Mi ricordo | Carmen Boullosa

Carmen Boullosa Racconti, Scrittura, SUR

Sul modello di Joe Brainard, poi seguito da Perec e molti altri, il secondo contributo tratto dalla rivista Traviesa, che ringraziamo: i ricordi dell’autrice messicana Carmen Boullosa.

di Carmen Boullosa
traduzione di Alice Lucchiaro

Mi ricordo di quando ancora non conoscevo le parole. La temperatura era ciò che definiva le cose. Tiepida era la mia temperatura preferita.

Mi ricordo di quando iniziai a capire le parole. Le cose tiepide smisero di interessarmi. La mia prima parola fu «Mami»: mia nonna, il mio primo amore, il mio primo desiderio.

Mi ricordo del mio primo piacere genitale. Mia nonna mi lavava sotto il getto tiepido del rubinetto nel lavandino del bagno accanto alla sua camera. Il tepore perfetto dell’acqua venne sostituito da qualcosa di elettrico, in cui il tempo si dissolveva, qualcosa che non faceva parte di me sebbene avesse origine proprio nel punto più nascosto del mio corpo. Fu un piacere perfetto che non conteneva ansia. Sostenuta dalle enormi braccia e mani di mia nonna, vidi illuminarsi tutto intorno a me.
Non lo raccontai a nessuno perché non sapevo come esprimerlo né come spiegarmelo. Se l’avessi detto, non me l’avrebbero perdonato.
Mi ricordo che mia nonna non me l’avrebbe perdonato.

Mi ricordo che provai quel primo piacere fuori dalla camera della mia benefattrice, in uno spazio condiviso da altri. Era il mio segreto, la parte nascosta del mio corpo si era rivelata in un luogo che era di tutti e non ero sicura di essere stata l’unica ad averla «sentita».
Mi ricordo che desideravo con tutta me stessa che la nonna fosse solo mia.
Mi ricordo che qualunque spazio al di fuori del letto della nonna conteneva ansia.

Mi ricordo di un raggio di luce nel giardino, che cadeva preciso, solido. Mi ricordo che non riuscii a spiegarmelo sotto l’intreccio di rami fitti dell’albero e che mi fece paura. Mi ricordo di aver creduto che fosse qualcosa che oggi definirei soprannaturale e che non lo dissi a nessuno. Mi ricordo che ho continuato a credere che quella visione fosse divina, o forse demoniaca. Mi ricordo che il pomeriggio in cui cadde quella luce solida in giardino io scoprii la solitudine, nessuno condivideva la visione, nessuno ne sapeva nulla, né sapeva che io la vedevo.

Mi ricordo deMi ricordo di un attacco di sete a metà strada, in un tranquillo Michoacán. Era una sete insopportabile, rovente. Mi ricordo che dissi «Ho sete» e che la mia frase non produsse alcun effetto. Mi ricordo il desiderio della sete, secondario alle parole.
Mi ricordo che mia nonna non c’era su quella macchina.
Mi ricordo che chiacchieravano come se io non mi stessi logorando tra le fiamme della sete, che questa perseverò, che il mio desiderio fu maggiore e silenzioso. Mi ricordo che non piansi: lasciai che la sete mi divorasse dall’interno, devastandomi, senza l’aiuto delle lacrime; se era sete, non poteva convivere con le gocce d’acqua.

Mi ricordo di un tavolo da biliardo in una casa di campagna, in mezzo al nulla. Dicevano che era fragile. Imponente e artificioso, mi ricordo che lo circondavano di regole e proibizioni, che tutti lo volevano, che per me era un catafalco inutile.
Mi ricordo della mia indifferenza di fronte all’ammirazione collettiva e il disprezzo che mi suscitava.
Mi ricordo che, proprio in quella casa, avevo l’ossessione di trovare il corpo della cicala che cantava non appena scendeva la sera, che cercai inutilmente tra i rami e le foglie la sua bocca o le sue zampe, senza sapere se la cosa che cantava era grande o piccola, senza riuscire a immaginarne la forma, e che non lo raccontai a nessuno, per non conoscere il loro disprezzo.

Mi ricordo della dentiera di mia nonna che riposava di notte in un bicchiere di vetro, delle sue gengive nude, che non mi facevano schifo o impressione; mi ricordo della storia di quel dentista che arrivava alla piantagione di cacao a cavare denti come unico rimedio contro il dolore.
Mi ricordo delle visite dal nostro delicato dentista, il cortile interno di casa sua nel quartiere Roma.
Mi ricordo di non aver provato nessun dolore lì e dell’invidia per la gengiva vuota. Di aver desiderato il bicchiere e la dentiera altrui.

