo schiavo-maggiordomo sempre pronto a soddisfare fino ai minimi desideri del grande eroe delle Americhe, regge la tazzina dell’infuso d’erbe con impavida maestà.

Nelle pagine scritte alla maniera nobel-marqueziana un imbroglio giudiziario non potrà che essere leggendario, gli sforzi saranno sempre temerari, il disprezzo imperiale, le sconfitte omeriche, le istruzioni e gli ordini categorici, i banchetti affollati e splendidi, gli abbracci enormi, lo schiamazzo degli uccelli e delle scimmie assordante.

Ed ora, qualche consiglio pratico. Il valore estremo delle situazioni – ci insegna il maestro – può essere efficacemente sottolineato ricorrendo al prefisso aggettivale in-: avremo così emergenze navali indimenticabili, spose con vocazioni matriarcali indomabili, ricordi irripetibili, volti di bellezza incontestabile, libri introvabili.

Dove appena possibile, scrivendo, si andrà fino all’estremo: La sua inimicizia con Santander era di dominio pubblico, ma Bolívar la porta fino all’estremo rifiutandosi di continuare a ricevere le sue lettere. Il tema delle malversazioni lo trascinava senza controllo all’estremo della perfidia.

Nello scrivere non dovrà essere trascurata nessuna risorsa utile per opprimere (per non essere dimenticato Bolívar manda alle sue amanti regali opprimenti) e confondere (un sergente confuse con la verità il Libertador).

Opprimere, schiacciare, confondere, sconvolgere il lettore: questo deve essere lo scopo della scrittura.

Anche l’abuso di effetti è una manifestazione di autorevolezza, come lo è il ricorso insistito agli stessi aggettivi, agli stessi giri di frase: l’autore gode di una assoluta impunità, può scrivere quello che vuole. Così Cartagena de Indias – i cui bastioni sono naturalmente invincibili – è città nobilissima ed eroica, mille volte cantata come una delle più belle del mondo; ma ciò non toglie che anche la baia di Santa Marta resti nel ricordo di Bolívar come la più bella del mondo. Le tempeste sono bibliche, e biblici sono anche gli improperi e le collere. L’oblio può essere abominevole così come una passeggiata o una donna. Energica una offerta, ma anche una penitenza. E interminabile può risultare un galoppo, così come un viale, una notte o una partita di carte. Millenaria la pioggerella, che è anche eterna, come la pioggia, e come eterni sono le crisi, il lutto e le sciocchezze.

Regola n. 3, ovvero L’alibi del paesaggio

Il generale Bolívar prese commiato con una frase amabile da ognuno dei membri della comitiva ufficiale. Lo fece con un finto sorriso perché non si notasse che in quel 15 maggio di rose ineluttabili stava iniziando il viaggio di ritorno verso il nulla. Grande lezione; tecnica utilissima ad ogni scrittore: quando non sapete cosa dire, né come dirlo, condite così le vostre frasi amabili con rose ineluttabili.

Non importa se l’espressione è priva di significato, o assurda, perché l’autore abilmente ha definito un contesto nel quale qualsiasi assurdità pare dotata di senso. Se al Caribe tutto è magico e la realtà supera il sogno, allora ogni espressione strampalata può essere presa per geniale e ogni accostamento grossolano può apparire raffinato.

Nel patio illuminato, di notte, si alza il vapore dei gelsomini. La carne fosforescente del cervo ha un sapore di gelsomino.

Miranda Lynsday, elegante e altera, esala una fragranza primaverile. Ma c’è di più: in questi luoghi meravigliosi anche le flatulenze – quando non sono, all’opposto, pietrose e fetide – sono fragranti.

La tavolozza comprende solo poche sfumature, elementari: forse i colori del tropico sono troppo violenti, e abbagliano. Le tenute ben curate vantano praterie azzurre. Il generale se ne sta taciturno tra i suoi decani, verde il bagliore dell’alba. Vediamo apparire una frangia arancione all’orizzonte, e si fa luce – ma arancione è anche l’enorme luna. Il sole è svigorito, il sole delle undici sta immobile sugli arenili delle strade, mentre invece i soli delle due del pomeriggio sono indegni e i soli mercuriali del deserto provocano insolazioni. Faceva tanto caldo nella sala del Cabildo che l’aria ribolliva. Mentre ottobre si riduce al rumore della pioggia e dicembre si approssima con le sue sere di topazio.

