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«Scrivere è cercare di vedere», intervista a Federico Falco

Federico Falco Autori, Interviste, Ritratti, SUR

Pubblichiamo oggi un’intervista a Federico Falco che in Silvi e la notte oscura reinterpreta il genere del racconto con cinque storie in cui il paesaggio ha un ruolo fondamentale. Ne emerge un ecosistema di personaggi solitari illuminati da un’atmosfera rarefatta. L’articolo è uscito originariamente sul blog di Eterna Cadencia, ringraziamo autrice e testata per la concessione.

di Valeria Tentoni
traduzione di Chiara Gualandrini

«Le parole sono una cosa completamente diversa da quello che succede, sono per sempre separate da quello che succede», scriveva Federico Falco nella sua dichiarazione di poetica per il sito Las afinidades electivas. Non se ne ricorda, ma nel corso di questa intervista, dirà qualcosa che si avvicina molto a quel discorso, o lo continua. All’epoca, per esempio, non era ancora uscito 222 patitos (la sua prima raccolta di racconti, ndr), Falco viveva a Córdoba e non era ancora stato selezionato da Granta come uno dei migliori giovani scrittori in lingua spagnola.

Dall’inizio del 2013 abita a Buenos Aires, più precisamente a Colegiales, un quartiere alberato. Verde, come i paesaggi dei suoi libri e come il pullover che il vecchio Wutrich, uno dei personaggi di Silvi e la notte oscura, chiede a Mabel di realizzargli ai ferri. Come i luoghi dove Falco sosteneva gli esami di botanica prima di lasciare gli studi in Agraria e passare a Scienze della Comunicazione, non a Lettere, seguendo il consiglio del caporedattore di un quotidiano dove era andato a chiedere lavoro. Non ottenne il posto ma ebbe in cambio un buon suggerimento. «Non ho mai saputo se fosse un buon consiglio o no», afferma.

Federico Falco è nato a General Cabrera, a pochi chilometri da Río Cuarto e a molti meno da Deheza, il paese dove gli abitanti di Coronel Isabeta portano a seppellire i loro morti nel racconto «Un cimitero perfetto». Quest’ultima località però non esiste sulle mappe, non esiste da nessun’altra parte se non nell’ultimo libro di Falco, dove la realtà e una certa altra cosa convivono in molti altri modi. Qualcosa che è appena fuori posto, quel tanto che basta per trasformarsi in qualcos’altro. È questo attrito a produrre nelle sue storie quell’effetto di stupore che fece dire a Beatriz Sarlo, a proposito di La hora de los monos: «Si potrebbero definire “racconti fantastici” se non fosse che si discostano completamente dalle regole del genere».

 

In Silvi e la notte oscura c’è un’attenzione particolare alla luce e ai colori, so che hai un problema a un occhio, vero?

Quasi non ci vedo da un occhio, sono molto miope.

 

Credi che l’attenzione per questi temi dipenda dal tuo problema?

È un’interpretazione molto psicoanalitica, però è vero, ho questo problema da quando sono nato. Da bambino vedevo perfettamente dall’occhio sinistro e molto poco dal destro, c’è stato un periodo in cui me ne coprivano uno. Non è mai stato un problema e non l’ho mai vissuto male. Certo, era fastidioso perché già in seconda elementare portavo gli occhiali, quegli occhiali terribili degli anni Ottanta. Per un po’ ho usato le lenti a contatto, di quelle rigide che c’erano allora, ma l’occhio mi si gonfiava, mi veniva un’allergia e dovevo fare più di sessanta chilometri per andare a Río Cuarto a farmele togliere. Quando ho cominciato a guidare poi mi sono reso conto per la prima volta che le cose non si trovano esattamente dove le vedo io, che è tutto spostato. Questo non ha molto a che fare con la miopia ma con l’avere un occhio più debole dell’altro. Quando sono comparsi i primi film in 3D le lenti degli occhiali erano una blu e una rossa e be’… io non ero in grado di vedere le immagini sullo schermo, vedevo tutto blu o tutto rosso. Non riesco a guardare i film in 3D. Forse è vero, tutto questo mi ha spinto a riflettere su cosa significa vedere, come si fa, come si compone quello che vediamo.

 

Insegni scrittura creativa…

Non so esattamente se quello che faccio è insegnare. Coordino dei laboratori. La gente impara da sola.

 

Che cosa proponi ai tuoi allievi per allenare lo sguardo, che cosa li incoraggi a fare?

