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Il bacio della donna ragno, un assaggio

Pubblichiamo oggi un assaggio del Bacio della donna ragno [1], capolavoro dello scrittore argentino Manuel Puig [2]. Buona lettura!

di Manuel Puig
traduzione di Angelo Morino

«Lei si vede che ha qualcosa di strano, che non è una donna come tutte. Molto giovane, un venticinque anni tutt’al più, con un faccino un po’ da gatta, il naso piccolo, all’insù, il taglio della faccia è… più rotondo che ovale, la fronte spaziosa, le guance pure grandi ma che poi scendono giù a punta, come i gatti».

«E gli occhi?»

«Chiari, quasi di sicuro verdi, li socchiude per disegnare meglio. Guarda il modello, la pantera nera dello zoo, che prima se ne stava pacifica nella gabbia, accucciata. Ma quando la ragazza ha fatto rumore col cavalletto e lo sgabello, la pantera l’ha vista e ha cominciato a girare per la gabbia e a ruggire contro la ragazza, che fino allora non aveva trovato il chiaroscuro giusto da dare al disegno».

«L’animale non poteva fiutarla prima?»

«No, perché nella gabbia c’è un grosso pezzo di carne, può fiutare solo quello. Il guardiano gli mette la carne vicino alle sbarre, e non può entrare nessun odore da fuori, apposta perché la pantera non s’innervosisca. Ed è quando s’accorge della rabbia della bestia che la ragazza comincia a tirar righe sempre più veloci, e disegna un muso che è di animale e anche di diavolo. E la pantera la fissa, è una pantera maschio e non si capisce se è per sbranarla e poi divorarsela, o se la fissa spinta da un altro istinto ancora più brutto».

«Non c’è gente nello zoo quel giorno?»

«No, quasi nessuno. Fa freddo, è inverno. Gli alberi del parco sono spogli. Tira un’aria fredda. La ragazza è quasi l’unica, li seduta sullo sgabello pieghevole che si porta dietro lei, insieme al cavalletto per appoggiare il foglio da disegno. Un po’ più lontano, vicino alla gabbia delle giraffe ci sono dei bambini con la maestra, ma vanno via in fretta, non resistono al freddo».

«E lei non ha freddo?»

«No, non se ne accorge, è come in un altro mondo, disegna la pantera».

«Se è assorta non è in un altro mondo. È una contraddizione».

«Sì, è vero, lei è assorta, sprofondata nel mondo che ha dentro di sé, che sta cominciando a scoprire. Ha le gambe incrociate, le scarpe sono nere, col tacco alto e grosso, senza punta, le si vedono le unghie smaltate di scuro. Le calze sono cangianti, di quel tipo che si chiamava cristallo di seta, non si capisce se è rosa la carne o la calza».

«Scusa ma ricordati quello che ti ho detto, non fare descrizioni erotiche. Sai che non è il caso».

«Come vuoi, allora, continuo. Lei ha le mani inguantate, ma per andare avanti col disegno si toglie il guanto destro. Le unghie sono lunghe, lo smalto quasi nero, e le dita bianche, finché il freddo non comincia a rendergliele blu. Lascia un momento il lavoro, mette la mano sotto il cappotto per scaldarsela. Il cappotto è pesante, di felpa nera, con le spalle grandi grandi, ma una felpa spessa come il pelo di un gatto persiano, no, molto più spessa. E chi c’è dietro di lei? Qualcuno cerca di accendere una sigaretta, il vento spegne la fiamma del cerino».

«Chi è?»

«Aspetta. Lei sente lo strofinio del cerino e sobbalza, si gira. È un tizio niente male, non da lasciarti a bocca aperta, ma ha un’aria simpatica, con un cappello dalla tesa bassa e un pastrano tutto bitorzoluto, pantaloni molto larghi. Si tocca la tesa del cappello come per salutare e si scusa, le dice che il disegno è fantastico. Lei vede che è una persona per bene, glielo si legge in faccia, è un tipo molto comprensivo, tranquillo. Lei s’aggiusta un po’ la pettinatura con la mano, mezza scompigliata dal vento. Ha una frangetta di ricci, e i capelli fino alle spalle come si usava allora, con ricciolini anche sulle punte, quasi come con la permanente».

