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La letteratura argentina e una burla di César Aira

redazione César Aira, SUR

Almeno a partire dalla metà degli anni Ottanta, nel bene e nel male, l’influenza di César Aira sulla letteratura argentina (e non solo) si è imposta con sempre maggiore evidenza. Parecchi scrittori più giovani hanno dichiarato un debito nei suoi confronti e gli hanno reso espliciti omaggi nelle loro opere; penso a Sergio Bizzio, Guillermo Piro, Damián Tabarovsky, Daniel Link… Si può dire in un certo senso che le sue (a volte provocatorie) prese di posizione teoriche hanno creato un netto spartiacque anche fra i critici: o lo si adora, sposandole in pieno, o lo si odia cordialmente.

Qui si può leggere un suo pregnante intervento critico.

Oggi pubblichiamo la prima parte di un testo dello scrittore argentino Guillermo Martínez che lo contesta, citandone ampie parti.

«Mitologia e cliché nei dibattiti letterari» fu presentato in occasione della Giornata di Studi “Contemporary Argentina: Reading the Last Decade”, Università di Edimburgo, Scozia, 26 marzo 2010. Pubblicato per la prima volta in lingua spagnola sul sito El puercospín, è reperibile anche sul sito dell’autore.

di Guillermo Martínez
traduzione di Amaranta Sbardella

Invece di stilare un elenco di scrittori e di tracciare improbabili mappe di generazioni o analogie nella recente letteratura argentina, preferisco esporre in questa sede alcuni concetti di cui la critica s’avvale da non meno di trent’anni per esaltare o per umiliare scrittori e movimenti letterari. Nei dibattiti molti di questi concetti sono divenuti veri e propri cliché: ripetuti in modo meccanico, si diffondono su inserti e riviste culturali come se fossero dogmi. Non sono mai messi in discussione, e nemmeno analizzati da vicino, ma piuttosto accolti e condivisi da tutti in modo sospetto come espressioni di un nuova comune sensibilità, o come segno distintivo e di appartenenza a un determinato schieramento estetico.

Qui, in verità, mi limiterò ad affrontarne solamente uno, a mio parere di cruciale importanza, e per certi versi uno spartiacque, poiché chi vi crede assume come veri altri concetti che gli sono strettamente connessi e che finiscono per plasmare una particolare attitudine verso la letteratura. Si tratta del concetto di rendimento decrescente, o del presunto logorio del romanzo di trama e personaggi. Pensiero, questo, espresso in più modi nel corso di svariati funerali fatti al romanzo, ma esposto (con tutte le sue implicazioni) da César Aira nell’articolo «La nuova scrittura». Non credo ci sia bisogno di sottolineare che la disamina del suo articolo non implica nessun giudizio di merito sull’Aira scrittore. Ciononostante, mi preme far notare come la sua linea argomentativa si sia ormai imposta nella critica argentina, essendo divenuta non solo un sostegno teorico al genere di romanzi che Aira scrive, ma anche uno scudo automatico dietro cui si riparano le legioni dei suoi seguaci. («Sono diventato un autore prediletto dalle università. Mi sono chiesto molte volte: perché si scrivono così tante tesi su di me quando non se ne scrivono altrettante su scrittori di gran lunga migliori di me? So qual è il motivo. Gli servo su un piatto d’argento quello di cui hanno bisogno.») Cito i primi paragrafi del suo articolo:

Per come la vedo io, le avanguardie sono apparse quando il processo di professionalizzazione degli artisti fu completo e si rese necessario un nuovo inizio. […] Infatti, limitandoci a esaminare l’arte del romanzo, una volta che già esiste il romanzo «professionale», in una perfezione che non si può superare nell’ambito delle sue stesse premesse, come nei romanzi di Balzac, Dickens, Tolstoj, Manzoni, la situazione rischia di congelarsi. Qualcuno dirà che se tutto il pericolo sta nel fatto che i romanzieri continuino a scrivere come Balzac, siamo disposti a correrlo, e con piacere, però è ottimistico parlare di un semplice «pericolo». Perché di fatto la situazione si congelò e migliaia di romanzieri hanno continuato a scrivere sul modello di Balzac durante il XX secolo: si tratta di quel torrente inesauribile di romanzi passatisti, di intrattenimento o ideologici, la cosiddetta «commercial fiction».