Insegno a guardare, appunto. Quando qualcuno sta cominciando a scrivere mi sembra importante che impari a essere attento a quello che vede. C’è un limite del linguaggio, e una delle vie possibili per affrontare la scrittura è accettare che la lingua non può dar conto delle cose. Ma d’altra parte scrivere è cercare di dar conto delle cose. Così quello che io propongo ai partecipanti dei miei laboratori è che cerchino di tendere il linguaggio al limite. Li invito a cercare quale parola, quale aggettivo, quale immagine potrebbe darne conto meglio, sapendo che è una battaglia persa. Ma non importa. Lo sguardo deve essere sempre attento a chiamare le cose in un certo modo. Poi vengono l’immaginazione e un mucchio di procedimenti possibili, ma confrontarsi con il reale e cercare di nominarlo mi è sempre sembrata una sfida quando si scrive, come un esercizio di riscaldamento. Forse la domanda che mi facevo da piccolo, se io vedessi uguale agli altri oppure no, si è evoluta nel tempo e mi ha portato a pensare a questo tipo di cose.

 

La domanda sulla verità in letteratura è sempre problematica…

Non so se è una domanda che mi interessa. Mi interessa quello che viene prima. Spingersi al limite, ai margini della domanda, ma non porla. In un certo senso è una domanda esaurita, o inesauribile. Credo anche che paralizzi un po’.

 

In questo libro c’è un lavoro intenso sulla flora. Ci sono molti alberi, piante e arbusti. L’interesse per il mondo vegetale viene dagli anni in cui hai studiato agraria o hai fatto un lavoro di ricerca specifico?

Uno dei ricordi più belli della facoltà di agraria ha a che fare con la scoperta della botanica, e una delle cose che mi hanno spinto ad abbandonarla è stato capire che a un certo punto avremmo dovuto studiare le sostanze chimiche che si usano in agricoltura, e che possono arrivare a uccidere certe piante. Una parte dell’esame di botanica consisteva nell’uscire a camminare per il campus con il professore, che era un uomo assolutamente geniale, uno dei primi ecologisti. Lui ti indicava delle piante e tu dovevi dirgli il nome scientifico, gli usi. Era un esame difficile ma bellissimo. Molte delle cose che compaiono in questo libro vengono di lì, anche se l’interesse per il mondo vegetale c’era già prima. Deriva dal posto in cui sono nato, da come si entra in rapporto con il paesaggio. Anche da un certo modo di essere: tutta la mia famiglia, dalla parte di mia madre come da quella di mio padre, è contadina. C’è questa cosa del coltivare la terra; le mie due nonne avevano una fattoria, i miei due nonni lavoravano in campagna. Il principale argomento in casa nostra è sempre stato la pioggia, il clima.

 

Quando sono stati scritti i racconti che compaiono qui?

Sono stati scritti poco per volta, nel corso di molto tempo. «La vita dei boschi» è stata una delle prime cose che ho mi sono messo a scrivere dopo la pubblicazione di 00, più o meno nel 2005. Me lo ricordo perché l’immagine centrale che mi muoveva era la coltivazione dei fiori, dato che in quel periodo ero andato a visitare un vivaio vicino a Córdoba. Di tutto questo non è rimasto assolutamente niente. Sono racconti che ho riscritto più volte nel corso del tempo. Una versione precedente del «Cimitero perfetto» stava per finire in La hora de los monos, ma non ne ero ancora convinto. C’era lo stesso personaggio che andava in un paese a progettare un cimitero, però succedevano altre cose che poi sono sparite.

 

Il protagonista di «Un cimitero perfetto» c’entra qualcosa con Francisco Salamone (architetto argentino che progettò cimiteri negli anni Venti, ndr)?

No, no. Salamone lo conosco solo per sentito dire. Il personaggio del «Cimitero» non so bene da dove venga. È vero, c’è questa cosa del paesaggio, dell’elemento vegetale, una certa estetica del paesaggio. Da una parte la provincia di Córdoba ha questa caratteristica molto strana e forte che ci sono aree molto vaste e pianeggianti che non vengono coltivate, perché il suolo è salino. A prima vista sono tutte uguali, ma ogni erba che cresce è diversa. Questa particolarità crea un quadro generale abbastanza uniforme, ma è un’uniformità apparente. E dall’altra penso anche alle monoculture, a un uso esclusivamente produttivo del paesaggio. Il paesaggio produce, viene spremuto al massimo, e tutto diventa monotono e perde la sua bellezza. E la bellezza, poi, stranamente, ricompare nei cimiteri parco. Proprio fra Cabrera e Deheza c’è stata una grande attività di forestazione quando ero piccolo, che però non è una pratica diffusa. C’è questa cosa della piattezza, e quando ci sono alberi sono eucalipti o falsi sicomori e molti paesi hanno questi giardini pubblici asettici, pavimentati, con un paio di cipressi e basta. A un certo punto i parchi cimiteriali sono diventati una moda, un paesaggio più o meno bello ma più o meno studiato. Il fatto che ci si permetta un piacere estetico solo in relazione alla morte mi è sembrata un’immagine potente. Nel resto del paesaggio è come se questo non fosse consentito o non si potesse fare. La questione del taglio dei boschi, invece, si riferisce a un’altra zona della provincia di Córdoba, quella delle montagne, del Valle de Calamuchita; le pinete che ci sono laggiù sono le mie preferite. Lì è nata, appunto, la mia raccolta 222 patitos. Sono pinete meravigliose da guardare e da attraversare, ma sono create dall’uomo.