Mi ricordo dell’interno della Mustang del mio primo ragazzo. Mi ricordo delle sue prime coccole, dei suoi baci e carezze. Mi ricordo della nostra rispettiva insoddisfazione. Volevamo sempre di più. Io lo amavo desiderosa, lui era desideroso, senza conoscere l’amore, o forse amava un’altra. Mi ricordo che credette per un attimo di amarmi.
Mi ricordo che non mi perdonò di avergli confessato che ero innamorata di lui. Mi ricordo che le parole me lo portarono via.
Mi ricordo che smisi anche di amarlo, ma il desiderio che imparai a provare nella sua auto non si placò.

Mi ricordo della cagna che viveva nella casa di quando ero piccola, del suo pelo riccio che doveva essere spazzolato. Mi ricordo della dolcezza di quell’animale. Mi ricordo che capiva le parole. Mi ricordo che io provavo compassione per lei. Mi ricordo che lei per me non provava niente in particolare e per tutti un affetto incondizionato e identico, ma moderato.

Mi ricordo di quando scrivevo in compagnia di una tazza di caffè. Mi ricordo di quando iniziai a scrivere con un bicchiere di vino, prima bianco, poi rosso, poi due bicchieri, o tre, o quattro. Mi ricordo che quelli che risveglia il caffè sono schiavi, quelli che risveglia il bianco ballerini, quelli del rosso demoni. Mi ricordo degli schiavi con malinconia, dei ballerini con disprezzo, dei demoni con terrore.

Mi ricordo della prima volta che lessi Proust, da adolescente, e che non capii nulla. Mi ricordo della prima volta che lo lessi a 23 anni, di come nacque la mia venerazione per lui e di come non conoscevo me stessa. Venero e non conosco ancora allo stesso modo.

Mi ricordo della prima volta che lessi poesie in pubblico e di aver creduto che era un lavoro da pagliacci, non da poeti. Mi ricordo che poi la lettura ad alta voce cominciò a piacermi e che decisi di ascoltare i poeti leggere, preferibilmente senza spettacolo.
Mi ricordo che la prima recensione di un mio libro (di Huberto Batis), parlava di sbucciare una cipolla – il senso contenuto nel tutto, l’impossibilità di tradurlo –, e mi ricordo della recensione mentre sminuzzo una cipolla in cucina e piango mentre la trituro. Mi ricordo di nuovo della recensione davanti alla pietanza, e nuovamente piango, adesso dalla contentezza e dal ridere.

Mi ricordo che fin da piccola mi perdo sui singoli episodi, che rielaboro perdendomi nella mia immaginazione e che quello che ricordo non è quello di cui mi ricordo.

Mi ricordo di una scacchiera e di mio papà che mi guardava con sarcasmo perché sapeva che stavo sbagliando mossa e nel mentre diceva, compiacendosi per il mio errore: «Pedina toccata, pedina giocata».
Mi ricordo di me come una pedina toccata, giocata. Io sono la pedina toccata, giocata e non mi vedo con sarcasmo.

Mi ricordo di essere salita su un camion di bibite con la mia amica Hanna, entrambe adolescenti, per arrivare oltre Tenancingo e continuare il viaggio in autostop, e di quanto ridevamo.
Mi ricordo il giorno in cui mi chiamarono, anni dopo, per dirmi che avevano ucciso Hanna in Salvador, e che anche se io ero felice nella mia terra natia sapevo che ricevere quella notizia uccideva una parte di me. La sua sepoltura era anche la mia.

Mi ricordo che decine di anni dopo aver visto (o immaginato) quel miracoloso raggio solido scrissi un romanzo per raccontarlo.
Mi ricordo che dopo aver scritto il romanzo (Prima), il raggio (inaspettato) di luce (solida) evaporò. Mi ricordo che mi era già successo con alcune poesie di un libro, Ingobernable.

Mi ricordo della rabbia che eruttavo nel vedere evaporare i miei «mi-ricordo» non appena acquisivano la loro indipendente forma letteraria. Mi ricordo di aver pensato che rievocare i ricordi e usarli come la scintilla del fuoco di una storia, significava fare terra bruciata della mia memoria. Mi ricordo che grazie alla scrittura capii che ero come l’ancestrale sarchia-abbatti-e-brucia[1] di me stessa. Mi ricordo che avevo ragione.

[1]     Traduzione letterale dell’espressione roza, tumba y quema che si riferisce a un tipo di agricoltura risalente all’epoca delle civiltà precolombiane, praticata ora dalle popolazioni che vivono ai bordi della foresta pluviale. La shifting cultivation consiste nell’abbattere piccole parcelle di foresta e nell’incendiare le ramaglie, la cui cenere ha un alto potere fertilizzante.

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