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Io scrivo per essere felice

Pubblichiamo un profilo dello scrittore argentino Roberto Arlt già comparso sulla rivista «Pulp».

di Raul Schenardi

Nel suo recente Diccionario de autores latinoamericanos, frutto del lavoro di quindici anni, César Aira, il più prolifico e sorprendente scrittore argentino, non ha esitazioni e non ricorre nemmeno a una stilla d’enfasi nel definire Roberto Arlt, classe 1900, “il più grande romanziere argentino”. Del resto non è l’unico a pensarla così: prima di lui si erano dichiarati entusiasti ammiratori dell’opera di Arlt scrittori della statura di Juan Carlos Onetti, Julio Cortázar e Manuel Puig. Onetti, che gli era forse più affine per tematiche, ci ha lasciato questa enigmatica definizione dell’uomo: “Non so se sia stato un angelo, un figlio di puttana o un commediante, forse le tre cose insieme”. Cortázar dal canto suo, nella prefazione all’edizione delle Obras completas del suo connazionale, intimidito dal compito, annotava: “Se potesse leggere queste righe, Arlt mi spaccherebbe la faccia”. A testimoniare la persistenza di Arlt nelle lettere argentine, Ricardo Piglia, nel romanzo Respirazione artificiale (pubblicato da Serra e Riva, traduzione di Gianni Guadalupi), ne segnala l’importanza in un lungo capitolo dedicato al linguaggio letterario e sottolinea il passo decisivo da lui compiuto nel superare il baratro fra la lingua parlata e quella scritta: “Non c’è nulla che somigli allo stile di Arlt; non c’è nulla di altrettanto trasgressivo dello stile di Roberto Arlt”.

Certo. Nessuno si sarebbe mai sognato, prima di lui, di introdurre nei dialoghi di un romanzo il voseo (l’uso del vos al posto del tu, tipico della parlata popolare argentina) e i termini del lunfardo, il gergo della malavita di Buenos Aires, insieme alle colorite espressioni degli immigranti europei, italiani in particolare. Per non dire degli strafalcioni grammaticali disseminati qua e là, che indisponevano i critici, così come il suo presunto modestissimo background di letture (una leggenda che lui stesso incoraggiò): Salgari, la saga di Rocambole, traduzioni approssimative dei grandi romanzieri europei e russi, testi scriteriati di teosofi. Il fatto è che, al di là dello stile – o piuttosto della sacrosanta mancanza di rispetto per il “bello stile” –, Arlt aveva un mondo da portare alla luce: “Quando si ha qualcosa da dire, si scrive dovunque. Su un rotolo di carta o in una stanza infernale. Dio, oppure il Diavolo, ti sono vicini e ti dettano parole inesprimibili. Affermo con orgoglio che scrivere, per me, rappresenta un lusso. Non ho a disposizione, come altri scrittori, rendite, tempo o comodissimi impieghi statali. Guadagnarsi il pane scrivendo è penoso e faticoso”. E ha assunto il compito con piena consapevolezza: “Creeremo la nostra letteratura, non restandocene a chiacchierare continuamente di letteratura, bensì scrivendo, in orgogliosa solitudine, libri che racchiudono la violenza di un montante alla mascella. Sì, un libro dopo l’altro, e che gli eunuchi sbuffino pure”.

Nel 2000 il centenario della nascita è stato l’occasione per il fiorire di studi critici che gli hanno restituito il titolo di fondatore del romanzo urbano e del “realismo sporco”. Di qui la sua malinconica attualità: visto il baratro in cui è finita l’Argentina – grazie anche alle ricette letali del Fondo monetario internazionale –, i personaggi dei romanzi di Arlt e i fantasmi che li abitano sono tornati a popolare numerosi le vie di Buenos Aires. Quanto mai azzeccata, perciò, la decisione della casa editrice E/O di ripubblicare I sette pazzi (nella traduzione di Luigi Pellisari e con prefazione di Onetti), cui seguirà I lanciafiamme, che ne costituisce l’imperdibile continuazione. La prima edizione argentina de Los sietes locos è del 1929, una delle date fatidiche del secolo scorso, e Arlt diede prova di perfetto tempismo nel profetizzare convulsioni sociali generatrici di mostri e nell’ordire paranoie apocalittiche. Come ha scritto un critico, se invece di morire a quarant’anni per un attacco cardiaco si fosse sparato un colpo, o se avesse coltivato il vizio dell’alcol o delle droghe, sarebbe finito d’ufficio nell’inferno dei cosiddetti “artisti maledetti”. Lui dal canto suo decretò: “Sono il miglior scrittore della mia generazione e il più sfortunato. Forse per questo sono il migliore”.

