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«Le scimmie», un racconto che non lascia scampo

Francesco Fava Autori, José Revueltas, SUR

Le scimmie, del messicano José Revueltas, è in libreria. Pubblichiamo un articolo di Francesco Fava, uscito in versione ridotta sul manifesto, ringraziando l’autore e la testata.

Si potrà finalmente leggere anche in italiano, con il titolo di Le Scimmie (pubblicato da SUR, a cura di Alessandra Riccio), il racconto capolavoro di José Revueltas, El apando, scritto nel 1969 durante la detenzione dell’autore nel carcere messicano di Lecumberri.

La figura di Revueltas, per il Messico, occupa un posto di rilievo tanto nella storia letteraria quanto in quella del movimento operaio. Nonostante sia difficile, nel suo caso, separare il militante dallo scrittore, è comunque necessario evitare di ridurne la vasta opera a una «prosecuzione con altri mezzi» dell’attivismo politico.

Nato nel 1914 nello stato di Durango, cresciuto in una famiglia di artisti (un compositore, un pittore e un’attrice, tra i suoi fratelli), Revueltas è militante comunista sin da giovanissimo e letterato autodidatta. «Ribelle e luciferino» lo definisce il filosofo messicano Leopoldo Zea, accostandolo allo scrittore che Revueltas più amava, Dostoevskij. La sua vita è in effetti un appassionato succedersi di ribellioni e polemiche, riflessioni teoriche e abiure e nuove ribellioni. Revueltas, nomen omen, è prototipo di un ‘homme révolté’ insofferente nei confronti di ogni acquiescenza, ogni luogo comune del pensiero, ogni ingiustizia.

I suoi due romanzi più importanti, El luto humano (1943) e Los días terrenales (1949), cercano nella forma del ‘realismo critico’ una via alternativa alle semplificazioni del realismo socialista e del cosiddetto romanzo della rivoluzione messicana. Ambientati negli anni Trenta, tra rivolte agrarie e tensioni sociali che pervadono ogni aspetto della quotidianità, i due romanzi esplorano la complessità psicologica dei protagonisti senza nascondere contraddizioni e lati oscuri. Il libro del 1943 gli valse il Premio Nacional de Literatura; quello del 1949, la condanna da parte del Partito Comunista Messicano e di molti colleghi, tra cui Pablo Neruda, con l’accusa di esistenzialismo. Revueltas in un primo momento rinnegò l’opera, in nome della fedeltà alla causa. Nonostante il romanzo fosse, più che esistenzialista, «una denuncia delle pratiche e del clima mentale propiziati dallo stalinismo all’interno dell’apparato di partito» (è la definizione del critico e scrittore Evodio Escalante). In un suo romanzo successivo (Los errores), Revueltas esplicita attraverso le parole di uno dei personaggi un dilemma cruciale nella sua traiettoria politica: «su di noi, i comunisti autentici – membri o meno del partito – peserà il terribile, il soverchiante compito di collocare la storia dinanzi al bivio di decidere se quest’epoca, questo secolo pieno di perplessità, sarà definito come il secolo dei processi di Mosca o il secolo della rivoluzione d’ottobre». Sebbene la storiografia sia ricorsa a formule assai diverse per definire il XX secolo, è la coscienza di questo bivio, sempre presente in José Revueltas, a fare da bussola nelle sue scelte intellettuali.

Nella travagliata storia della sinistra messicana – passando attraverso il trotskismo, l’elaborazione dello spartachismo, i diversi movimenti e gruppi politici a cui si avvicina, che anima, e da cui più volte si ritrova a essere espulso – Revueltas si staglia per coraggio e integrità, finendo per diventare un punto di riferimento morale e ideologico per il movimento studentesco del ’68. Un mese dopo il massacro di Tlatelolco, nel novembre del 1968 la furia repressiva della presidenza Díaz Ordaz lo conduce nel carcere di Lecumberri, dove rimarrà oltre due anni. In quella prigione concepisce e ambienta la sua opera più visionaria: El apando (letteralmente, la cella di isolamento). In apparenza, un testo meno politico dei precedenti. Ma senza dubbio, come sottolinea Elena Poniatowska nel saggio incluso come postfazione del volume edito da SUR, il suo testo più «universale».