«Io me l’immagino bruna, non molto alta, rotondetta, e che si muove come una gatta. Roba da leccarsi i baffi».

«Mi sembrava che non volessi infervorarti».

«Continua».

«Lei risponde che non s’è spaventata. Ma intanto, mentre s’aggiusta i capelli molla il foglio e il vento glielo porta via. Il ragazzo si mette a correre e lo acchiappa, lo restituisce alla ragazza e le chiede scusa. Lei gli dice che non fa niente e lui s’accorge dall’accento che è straniera. La ragazza gli racconta che è una profuga, che ha studiato belle arti a Budapest, che allo scoppio della guerra s’è imbarcata per New York. Lui le chiede se non ha nostalgia della sua città. A lei è come se passasse un’ombra sugli occhi, tutta l’espressione della faccia le si incupisce, e dice che non è di una città, che viene dalle montagne, dalle parti della Transilvania».

«Dal paese di Dracula».

«Sì, in quelle montagne ci sono boschi scuri, dove vivono belve che d’inverno impazziscono per la fame e devono scendere nei villaggi, a uccidere. E la gente muore di paura, e gli mettono pecore e altri animali morti davanti alle porte e fanno voti, per salvarsi. E dopo tutto questo il ragazzo le chiede di vederla di nuovo e lei gli dice che il pomeriggio seguente sarà ancora lì a disegnare, come sempre in quegli ultimi giorni quando c’era il sole. Allora lui, che è un architetto, il pomeriggio dopo è nel suo ufficio con i suoi colleghi architetti e una ragazza anche lei sua collega, e quando suonano le tre e non restano più molte ore di luce pianta lì squadre e compassi per andare allo zoo che è quasi di fronte, proprio in Central Park. La collega gli chiede dove va, e perché è così allegro. Lui la tratta come un’amica ma si nota che in fondo lei è innamorata di lui, anche se lo nasconde».

«È racchia?»

«No, una faccia simpatica, capelli castani, niente di straordinario ma carina. Lui esce senza darle la soddisfazione di dirle dove va. Lei ci resta male ma fa in modo che nessuno se ne accorga e si butta sul lavoro per non rattristarsi di più. Nello zoo non ha ancora cominciato a far buio, è stata una giornata con una luce invernale molto strana, tutto sembra risaltare più che mai, le sbarre sono nere, i muri della gabbia di piastrelle bianche, la ghiaia pure bianca, e grigi gli alberi spogli. E gli occhi rosso sangue delle belve. Ma la ragazza, che si chiama Irena, non c’è. Passano i giorni e il ragazzo non riesce a dimenticarla, finché un giorno passeggiando per un viale lussuoso qualcosa non attira la sua attenzione nella vetrina di una galleria d’arte. Sono esposte le opere di qualcuno che non disegna altro che pantere. Il ragazzo entra, e li c’è Irena, con la quale si congratulano altri visitatori. E non ricordo più bene come continua».

«Fa’ uno sforzo».

«Aspetta un momento… Non ricordo se è qui che la saluta una che la spaventa… Be’, allora anche il ragazzo si congratula con lei e nota che Irena è diversa, come felice, non ha quell’ombra nello sguardo, come la prima volta. E la invita a un ristorante e lei pianta lì tutti i critici, e se ne vanno via. Lei sembra che riesca a camminare per strada per la prima volta, come se fosse stata rinchiusa e adesso libera possa andare dove le pare».

«Ma lui la porta in un ristorante hai detto, non dove pare a lei».

«Uffa, non fare il pignolo. Dunque, quando lui si ferma davanti a un ristorante ungherese o rumeno, una roba del genere, lei comincia di nuovo a sentirsi strana. Lui credeva di farle piacere portandola lì in un posto di suoi compatrioti, ma l’effetto è tutto il contrario. E s’accorge che a lei sta capitando qualcosa, e glielo chiede. Lei mente, dice che le risveglia ricordi della guerra, si era ancora nel pieno della guerra, in quel momento. Lui allora le dice che andranno a pranzo da un’altra parte. Ma lei s’accorge che lui, poveretto, non ha molto tempo, ha la sua ora libera per il pranzo e poi deve tornare all’ufficio. Allora si domina ed entra nel ristorante, e va tutto bene, perché il posto è molto tranquillo, e lei è di nuovo affascinata dalla vita».