Figlio di immigrati poveri – il padre era prussiano, severo come da copione, la madre tirolese di lingua italiana, seguace dello spiritismo –, a sedici anni Arlt, incapace di sopportare oltre l’autoritarismo paterno, esce di casa per guadagnarsi da vivere con mestieri modesti: commesso di libreria, meccanico, venditore a domicilio. Esperienze precoci che gli bastano per farsi un’idea assolutamente disincantata del “lavoro”, questo idolo sempre assetato di sudore e di sangue, di cui s’impegnerà sempre a sfatare il mito, con la stessa chirurgica lucidità del Céline di Morte a credito. L’impiego come commesso, immergendolo nel mondo dei libri, gli conferirà quella predisposizione alle fantasticherie più arrischiate che caratterizza i suoi personaggi e che costituisce, insieme alla spietata osservazione della realtà, una delle sue principali fonti d’ispirazione. “L’ansia gli faceva desiderare un’esistenza nella quale il domani non fosse la continuazione dell’oggi con la stessa misura del tempo, ma qualcosa di diverso e di sempre inatteso; come nei film americani nei quali il mendicante di ieri è il capo della società segreta di oggi e la dattilografa avventuriera è una milionaria in incognito.”

Si sposa poco più che ventenne con una donna malata di tubercolosi da cui avrà una figlia e va a vivere qualche anno in campagna. (Dell’insofferenza che gli provocano il ménage matrimoniale e le soluzioni borghesi della vita di coppia si trova traccia in tutta la sua produzione, ma in particolare ne darà conto nell’ultimo romanzo, El amor brujo). Qui investe il denaro della dote della moglie nella produzione di articoli di sua invenzione che non avranno mai successo commerciale. Se Remo Erdosain, il suo alter ego protagonista de I sette pazzi, si ingegna a brevettare delle rose di rame, Arlt – senza negarsi il piacere di ridicolizzare la figura dell’inventore frustrato – si intestardirà per tutta la vita a voler produrre calze da donna metallizzate, allo scopo di renderle più resistenti. Al rientro nella capitale, più squattrinato che mai – ma con il manoscritto del suo primo romanzo, Il giocattolo rabbioso –, lavora come segretario di Ricardo Guïraldes, l’autore di Don Segundo Sombra, che lo aiuta a trovare un editore, e inizia, dapprima come cronista di nera, varie collaborazioni giornalistiche che sfoceranno nelle famose Aguafortes porteñas. Saranno proprio queste cronache di Buenos Aires nelle quali prendevano la parola anche ruffiani e prostitute, lavoratori sfruttati e ubriaconi, a renderlo popolare presso il grande pubblico, tanto da far impennare la tiratura del quotidiano sul quale comparivano una volta la settimana e da convincere il direttore a pubblicarle sempre in giorni diversi, per costringere i lettori a comprarlo regolarmente. Sarà anche inviato più volte all’estero, in Brasile, Cile, Spagna e Nordafrica; di quest’ultima esperienza riverserà le impressioni nei racconti raccolti nel suo ultimo libro, El criador de gorilas. La notorietà conquistata come giornalista, ovviamente, favorirà le vendite de I sette pazzi, così come il successo di pubblico di una serie di opere teatrali cui Arlt si dedicherà a partire dal 1933.