Una prima considerazione: non è curioso, e fino a un certo punto contraddittorio, che si nominino con ammirazione Balzac, Dickens, Tolstoj e subito dopo con disprezzo si additi come «commercial fiction» tutto ciò che, nel secolo scorso, si è provato a comporre su quella falsariga? Ai loro tempi non scrivevano forse «commercial fiction» anche Balzac e Dickens? Dietro quest’ingannevole etichetta non si nasconde un passaggio di consegne troppo rapido per cestinare un intero percorso letterario? Anche il romanzo di idee è un esempio di «commercial fiction»? Torneremo su questo punto in un secondo momento, andiamo ora al nucleo della teoria di Aira.

Per fare anche solo un passo in avanti, come fece Proust, è necessario uno sforzo fuori dal comune e il sacrificio di un’intera vita. Si invera la legge del rendimento decrescente, per cui l’innovatore copre quasi tutto il campo con il gesto iniziale, e lascia ai suoi successori uno spazio sempre più ridotto, nel quale è sempre più difficile avanzare.

Una volta delineate le caratteristiche del romanziere professionista, le alternative sono due, entrambe malinconiche: continuare a scrivere sul modello dei vecchi romanzi, in contesti attualizzati; o tentare eroicamente di fare qualche passo avanti. Questa ultima possibilità si rivela una strada senza uscita. Nel giro di pochi anni, mentre Balzac scrisse cinquanta romanzi e gli restò tempo per godersi la vita, Flaubert ne scrisse cinque, dissanguandosi, Joyce due, Proust una sola. E fu un lavoro che gli prese tutta la vita, la assorbì, come un iperprofessionalismo disumano.

Mi sembra ben evidente come Aira abbia forzato la selezione degli scrittori per meglio rendere l’effetto di una serie decrescente e per rafforzare la tesi dell’indebolimento progressivo, ormai in fase terminale. Ma, per fare un esempio, basterebbe sostituire il nome di Proust, in coda alla serie, con quello di Henry James (morto negli stessi anni), perché il fenomeno appaia sotto una luce diversa. Infatti Henry James, che si considerava un continuatore di Balzac, e che senz’ombra di dubbio è stato un innovatore nella forma e nelle tecniche narrative, fu addirittura più prolifico dello stesso Balzac. (Quando fu chiesto a James di riunire tutte le sue opere in un’edizione a New York, volle che consistesse di ventiquattro tomi, come quella di Balzac. Malvolentieri accettò che uscisse in venticinque e lasciò fuori molti racconti.) Non solo, gli avanzò pure un bel po’ di tempo per partecipare a svariate riunioni mondane. Quanto a Proust, non sfugge a molti il dettaglio secondo cui lo scrittore, lungi dal «sacrificare una vita intera», trascorse in realtà tutta la sua esistenza in uno stato meditativo, come un eterno dilettante, senza acquisire, di conseguenza, un minimo di disciplina artistica (cosa di cui si lamentava: «Io, che nella vita mi ero abbandonato alla pigrizia e allo sperpero, alla malattia, alle cure e alle manie, incominciai il mio lavoro perché credevo che fosse vicina la fine, ignorando completamente il mestiere»). E non a caso il suo romanzo s’intitola Alla ricerca del tempo perduto. Lo scrisse interamente negli ultimi dieci o dodici anni di vita; risulta molto difficile associare Proust a qualsiasi forma di «iperprofessionalismo disumano»: è, anzi, quasi l’esempio opposto di ogni «professionalità».

