Un elogio dell'assenza

Raul Schenardi SUR

«Mi dispiace dire che sono stati scritti cinquanta o sessanta libri su di me.
Non ne ho letto nemmeno uno, dal momento che conosco troppo bene l’argomento,
e ne sono stanco e nauseato». Così Jorge Luis Borges in «Conversazioni americane».
La citazione figura in epigrafe a «Una fenomenologia dell’assenza. Studio su Borges»,
di Livio Santoro, pubblicato nel 2011 da Edizioni Arcoiris nella collana di saggistica
La battaglia dei libri, diretta da Roberto Colonna e Loris Tassi.
Per gentile concessione di quest’ultimo e dell’editore, pubblichiamo il prologo al libro
di Blas Matamoro, scrittore e giornalista argentino (tr. di Loris Tassi).
Qui segnaliamo due recensioni al volume: Sfida al labirinto, di Giovanni de Leva, e quella di Roberto Evangelista.

di Blas Matamoro
traduzione di Loris Tassi

Su Borges sono stati scritti molti libri, oltre a uno sterminato numero di tesi e articoli. Ma mancava uno studio – o perlomeno questo è il mio parere dopo aver letto per anni testi critici su Borges – che “ripescasse” lo scrittore argentino dalle acque – turbolente, a volte perfino fangose – del pensiero filosofico del Ventesimo secolo. Una lettura insolita e necessaria. Insolita perché, al di fuori della filosofia e della teoria della scienza, è stata prestata poca attenzione al rapporto di Borges con tali discipline. D’altra parte, pensare è ripensare ciò che l’uomo, forse inutilmente ma sempre con passione, continua a pensare da quando ne ha memoria.

Santoro organizza con acume ed eleganza i temi del suo studio. In genere, si avvicina a una serie di cavità o vuoti o assenze che disegnano nella caotica e ineludibile materia del reale delle entità che furono e non sono più. O che sono senza essere. La più ovvia, borgesianamente, è la stessa realtà, quel frammento del reale che il linguaggio conquista nel corso di secoli di storia, che dimentica e ripete, senza mai portare a termine il suo compito. Abbiamo versioni della realtà, prospettive, un’indubbia o sensata pluralità di mondi, e tutto è ingabbiato nella categoria più visibilmente borgesiana: il labirinto. Santoro ce ne mostra la tipologia meno conosciuta: uno spazio che è al tempo stesso chiuso e infinito, un concetto barocco simile alla monade di Leibniz, una sfera ermetica che racchiude un abisso, ovvero uno spazio senza fondo. E che può assumere forme diverse: un edificio maestoso, il letto dell’oceano, un deserto privo di orizzonte.

Da questa realtà che non possiamo evitare e neppure definire con certezza nelle sue caratteristiche, potrebbero salvarci il ricorso alla mistica – l’altro mondo dove tutto è radicalmente reale, veramente reale, concretamente ed eternamente reale – o le consolazioni dell’idealismo – il cielo degli archetipi perfetti e incorruttibili – o l’esaltazione nichilista del vuoto. Non c’è nulla di tutto ciò in Borges, pensatore laico, secolare, profano, per il quale l’iperrealtà è tanto incerta quanto il sogno, che è sognato come è sognato colui che lo sogna, e così fino all’infinito delle sue Rovine circolari.

Però è vero, d’altra parte, che in Borges c’è angoscia, un’ango-scia esistenziale proveniente, senza dubbio, dalla sua frequentazione kafkiana e non dalla filosofia dell’esistenza, e che appartiene, lo ripeto, al Ventesimo secolo. Aggiungo che, in questo senso, l’an-gosciosa ossessione borgesiana rivela la sua natura morale. A volte lo scrittore ironizza sul cumulo di fantasie e finzioni con cui l’uo-mo cerca di riempire la vacuità dell’altro mondo, ma si aggrappa sempre al principio che la realtà umana appartiene esclusivamente all’uomo. E all’uomo borgesiano è indispensabile pensare che in qualche luogo virtuale, immaginario, utopico o semplicemente segreto – segreto, forse, è per eccellenza l’aggettivo di Borges – si trova la Verità vera e verace, anche se proprio l’impossibilità di accedervi rende la nostra vita quel che è. Santoro lo spiega casuistica-mente: in Borges la verità non è un problema. La sua realtà è un’as-senza, se esiste è ineffabile. Parlarne, pertanto, è un’autentica impertinenza.

Per tutto il resto, invece, possiamo fare affidamento su uno strumento povero ma, al tempo stesso, prezioso: la parola. Non ci basta per nominare con esattezza l’universo e per questo sono va-ni e pittoreschi gli sforzi di Daneri e Funes (dietro i quali si na-sconde Borges) di redigere l’inventario completo delle cose. In ef-fetti, ci sono meno parole che cose, è sempre stato così e lo sarà sempre, cosicché il linguaggio non è ma diviene e cerca di essere.