Nel 1926, intanto, era uscito El juguete rabioso (Il giocattolo rabbioso, Editori Riuniti), titolo originario La vida puerca, forse il più autobiografico dei suoi romanzi. Silvio Astier, un adolescente in rotta col padre, vive una serie di esperienze frustranti: il club di ladri cui dà vita con due amici si scioglie dopo un insuccesso, la madre lo spinge a cercarsi un lavoro, ma dalla libreria dove è assunto come commesso se ne deve andare in seguito al clamoroso fallimento del tentativo d’incendiarla. Poco dopo essere stato ammesso come apprendista viene espulso da una scuola d’aviazione e manca persino un tentativo di suicidio; infine, nell’ultimo capitolo dal titolo premonitore, “Giuda Iscariota”, fa amicizia con uno zoppo, un emarginato come lui, ma poi lo denuncia alla polizia per un furto e medita di partire per il Sud. Il racconto è in prima persona (anche nei romanzi successivi, in terza persona, Arlt sentirà a un certo punto l’esigenza di introdurre un cronista che parla in prima persona), ma la voce del narratore si sdoppia e ogni tanto si distanzia nel tempo dal soggetto dell’azione. Così, insieme al gusto acido del rancore del protagonista adolescente verso il mondo degli adulti che lo respinge invece di accoglierlo, dalle pagine del romanzo emerge anche il giudizio impietoso dello scrittore ventiseienne su tutta una società malata.

Se non è possibile imitare le gesta dei grandi masnadieri fantasticate sui giornaletti d’avventure, se l’amore o, più banalmente, i rapporti sessuali restano una chimera per chi non ha di che sfamarsi, se si è schifati dalla mentalità meschina e ipocrita dei piccolo-borghesi, se qualsiasi opportunità di promozione sociale è negata in partenza, tanto vale tuffarsi nelle pieghe più imbarazzanti della propria psiche: “Ci sono momenti nella nostra vita in cui sentiamo la necessità di essere canaglie, di insozzarci dentro, di commettere qualche infamia, che ne so… distruggere per sempre la vita di un uomo… e una volta che l’abbiamo fatto possiamo tornare a camminare tranquilli… Adesso sono tranquillo. Me ne andrò nella vita come se fossi un morto”. Così Silvio Astier giustifica il tradimento dell’amico: nella speranza – insensata, come possono coltivarla soltanto i disperati – che “l’angoscia aprirà ai miei occhi grandi orizzonti spirituali”, come Arlt scriverà altrove. Il tema del tradimento torna anche nei Sette pazzi: Gregorio Barsut, cugino della moglie di Erdosain, il protagonista del romanzo, lo denuncia ai suoi padroni per furto per il gusto di vederlo umiliato (poi glielo confessa, mettendo il moto il meccanismo che porterà al suo sequestro).

Se già il Giocattolo rabbioso rivelava l’influenza di Dostoevskij, all’origine de I sette pazzi, come è stato osservato, ci sono I demoni. Infatti, il gruppo di cospiratori improvvisati che si riunisce intorno all’Astrologo – Erdosain, ex esattore nonché ladro, il Ruffiano Malinconico, ras della prostituzione, l’ebreo Bromberg, il killer del gruppo che consulta versetti biblici prima di uccidere, il Cercatore d’oro e il Maggiore, quinta colonna della setta nell’esercito – condivide lo stesso nichilismo di fondo dei personaggi dostoevskjiani. Erdosain “si era visto obbligato a rubare perché gli davano un salario miserabile”, ma non usa quel che sottrae ai padroni per alleviare le miserevoli condizioni della moglie, che finirà per lasciarlo: lo dilapida in elemosine, mance generose, e soprattutto nei bordelli, in cerca non di piacere ma di avvilimento, dato che l’unico piacere derivante dai furti è la vendetta sui suoi sfruttatori. “Si affannava a umiliarsi come i santi baciavano le piaghe degli immondi: non per compassione, ma per essere più indegni della pietà di Dio, che doveva provare schifo nel vederli cercare il paradiso attraverso prove così ripugnanti.” Haffner, il Ruffiano Malinconico, così chiamato perché una volta aveva tentato il suicidio, è della partita perché “mi annoio. Dal momento che la vita non ha alcun senso, da qualunque corrente uno si lasci trasportare è la stessa cosa”. Il Cercatore d’oro è il più nietzscheano del gruppo: “Sfidando la solitudine, i pericoli, la tristezza, il sole, l’infinito della pianura, uno si sente un altro uomo… diverso dal gregge di schiavi che agonizza nella città… Lo sforzo trasformerà ognuno di noi in un superuomo”. Ma è nei discorsi dell’Astrologo che viene enunciata in termini deliranti la palingenesi nichilista: “… ormai per noi è passato il tempo in cui potevamo abbracciare un credo, una fede… L’uomo è una bestia triste che riuscirà ad emozionarsi solo per dei veri prodigi. O per dei massacri. Ebbene, così sia: noi, con la nostra società segreta, daremo loro prodigi, bacilli di colera asiatico, miti, scoperte di giacimenti d’oro o miniere di diamanti… Faremo loro dono della convinzione di un futuro così straordinario che tutte le promesse dei sacerdoti impallidiranno davanti alla realtà del prodigio apocrifo”.