 

Una bellezza produttiva, come dicevi.

Gli alberi vengono piantati e dopo un certo numero di anni vengono abbattuti, sempre che un incendio non li bruci prima. I ritmi della mia famiglia sono scanditi, come in ogni famiglia della pampa «gringa» produttiva, dal ciclo dei raccolti. L’anno non comincia in gennaio, ma in agosto, e finisce in marzo, in aprile. Più che gli anni, gli anziani ricordano i raccolti. Questo nel libro c’è, anche se forse non in modo esplicito. Mi piaceva pensarlo come una musica dei raccolti, una temporalità ciclica.

 

I tuoi sono racconti lunghi, con descrizioni lente. Non è una letteratura affrettata, si adegua in qualche modo alla logica vegetale degli scenari che scegli.

Questo, in alcuni punti, è voluto. Volevo che fossero racconti semplici, che non ci fossero fuochi artificiali, narratori che vanno e vengono nel tempo o che si sdoppiano; volevo che fossero il più il più possibile semplici e lineari, e che si sentisse il passare del tempo. Che nell’estensione emergesse questo.

 

Sono anche racconti che hai impiegato anni a scrivere, parli di idee nate nel 2003 o nel 2004, e ti definisci come una persona tranquilla, che lavora lentamente. In un’intervista dicevi che hai deciso di non essere quel tipo di autore che produce un racconto alla settimana solo perché lo chiamano di qua e di là.

Non è una decisione, è che non posso essere quel genere di scrittore. Non mi viene. Ho bisogno di tempo. È anche vero che per me questi sono stati anni di grandi cambiamenti, ho cambiato città, paese, e questi racconti sono diventati il mio territorio. Forse per questo ci ho messo un po’ di più, come se non volessi interromperli. Li penso come dei piccoli mondi, delle zone dove mi rifugiavo e che trasformavo in un posto mio, dove mi piaceva passare del tempo. L’idea della letteratura come via di fuga mi interessava molto in questo libro. Ho la sensazione che noi che leggiamo siamo sempre più dei freak. Mi fa effetto veder leggere gli adolescenti, mi sembra una scelta forte… Io da ragazzo leggevo perché non c’era altro. In casa avevamo un televisore che trasmetteva solo due canali, e per cambiare canale bisognava muovere l’antenna, e solo mio papà sapeva come fare così dovevamo aspettare lui. I cartoni animati c’erano solo per un’ora, al pomeriggio. Tutti leggevano a casa mia, si leggeva il giornale, quindi io ero abituato a veder leggere gli altri, e farlo è stato un passo naturale. Ma adesso, con tutto quello che i ragazzi hanno a disposizione, è come se leggere fosse…

 

Punk?

Non so se addirittura punk, ma certamente marginale. Bisogna avere molto coraggio, la forza di stare soli. Te ne stai lì nel tuo mondo, devi mollare gli ormeggi e abbandonarti completamente, isolarti. In questo senso, tutti i personaggi del libro sono un po’ marginali. Hanno la capacità di isolarsi. Di stare soli o di cercare un loro modo di essere quello che devono essere.

 

Scrivere è il tuo modo di stare solo?

Non necessariamente. È il mio modo di elaborare certe cose, di capirle. Di prendere le distanze e guardarle da un’altra prospettiva. È anche il mio modo di divertirmi, di giocare. Anzi, scrivere per me è cercare di costruire qualcosa a partire da quello che c’è, cercare di vedere. Può essere qualcosa di simile a quello che fa il bambino quando gioca da solo e si inventa dei personaggi e fa parlare i soldatini. Ma a me, più che uno stare da solo, sembra uno stare con me.

 

© Valeria Tentoni, 2017. Tutti i diritti riservati.

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