La parola è arbitraria, può essere sostituita e tradotta, rende sempre incompleta la comunicazione, dà vita a biblioteche impos-sibili come quella di Babele e narrazioni impossibili come il roman-zo che prolifera alla maniera di un giardino cinese in cui i sentieri si biforcano invece di condurci da qualche parte. Il suo luogo dialettico, instabile e vivace, è un posto fragile come una riga su un foglio di carta (Borges non fece in tempo a conoscere i computer, al-trimenti avrebbe scritto della parola che balugina sullo schermo) in cui il Tempo dell’eternità, l’archetipo e il mito si incontrano con la Durata del soggetto, la storia e la caducità. O, per dirla con il secolo passato, con la morte.

Lascio alla fine ciò che Santoro discute con estremo rigore filosofico all’inizio della sua deriva: il soggetto come assenza. Non si può certo affermare che nell’umanità manchino le soggettività, non ultima quella del dolente ed enigmatico scrittore argentino chiamato Jorge Luis Borges; ma non c’è più un soggetto garantito dall’e-ternità dell’anima, dalla missione salvifica della religione o della sto-ria, dalle leggi ineluttabili e perenni della natura. Il soggetto che dice – e nella cui esistenza Borges ripone, probabilmente, la sua unica fede – trova in sé il suo fondamento senza perdere per questo il senso di vertigine che scaturisce dal sapersi senza fondamento, sospeso in un infinito dominato dal caso o retto da leggi segrete.

Non si tratta, e Santoro lo dice in modo impeccabile, di una soggettività residuale, abbandonata, indefinita. Non c’è solipsismo in Borges, giacché l’uso del linguaggio lo lega agli altri – perfettamente o meno, non importa. Lo dimostra il ruolo di primo piano che è riservato al lettore nella sua opera. Il lettore riscrive ogni scrittura, proprio come Pierre Menard. Sa che l’universo può essere conosciuto solo attraverso un’identificazione panteista con esso, ovvero in un’estasi in cui il Tutto che è Dio è, al tempo stesso, Uo-mo, un mostruoso Uomo-Dio. Però tale estasi è incompatibile con il linguaggio e l’inventario brillante, affascinante, gratificante che scaturisce dal tentativo di enumerare quanto si vede nell’Aleph lo mostra con chiarezza. Ancora: può, il povero e onnisciente Funes, dire con parole ciò che non riesce a dimenticare, dirlo senza pensare, senza astenersi dal ricordo per poter riflettere?

D’altra parte, di fronte a un mondo la cui realtà è incerta, un mondo forse onirico, si trova un soggetto senza fondamento. La struttura di questo rapporto fa pensare alla psicosi. A questo proposito Santoro evoca le considerazioni di Binswanger e osserva che esiste una struttura psicotica che, quando il mondo comincia a sbiadire, non annulla il soggetto, ma si comporta in modo creativo giacché crea un immaginario terzo mondo, la scrittura, in cui il vincolo tra soggetto e mondo si ristabilisce. Psicosi creativa, oppure, da un altro punto di vista, potere benefico della parola, già noto al-le culture antiche.

Oserei dire che al centro di questo libro c’è un problema etico: può costituirsi eticamente un soggetto privo di fondamento? C’è in Borges, perlomeno nel Borges indagato minuziosamente da Santoro, un imperativo paradossale e kantiano che stabilisce l’assenza di imperativi singolari, presi nella loro generale totalità e validità. Mancano la ragione legislatrice universale e il codice morale concreto tipici di una metafisica dei costumi. Però ci sono scetticismo e rigorismo etico, come in Kant, probabilmente il Kant moribondo che Borges conobbe attraverso il libro di De Quincey. Se si preferisce: una presa di posizione dichiaratamente e originariamente negativa.

Di conseguenza – chi lo avrebbe mai detto – è una scommessa filosofica quella che Santoro trova in Borges, una riflessione esistenziale tipica del Ventesimo secolo. L’etica come ricerca e la ricerca come bene morale. Può giungere a noi da luoghi inattesi. Un cuchillero che ne sfida un altro crede nell’ordalia della morte; Emma Zunz confida nella legittimità della sua vendetta; i gauchos taciturni, che formano parte del passato epico degli argentini, giocano il proprio destino a carte, a una payada ingegnosa o a un tragico duello con i coltelli. E non aggiungo nulla su Giuda Iscariota, sui monaci penitenti, sui flagellanti a cui fanno riferimento tante scene borgesiane. Non a caso Ágnes Heller ritiene che l’etica kantiana, così radicale e rigorosa, sia una morale degna di un monastero.

Santoro ha esplorato l’opera di uno scrittore del Ventesimo secolo chiamato Jorge Luis Borges. Lo ha fatto partendo dall’assenza del soggetto classico – il Soggetto Trascendentale – e dimostrando che, da un punto di vista esistenziale, a partire da questa assenza uno scrittore può costruire la propria soggettività. Un collega di Borges, John Le Carré, che difficilmente avremmo accostato allo scrittore argentino, dichiarò una volta in un’intervista (El País, Madrid, 27/11/2010): «Non vorrei sembrare presuntuoso ma uno scrittore possiede un solo enigma: la propria vita». Borges avrebbe potuto sottoscriverlo? Credo che Santoro risponderebbe di sì.

 

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