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José Emilio Pacheco: l’economia del narrare

[1]Stefano Gallerani ha recensito Il vento distante [2] di José Emilio Pacheco sull’ultimo numero di Alias. Ripubblichiamo oggi il suo articolo ringraziando l’autore e la testata.

di Stefano Gallerani

Spentosi lo scorso gennaio, per oltre cinquant’anni José Emilio Pacheco è stata una delle figure più autorevoli della cultura letteraria messicana. Nato nel 1939, e dunque appartenente alla Generación de medio siglo (la stessa, tra gli altri, di Eduardo Lizalde, Sergio Galindo, Juan García Ponce e Salvador Elizondo), nell’arco della sua intera esistenza lo scrittore di Città del Messico ha affiancato, alla produzione poetica e narrativa, un’infaticabile attività giornalistica (dalle colonne della rivista Proceso, per cui teneva la rubrica settimanale «Inventario») ed editoriale (sue, ad esempio, traduzioni di T.S. Eliot, Samuel Beckett, Oscar Wilde e Marcel Schwob), collezionando numerosi tra i più prestigiosi riconoscimenti per un autore di lingua spagnola (su tutti, nel 2009, il Premio Cervantes, quarto messicano dopo Octavio Paz, Carlos Fuentes, Sergio Pitol e prima, l’anno scorso, di Elena Poniatowska). Di quest’opera, che annovera quindici raccolte poetiche, due romanzi e tre volumi di racconti, in italiano non sono disponibili che un’ampia silloge delle poesie, pubblicata da Medusa nel 2006 (Gli occhi dei pesci. Poesie 1958-2000), il romanzo Le battaglie nel deserto (laNuovafrontioera, 2012) e, appena licenziato dalla Edizioni SUR, il volume Il vento distante (traduzione di Raul Schenardi, pp. 121, € 14,00). Si trovano, in quest’ultimo, introdotti da un paio di versi di Henri Michaux («Labyrinthe, la vie, labyrinthe la mort / Labyrinthe sans fin, dit le Maître de Ho»), quattordici racconti mediamente lunghi non più di dieci pagine che testimoniano una delle massime virtù del Pacheco prosatore, ovvero la sintesi: un misto di velocità e dinamicità (lo stesso che si può saggiare nei brevi, dodici capitoletti de Las batallas en el desierto) che si raggruma intorno ai personaggi – e a frammenti delle loro vite – per illuminare, si direbbe quasi scovare, nelle pieghe più minute della vita quotidiana come nei periodi più significativi della storia messicana, un sentimento insieme nostalgico ed elegiaco nei confronti del  passato; una dichiarazione d’amore, in altri termini, non tanto per un paese quanto, piuttosto, per una patria, per un terra cui Pacheco non ha mai smesso di rivolgere, incessantemente, la propria attenzione. Modulato ora in prima persona ora in seconda ora, di nuovo, in terza (singolare e plurale), ogni racconto de Il vento distante è mosso come da una forza centripeta che gli conferisce la consistenza di un meccanismo perfetto nel quale, bandita ogni facile metafora (non se ne conta una che sia una), esperienza individuale e collettiva si sovrappongono alla perfezione, senza urto e senza strappi; si tratti, pertanto, di cogliere momenti emblematici, epifanie del passaggio dall’adolescenza all’età adulta («Pomeriggio d’agosto», «La prigioniera», «La regina» o «Non capiresti») oppure di ripercorrere a ritroso i chiaroscuri di un’intera nazione e i fantasmi del folclore locale («Vergine delle estati»), la mano e lo sguardo di José Emilio Pacheco si muovono rapidi e sicuri, con sorprendente precisione: nulla, nemmeno il particolare meno importante o la vicenda più disancorata («Civiltà e barbarie», «Qualcosa nell’oscurità»), devia dalla severa economia del narrare: un esercizio di disciplina che pone Pacheco di fronte alla realtà in modo empatico, partecipativo, fin quasi mimetico, senza retorica o crudeltà, ma con un senso etico critico e coerente. Si vedano, per tutti, sullo sfondo della rivoluzione messicana, la parabola distruttiva di Florencio Ortega («La luna decapitata»), che da eroe celebrato finisce la propria vita in un paesaggio di tenebre e rovine «dove non esiste il tempo». O la  storia di H che chiude il volume («Gerico»). Ispirato a un celebre mito biblico, il racconto possiede la secchezza e l’enigmaticità di una parabola di Kafka: come un ridicolo dio onnipotente, il protagonista, di cui non conosciamo che l’iniziale, H (come Homo), incontra sul suo sentiero una colonia di formiche intente a trasportare i resti di un ragno all’interno del formicaio che stanno erigendo per proteggersi; affascinato dall’operosità degli insetti, H si china e, cominciando a stritolarli tra le dita prima di bruciarli con la brace della sua sigaretta, li stermina tutti: «quando non resta una sola formica viva sul terreno H scava in cerca di gallerie segrete, sale, officine, magazzini, prigioni. Inutile frugare la terra sfigurata: i tunnel si sono dissolti, H non profanerà mai i loro misteri». Non lo farà lui come non potranno gli uomini quando H, poco dopo, s’affaccerà da una montagna sulle mura di un’anonima capitale contemplando «il terrore, il caos, le fiamme che distruggono la città, gli edifici crollati, l’aria letale che divora tutto mentre il fungo di fumo e macerie si alza verso il sole fisso nello spazio».