I suoi progetti sconclusionati per impadronirsi del potere, che prevedono anzitutto la creazione di una rete di bordelli per finanziare le attività del gruppo e poi l’installazione di fabbriche per la produzione di gas tossici, non si rifanno a un’ideologia precisa, ma lasciano trapelare un misto di suggestioni bolsceviche e fasciste: “Non so se la nostra organizzazione sarà bolscevica o fascista. Certe volte mi sento portato a credere che meglio di tutto sarebbe preparare un’insalata russa tale che neanche Dio possa capirci nulla”. Ma su un punto ha le idee chiare: “C’è bisogno di oro per acciuffare la coscienza degli uomini… Lei crede che le future dittature saranno militari? Nossignore… I futuri dittatori saranno i re del petrolio, dell’acciaio, del grano”.

Pur senza aver mai militato in un partito, le simpatie di Arlt andavano alla classe operaia e ai movimenti di sinistra, il che non gli impediva di avvertire qualcosa di sinistro nell’affermazione di Lenin (che fa capolino varie volte nel romanzo): “Che accidenti di rivoluzione è mai questa se non fuciliamo nessuno?”. In ogni caso, fortunatamente, la narrativa di Arlt non è certo riconducibile nel quadro di un’estetica o di una progettualità connotate in senso ideologico. C’è invece ne I sette pazzi un inquietante proliferare di metafore industriali: “Il cielo… era bianco come una lamiera di stagno… Una società segreta è come un’enorme caldaia. Il vapore che produce può smuovere una gru come un ventilatore”. Una ragazza innamorata di Erdosain gli si dichiara con queste incredibili parole: “Ti amo tanto che per piacerti ho studiato come è fatto un altoforno e il trasformatore di Bessemer. Vuoi che ti dica cosa sono le rifiniture e come funziona l’impianto di refrigerazione?”. E non mancano le immagini oniriche, sempre intrise di humor nero: “Attraverso il finestrino di vetro andavano e venivano pescicani guerci, furiosi perché soffrivano di emorroidi”. Così come non manca il tema delle turbe sessuali: Erdosain, respinto dalla moglie, è stretto nella morsa fra “il desiderio che gli ronzava alle orecchie come un tafano” e i suoi tabù, immerso nella patetica ricerca nei bordelli di un prototipo di “donna disponibile” che vagheggia di amare castamente e che crede di trovare in Hipólita, ex prostituta.

Arlt fu sempre alieno alle interviste e alle dichiarazioni pubbliche – a differenza del suo coetaneo Borges, che ne fece quasi un genere letterario a sé stante – ma ci ha lasciato almeno una frase illuminante circa la sua vocazione: “Io scrivo per essere felice, scrivo per scoprire come si può riuscire a essere felici, dentro o fuori della legge”.