Ancora più strano è il fatto che Aira si soffermi su questo punto, come se, durante il resto del secolo, in ambito narrativo non fosse più successo nulla; come se con Proust il romanzo avesse raggiunto uno stato di congelamento, e tutto ciò che si è prodotto al di fuori delle avanguardie potesse essere gettato nell’indegno pentolone del romanzo balzachiano. Al contrario, sul piano delle idee – inspiegabilmente i formalisti lo trascurano sempre, e Aira addirittura prova ad affogarlo nel torrente della «commercial fiction» – si sono verificate innovazioni ben note: basta pensare a  D.H. Lawrence e a Céline, a Nabokov e a Henry Miller, a Kafka, Camus, Ballard e Philip Dick. Questi autori, senza sentire il bisogno di prendere le distanze da una forma così screditata poiché «convenzionale» – parlo del romanzo con trama e con personaggi – hanno esteso il campo d’azione della letteratura e hanno creato nuovi punti di vista e mondi più straordinari e inauditi rispetto a chi, alla fine, ha optato per epurare la lettera e o togliere il punto e a capo. Dove, nella distribuzione binaria di Aira, si situerebbe questo genere di innovazione? E se pure considerassimo solamente la forma, dove figurerebbero Lawrence Durrell, José Lezama Lima, Alejo Carpentier, o Wiltold Gombrowicz, Italo Calvino o Julio Cortázar?

Non appena si citano questi nomi, o si getta uno sguardo al proseguimento della Storia, appare evidente che nella letteratura si sono succeduti, continuando a fare molti passi avanti, parecchi scrittori, che non necessariamente erano eroici o iperprofessionali. Se prestiamo attenzione a tutte le innovazioni (e non solo a quelle puramente formali), ci rendiamo subito conto che la tesi della strada senz’uscita e della provvidenziale comparsa delle avanguardie per dare nuovo stimolo all’impulso creativo, viene a cadere da sola.

Allo stesso modo è piuttosto discutibile la cosiddetta legge del rendimento decrescente, secondo la quale l’innovatore «copre quasi tutto il campo con il gesto iniziale, e lascia ai suoi successori uno spazio sempre più ridotto, nel quale è sempre più difficile avanzare.»

Tale fenomeno dipende dal tipo di innovazione che s’introduce. Ce ne sono alcune che, per la loro banalità, si esauriscono nella semplice enunciazione o la prima volta che vengono sperimentate (mi riferisco allo scrivere un intero romanzo come un cadavere squisito o all’«innovazione» di sostituire il romanzo epistolare con il romanzo di e-mail). Altre, come afferma Aira, sono quasi la cifra dell’autore che le introduce e, sino a un certo punto, risultano inaccessibili per i successori (ad esempio, la peculiare aggettivazione “dislocata” di Borges). Ma esistono anche novità le quali, invece di ridurre il raggio d’azione, aprono strade e perdurano nel tempo sino a incorporarsi con tale naturalezza nella pratica della scrittura da non essere più nemmeno percepite.

L’innovazione (formale) del discorso indiretto libero, introdotta nel romanzo moderno da Henry James e Jane Austen, è oggi uno strumento in più per tutti gli scrittori, non essendo ormai considerata un artificio già da molto tempo. Accade lo stesso sul piano ideologico: la rivoluzionaria rappresentazione della coscienza, della cattiveria e della disonestà in autori quali Camus, Céline e Nabokov, o il «disinibito» e schietto approccio al sesso in D.H. Lawrence e Henry Miller, hanno aperto la strada alla rappresentazione di una sensibilità «contemporanea» che non solo è rimasta, ma è divenuta impercettibilmente norma.

Distinguere fra i diversi tipi di innovazione, però, schiuderebbe un campo di dibattito dal quale i formalisti preferiscono tenersi alla larga: come differenziare, infatti, gli apporti banali da quelli interessanti, i superficiale dai profondi, gli ingegnosi dai geniali? (César Aira, ad esempio, preferisce credere che «tutto ciò che è nuovo va bene»; la critica argentina, poi, nutre una particolare e costante ammirazione nei confronti dell’aggettivo «sperimentale»: non ci sono esperimenti convenzionali, o assurdi, o fritti e rifritti da cent’anni. Diversamente dal cauto avvertimento del celebre illusionista argentino Tu Sam, nella nostra letteratura nessun esperimento può fallire.)