I documenti sono analgesici; i baci del generale sono balsamici, il suo stomaco non sopporta più l’inclemenza di una donna nell’oscurità, una meticcia selvaggia di diciotto anni santifica le sue insonnie, lui e Manuela fanno l’amore a qualunque ora e in qualunque posto nel fragore delle belve amazzoniche che lei ha addomesticato con i suoi incanti.

Passano sotto le chiatte pesci immensi persi tra le stelle del fondo e da altre imbarcazioni ci salutano bambini decrepiti. Siamo torturati dal calore e da raffiche di zanzare, raffiche di marciume, raffiche di sonno, raffiche di demenza.

Regola n. 4, o Il rinforzo del già detto

Scrivere alla maniera nobel-marqueziana significherà rimandare sempre e comunque alle pagine già scritte. Regola aurea per un scrittore maturo, a corto di ispirazione, ma utile anche ad ogni autore che non abbia tempo, voglia o capacità di pensare troppo a quello che scrive. Anche il nuovo dovrà essere fatto apparire vecchio. Il lettore dovrà percepire che ogni movimento è circoscritto all’interno di un mondo chiuso, autoreferenziale, riconoscibile.

Parlate di argomenti di cui il pubblico vi considera esperti, andrete sul sicuro. Scrivete sempre quello che si aspettano da voi, eviterete al lettore la fatica del nuovo. Date al lettore conferme, vi resterà fedele. L’importante è che venga colto il marchio imposto dall’autore al testo: badate ad autocitarvi prima che a narrare. E siccome la citazione dovrà apparire palese anche al lettore distratto, non abbiate paura ad esagerare.

Perciò nel General en su laberinto non si parla di Bolívar se non per quanto è possibile farlo attraverso forme e contenuti estratti dai precedenti romanzi di Márquez. Non c’è un rigo che non rimandi a personaggi già presentati, a situazioni già visitate; non c’è un aggettivo nuovo, non c’è un giro di frase che non sia già stato collaudato. Cosicché risulterà irrilevante l’eventuale verità storica delle vicende narrate: il Bolívar-personaggio non è che una variazione del colonnello Aureliano Buendía, e quindi, senza dubbio, un personaggio di Márquez.

Ed ecco dunque riproposta in pillole, parlando del generale, la mitologia marqueziana. La metafora delle foglie morte: andava fino al fiume vicino sopra il manto di foglie fradice dei viali interminabili. I centri del potere in rovina dell’Otoño del Patriarca: i palazzi dei marchesi assaliti dal popolino lasciavano fuggire negli immondezzai delle strade topi grossi come gatti. E gli stessi escrementi di vacca presi a simbolo dell’estremo sberleffo al potere: gli escrementi di vacca lanciati in segno di spregio contro il generale, che arrivarono a schizzargli la faccia.

Il mondo fluviale dell’Amor en los tiempos del cólera: risalgono sbuffando il río Magdalena i battelli del commodoro Ebers, scendono verso la costa caraibica zattere di tronchi sulle quali i viaggiatori hanno costruito casette di sogno con vasi di fiori e biancheria appesa ad asciugare alle finestre, e scendono anche i battelli di Bolívar e del suo seguito, sfidando il calore mortale, le tempeste bibliche, le correnti traditrici, le minacce delle belve.

Come i Buendía in Cien años de soledad Manuela Sáenz viaggia lungo i precipizi da brivido delle Ande. Anche il suo è un trasloco di zingari, con i bauli che viaggiavano su una dozzina di mule. Ma Manuela, addirittura, porta con sé una sorta di zoo che riassume tutte le meraviglie del bestiario marqueziano: undici gatti, sei cani, tre scimmie educate all’arte delle oscenità di corte, un orso ammaestrato ad infilare gli aghi, e nove gabbie di pappagalli di vario tipo straparlavano contro Santander in tre lingue.

Come a Macondo le case hanno un cortile interno adatto per meditare sotto la ceiba centenaria. Come a Macondo passa per la via centrale una carovana di donne di diverse età e colori, che lasciarono l’aria satura di un profumo svilito. Montavano all’amazzone, e portavano ombrellini di raso stampato e vestiti di sete delicate.

E agli antipodi di Macondo sta, qui come in ogni pagina precedente del nostro, Bogotá. Una città lontana e fosca, città di nebbie e spifferi gelati, città di strade strette e senza vita con case uguali dai tetti scuri, nella quale tanto il generale che l’autore non possono che sentirsi, più che in qualsiasi altro luogo, stranieri.

