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Gabo: della politica come fatalità

La rivista el malpensante [1] ha di recente pubblicato una serie di articoli dal titolo «Brevi incontri felici e infelici», in cui si narrano diversi modi di avvicinarsi a Gabriel García Márquez. Pubblichiamo oggi la seconda crónica, dello scrittore colombiano Andrés Hoyos, ringraziando l’autore e la testata.
La prima crónica, a cura di Paul Brito, è disponibile qui [2].

«Della politica come fatalità»
di Andrés Hoyos
traduzione di Chiara Muzzi

In ordine di importanza, García Márquez è stato uno dei maggiori scrittori del Novecento, un giornalista straordinario e un politico di sinistra controverso, scriteriato il più delle volte. Quest’ultimo aspetto della sua vita ha molta meno trascendenza di quella che lui, i suoi adulatori e i suoi detrattori pensavano avesse, ma data la sua statura nelle altre due dimensioni, la politica non si può ignorare se vogliamo completare e accettare il suo lascito. Diamole allora uno sguardo senza eccessi di passione.

In politica – e questa distinzione elementare non si segnala con la dovuta frequenza – non esiste la prospettiva universale; esistono punti di vista personali. Se ci mettiamo nei panni di un cubano che ha sopportato i maltrattamenti e gli abusi del regime castrista degli ultimi cinquant’anni – e una percentuale molto grande di cubani li ha sopportati –, non avremo motivo di piangere la morte di García Márquez. Anzi, nel migliore dei casi biasimeremo la sua ingenuità; altri, meno benevoli, insulteranno la sua memoria.

Le centinaia di intellettuali internazionali di prestigio che a un certo punto hanno appoggiato Fidel Castro – vengono in mente, tra quelli di indiscutibile qualità letteraria, Sartre, Julio Cortázar, Harold Pinter, José Saramago e i locali Alejo Carpentier e Nicolás Guillén – hanno causato sicuramente un grave danno, nonostante la maggior parte sia scesa da quel vascello fantasma con più o meno baccano a mano a mano che passava il tempo ed era sempre meno discutibile il fatto che si trattasse di un’autentica dittatura. Senza tali sostegni, il regime sarebbe durato sicuramente qualche anno di meno, chissà quanti. García Márquez non solo è stato il più famoso tra i sostenitori di Castro, ma anche il più incondizionato. Lui stesso sosteneva che grazie alla sua influenza furono liberati molti prigionieri politici a Cuba, il che probabilmente è vero, anche se allo stesso tempo il suo atteggiamento rafforzava il regime che li catturava. Il rapporto tra lo scrittore e il dittatore, un megalomane abituato a manipolare e scartare la gente come chi butta nel cestino un fazzoletto usato, è stato sproporzionato. Castro ha usato Gabo quando e come ha voluto.

Questa storia è sembrata molto meno drammatica negli altri paesi, inclusa la Colombia, il suo paese d’origine, dove l’effetto dell’attività politica di Gabo è stato marginale o poco più. Qualcuno ricorda, ad esempio, che Tirofijo abbia mai preso in considerazione, nel bene o nel male, le opinioni di García Márquez in un qualunque ambito o che abbia cambiato la sua strategia politica su suggerimento dello scrittore? Gabo era a favore della pace, il capo guerrigliero no, e quindi non c’è stata nessuna negoziazione di pace seria finché la prospettiva di un trionfo militare delle Farc non è andata in fumo. Ed esiste una seppur minima traccia dell’influenza di Gabo nelle azioni di Bateman e degli illuminati del Movimento 19 aprile? Nessuna: hanno fatto quello che hanno potuto nei limiti delle loro possibilità. Esattamente come i rapporti dello scrittore con Omar Torrijos, François Mitterand, Felipe González, Carlos Salinas de Gortari, Alfonso López Michelsen o Bill Clinton sono stati semplicemente sociali. Se si cerca bene, non si trova nessuna certezza che essi abbiano cambiato una decisione politica importante per qualcosa detto o non detto dal premio Nobel colombiano. Magari un dettaglio o un discorso possono essere stati influenzati in modo minimo, ma niente di più. Un vero politico, dopo essersi presentato e aver preso posizione nello spettro ideologico, fa quello che le sue convinzioni, mescolate alla realtà del potere, gli dettano. Non c’è posto per le ingenuità, solo per rapporti di forza e convenienza.

García Márquez è sempre fuggito apertamente dalle idee astratte, senza le quali è impossibile orientarsi e, soprattutto, fare bene politica. La vera democrazia è esattamente un’ossatura di idee astratte – pesi e contrappesi, divisione del potere con l’obiettivo di limitarlo, prerogative dei più, diritti delle minoranze e un lungo eccetera – e non un semplice gioco di persone più o meno carismatiche e benintenzionate che vanno e vengono. La distinzione essenziale tra le istituzioni e le persone, tanto inutile nell’ambito delle avventure e delle emozioni letterarie, è concettuale. I fanatici di un leader, come si vede così spesso, non capiscono questo impianto concettuale e meno ancora il fatto che le istituzioni siano più importanti delle persone che tanto ammirano. I leader di una democrazia sana, invece, accettano la loro subordinazione.

L’autunno del patriarca è un buon posto per calibrare il rapporto tra Gabo e il potere. Non è una semplice coincidenza che questo libro sia l’incarnazione dell’attrazione dello scrittore per i dittatori e non, distinzione cruciale, per i politici più normali, che arrivano al potere, fanno molto o poco e se ne vanno. Un politico normale di solito non è interessante, mentre un caudillo sì. L’attrazione per i dittatori incarnata in questo romanzo è imparentata con la condizione dello scrittore, che potrebbe essere definito come un dittatore dell’immaginazione. Pochi sono i processi meno democratici e più autoritari dell’atto creativo. Sì, è possibile che alla domanda “Che ore sono?”, un suddito risponda al dittatore: “L’ora che vuole, mio generale”, ma è la stessa cosa che rispondono al dittatore dell’immaginazione i personaggi di un romanzo. A volte poi si ribellano e prendono la loro strada, come fece Alonso Quijano con Cervantes, ma l’autore, come indica il suo nome, non smette mai di essere autoritario nella finzione. Lì ha poteri di vita e di morte che qualunque tiranno invidierebbe.

Per tutto questo, la politica per García Márquez è stata un incidente di percorso, come lo è stato per molti grandi artisti, immensi, medi o piccoli, che hanno preteso illusoriamente che la loro fama e il loro talento li rendessero immuni dalla manipolazione dei professionisti. Sia quel che sia, scommetto che questo aspetto della realtà perderà importanza con il passare del tempo, a mano a mano che i protagonisti politici di questa epoca saranno dimenticati o fatti scendere dal piedistallo su cui molti non sarebbero dovuti salire. L’opera letteraria di Gabo, invece, promette di consolidarsi nel tempo. Leggiamo allora i libri e dimentichiamo le illusioni incaute che lo scrittore si faceva della realtà di un potere che in fin dei conti non ha mai avuto.