Comunque, anche se la tesi del rendimento decrescente non sta in piedi, c’è qualcosa di vero nell’idea secondo la quale, a partire da un certo periodo storico, il romanzo, l’arte del romanzo, si sono scontrati con una difficoltà aggiuntiva. Una volta che ha acquisito coscienza della propria forma, di se stesso come arte, retorica e summa di strategie, si fa avanti anche l’esigenza di creatività relativa a questi aspetti formali, sino a un certo punto scindibili concettualmente. Henry James, nell’Arte del romanzo, rifletteva sull’epoca in cui gli scrittori americani sfornavano opere come dolci, in modo «naturale», naif, quasi non fosse possibile fare altrimenti: «Durante il periodo al quale ho alluso era diffusa la consolante e piacevole sensazione che un romanzo è un romanzo come un pudding è un pudding e che il nostro unico compito è quello di trangugiarlo». Il romanzo moderno, per ovvi motivi, si preoccupa anche della propria retorica. Ciononostante, c’è una grande differenza tra il riconoscere quest’ulteriore difficoltà e abbandonare la partita. Continuando con un parallelismo sportivo: sebbene sia sempre più difficile restituire la battuta, i professionisti del tennis preferiscono migliorare la battuta prima di darsi al paddle. In un articolo del 1994, Literatura y racionalidad, mi sono espresso da un’altra prospettiva a proposito di questa seconda esigenza di creatività:

[…] la letteratura è anche una forma della conoscenza, e ciò obbliga a tenere in considerazione una lunga storia di continue invenzioni, variazioni, ed esaurimento di risorse ed effetti, di teorie, retoriche e generi. Ma perché ritenere che questa storia sia giunta alla fine? È fondamentale distinguere, in una moltitudine di opere, ciò che «è stato detto» da ciò che rimane da dire, affinché il tutto possa essere poi riformulato in un manifesto: scrivere contro ciò che è stato scritto.

Con il trascorrere degli anni, «scrivere contro ciò che è stato scritto» risulta ovviamente sempre più difficile, non solo per una ragione contingente, l’aumentare dei registri sperimentati, l’ampliarsi della gamma di risultati raggiunti, ma anche perché contemporaneamente si esaspera il grado di coscienza autoreferenziale della letteratura e, di conseguenza, si logorano in maniera rapida le strategie formali e le connesse retoriche. In questo modo, ogni nuova opera della nostra epoca deve affrontare, sul piano formale, una seconda esigenza di originalità, quella di fondare la propria retorica.

Una tale crescente difficoltà di scrivere offre, come un’ammaliante via di fuga, l’abbandono all’idea che «è stato detto tutto».

A mio parere, da questa problematica si origina una biforcazione essenziale, che ha causato le due possibili attitudini di fronte al problema. Leggiamo ora nell’articolo di Aira le conseguenze dell’abbandono, della rinuncia:

La professionalità implica una specializzazione. Per questo le avanguardie tornano in continuazione, con differenti modalità, alla famosa frase di Lautréamont: «La poesia deve essere fatta da tutti, non da uno». Mi pare che sia semplicistico interpretare questa frase in senso puramente democratico o utopicamente buonistico. Semmai è il contrario: quando la poesia diventa qualcosa che possono fare tutti, allora il poeta potrà essere un uomo come tutti, finalmente libero da tutta quella miseria psicologica che abbiamo chiamato talento, stile, missione, lavoro, in una parola, tortura.

Allora non vale forse più la pena provare a scrivere grandi opere, giacché resta solamente il ritorno «liberatorio» alla letteratura amatoriale, o la ripetizione, cent’anni dopo, dei procedimenti delle vecchie avanguardie o, ancor peggio, il riduttivo orientamento verso una letteratura di circostanza. Il fatto più curioso è che poi la diserzione si trasformi, capovolgendosi, in atto di superiorità intellettuale: la fuga da ciò che appare «troppo difficile» diviene, con un trucco di magia leibniziano, il migliore dei mondi possibili, da cui poter giudicare come «conservatori» tutti i tentativi di procedere in avanti. D’ora in poi il talento, lo stile, la missione, la fatica non sarebbero altro che «miserie psicologiche» da lasciarsi alle spalle senza sensi di colpa. Proseliti di Aira hanno preso troppo sul serio queste riflessioni, adottando gli slogan «prima pubblicare, poi scrivere», «se esiste Aira, allora è tutto possibile», e la formula secondo la quale scrivere «male» va bene e scrivere «bene» no.

Perpetuatosi questo abbandono, cosa ci rimarrebbe? Secondo Aira, il procedimento.

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