«E lui?»

«Lui è contento, perché vede che lei ha vinto un complesso per far piacere a lui, che lui l’aveva progettato fin dal principio, di andare lì, per far piacere a lei. Sai com’è quando due si conoscono e le cose cominciano a filare bene. E lui è talmente partito che decide di non tornare in ufficio quel pomeriggio. Le racconta che è passato davanti alla galleria per caso, quello che stava cercando era un altro negozio, per comprare un regalo».

«Per la collega architetta».

«Come lo sai?»

«Così, l’ho azzeccata».

«Tu hai visto il film».

«No, te lo giuro. Continua».

«E la ragazza, Irena, gli dice che allora possono andare in quel negozio. Lui si mette subito a pensare se i soldi gli basteranno per comprare due regali uguali, uno per il compleanno della collega e uno per Irena, così se la conquista una volta per tutte. Per strada Irena gli dice che quel pomeriggio, cosa strana, non le si stringe il cuore al notare che viene la sera, sono appena alle tre. Lui le chiede perché è triste quando si fa sera, se è perché ha paura del buio. Lei ci pensa e risponde di sì. E lui si ferma davanti al negozio dove stanno andando, lei guarda la vetrina con diffidenza, è un negozio di uccelli, bellissimo, nelle gabbie che si vedono da fuori ci sono uccelli di tutti i tipi, che volano allegri da un trapezio all’altro, o si dondolano, o becchettano foglioline di lattuga, o miglio, o bevono a sorsetti l’acqua fresca, cambiata da poco».

«Scusa… c’è acqua nella brocca?»

«Sì, l’ho riempita io quando m’hanno aperto per andare al bagno».

«Ah, va bene allora».

«Ne vuoi un po’? È buona, fresca fresca».

«No, così domani non ci sono problemi per il mate. Continua».

«Non esagerare. Ne abbiamo per tutto il giorno».

«Non devi abituarmi male. Io mi sono dimenticato di prenderne quando ci hanno aperto per la doccia, se non fosse per te che te ne sei ricordato, dopo saremmo rimasti senz’acqua».

«Ce n’è d’avanzo, ti dico… Ma appena entrati nel negozio è come se fosse entrato chissà chi, il diavolo. Gli uccelli impazziscono e volano ciechi di paura contro la rete delle gabbie, e si ammaccano le ali. Il proprietario non sa cosa fare. Gli uccelli strillano di terrore, sono come strilli di avvoltoi, non come canti di uccelli. Lei afferra il ragazzo per la mano e lo trascina fuori. Gli uccelli si calmano subito. Lei gli chiede di lasciarla andare via. Si danno un appuntamento e si separano fino alla sera dopo. Lui torna di nuovo nel negozio, gli uccelli cantano di nuovo pacificamente, compra un uccellino per il compleanno dell’altra. E poi… be’, non mi ricordo molto bene come continua, ho sonno».

«Continua ancora un po’».

«È che col sonno dimentico il film. Cosa ne dici se continuiamo domani?»

«Se non te lo ricordi, è meglio continuare domani».

«Te lo continuo all’ora del caffelatte».

«No, meglio di sera, di giorno non voglio pensare a queste cretinate. Ho cose più importanti a cui pensare».

«…»

«Se io non leggo e resto zitto, è perché sto pensando. Adesso però non fraintendermi».

«No, d’accordo. Non ti distrarrò, sta’ tranquillo.

«Vedo che mi capisci, ti ringrazio. A domani».

«A domani. Sogni d’oro con Irena».

«Mi piace di più la collega architetta».

«Me l’immaginavo. Ciao».

«A domani».

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© Manuel Puig, 1976. Tutti i diritti riservati.