Lascia qualche dubbio la decisione di presentare l’opera con il titolo di Le scimmie (la traduzione di Alessandra Riccio, pubblicata in rivista alcuni anni fa, è stata per l’occasione rivista da Violetta Colonnelli), nonostante «scimmie» sia senz’altro parola chiave nel testo. È l’appellativo con cui, sin dalla prima riga, i tre reclusi protagonisti del racconto si riferiscono alle guardie carcerarie. La disumanizzazione, però, coinvolge sia gli uni che gli altri, le figure tetre dei secondini come quelle brutali di Albino, Polonio e il Coglione, i tre compagni di cella intorno ai quali si impernia il racconto. Un racconto serrato e claustrofobico, che non lascia respiro: quaranta pagine senza mai andare a capo. Un racconto allucinato: i tre protagonisti sono tossicodipendenti, e il disperato tentativo di farsi recapitare la droga anche in cella d’isolamento costituisce l’episodio centrale del testo, determinando un crescendo rabbioso che conduce all’inevitabile deflagrazione finale.

Revueltas non espone una tesi, non si propone di stabilire chi siano le vittime e chi i carnefici, lasciando al lettore il compito di constatare la perdita di senso di ogni distinzione, tra prigionieri e sorveglianti, in buoni e cattivi, liberi e reclusi. Osserva con occhi lucidi: «sebbene il cubo formasse parte del Braccio […] la presenza dei secondini di guardia, chiusi lì dentro, gli dava l’aspetto di un carcere a parte, un carcere per i carcerieri, un carcere dentro il carcere». Osserva senza pietà, in descrizioni che procedono per accumulo e caricano ogni dettaglio di una violenza latente ma via via più palpabile. Intravista persino nelle volute di fumo di una sigaretta, sospese nell’aria della cella: «Gli impetuosi cumuli della boccata di fumo che lasciò andare Polonio invasero la zona di luce con il disordine trascinante delle groppe, dei musi, delle zampe, delle nubi, delle incitazioni e del tumulto di una cavalleria, scavalcandosi e avvoltolandosi nella lotta corpo a corpo dei loro stessi volumi cangianti e ritmati, per poi, poco a poco, grazie all’immobilità dell’aria, integrarsi con la cadenza lieve e sottile di una quiete orizzontale, simile a una parata vittoriosa di diverse formazioni militari dopo una battaglia».

Nel carcere descritto da Revueltas, nei pensieri e nelle ossessive fantasie dei tre detenuti nessun sentimento, e neppure il pianto, è in grado di nobilitare o riscattare le ferite di una condizione umana imprigionata. Anzi, piuttosto le sottolinea, ne approfondisce le cicatrici: «Le lacrime grosse e lente scivolavano lungo la guancia in corrispondenza della vecchia rasoiata che andava dal sopracciglio al mento, invece di una linea verticale seguivano il corso della cicatrice e gocciolavano dalla punta del mento, lontane dagli occhi, lontane da qualsiasi pianto umano».

Un racconto che non lascia scampo proprio perché non assolve né condanna. Revueltas, ne El Apando, raggiunge il culmine della propria espressione letteraria non solo grazie a una scrittura meticolosa e acuminata, ma anche, e soprattutto, per un gesto che è insieme letterario e politico: guardare negli occhi ciò da cui si è soliti distogliere lo sguardo. Lo fa mentre si trova in carcere e, parlando di carcere, la lettura inevitabilmente chiama in causa anche il nostro qui e ora.

Tra le tante testimonianze e rielaborazioni letterarie del cruento 1968 messicano (da La noche de Tlatelolco di Elena Poniatowska a La plaza di Luis Spota, per citare due opere emblematiche), il testo di Revueltas è in effetti quello che, letto oggi, più implacabilmente ci interroga. Scomodo per l’ortodossia comunista che lo scomunica, così come per il governo messicano che lo incarcera, José Revueltas non lascia comodo neppure il lettore, con la sua galleria di personaggi e situazioni disturbanti. Proprio in virtù di questa scomodità, è un autore assolutamente necessario.

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