La galleria di figure femminili è infinita, eppure sempre uguale: una meticcia, una bella mulatta nel fiore dell’età, con un profilo da idolo, un’adolescente languida con una tunica di mussolina quasi invisibile. Oppure, a scelta, una donna così bianca che lo splendore del suo corpo la rendeva visibile al buio, e che quella notte, inoltre, era riuscita a superare il prodigio della sua bellezza con quello del suo ornamento, dato che aveva indossato sopra il vestito una corazza fatta con la fantastica oreficeria locale. E le notti d’amore sono naturalmente innumerevoli, gli amori tormentati, eterni, ardenti, furtivi, dimodoché neanche il protagonista – Bolívar o un qualsiasi Buendía, non importa – sa con sicurezza chi ha scelto, tra la nonna di cinquantasei anni, la figlia di trentotto, o le nipoti, anche queste nel fiore dell’età.

Mostruoso e meraviglioso vanno di pari passo. Se in Cien años de soledad troviamo uomini con la coda, qui troviamo uomini corpulenti come alberi, con creste e zampe di gallo. E come le parti più intime del corpo di José Arcadio Buendía, il marinaio, sono coperte di un groviglio di tatuaggi, qui è attraversato da un groviglio di cicatrici il torso nudo di José María Carreño.

Il corpo di Bolívar è invece il più malandato che si possa concepire: il ventre squallido, le costole a fior di pelle, le gambe e le braccia ridotte all’osso, e il tutto avvolto in una pelle senza peli pallida come quella di un morto, con una testa che sembrava di un altro per come l’aveva ridotta l’esposizione alle intemperie. Come Ursula nella estrema vecchiaia, il generale con l’età non solo rinsecchisce, ma rimpicciolisce: i suoi piedi e le sue mani sembravano rimpiccioliti. José Palacios aveva notato che portava i pantaloni quasi all’altezza del petto, e doveva fare un risvolto ai polsini della camicia.

Le guerre bolivariane sono repliche delle infelici campagne di Aureliano Buendía: centosedici giorni di assedio, durante i quali gli assediati mangiarono perfino le suole delle scarpe, e più di seimila morirono di fame. E come il colonnello si ritirerà a Macondo a consumare il tedio fabbricando pesciolini d’oro, così Manuelita si esilia in quel remoto porto del Pacifico, a intrattenere l’oblio con il lavoro a maglia, i tabacchi da mulattiere e i dolci a forma di animaletti che preparava e vendeva ai marinai finché glielo permise l’artrite delle mani.

Anche la descrizione delle biblioteche di Bolívar ci appare una ripresa, esagerata, delle pagine dedicate alla stanza di Melquiades: gli scaffali delle varie case dove visse furono sempre sul punto di scoppiare, e le camere da letto e i corridoi finirono trasformati in angusti varchi tra libri ammucchiati, e montagne di documenti vaganti che proliferavano al suo passaggio e lo perseguitavano senza misericordia cercando la pace degli archivi.

E lo scenario naturale ci è così noto da apparirci del tutto scontato. I fiori selvaggi e la festa degli uccelli; nel cielo l’eterna macchia di gallinazos, e poi il loro azzuffarsi per i resti di un cane morto. Gli intricati rami di mangrovie nelle paludi morte; aldilà la pianura calcinata, folgorante, immensa; e sullo sfondo i vulcani perennemente innevati. Naturalmente, piove a dirotto. Nubi nere scendono dalla cordigliera, si piantano sulla città e si sventrano in un diluvio istantaneo. Tormente di acqua e tuoni si precipitano sulla città con conseguenze disastrose. Gli acquazzoni, di una violenza distruttrice, sismica, sospinti da venti incrociati strappano gli alberi dalle radici, smantellano mezzo villaggio, mettono a soqquadro le stalle e trascinano via gli animali affogati.

Se poi dopo tre giorni di pioggia torna il sereno, allora la luce è una farina d’oro che filtra tra gli aranci e fa schiamazzare gli uccelli tra le zagare.

Non potrà trattarsi comunque di una condizione duratura: perché nei mondi mondi nobel-marqueziani l’umidità apre facilmente crepe nella memoria, e la pioggia tende a farsi eterna: come sa ogni lettore di Cien años de soledad, continuerà a piovere fino alla fine del secolo.

Così, con il generale, tocchiamo il fondo: in uno di questi esami del passato, perso nella pioggia, afflitto da una attesa senza scopo e senza perché, il generale toccò il fondo: pianse nel sonno.

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