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Intervista a Martín Caparrós (II parte)

Pubblichiamo stamattina la seconda parte dell’intervista a Martín Caparrós da parte del blogger argentino Lalo Zanoni. Leggi la prima parte [1].

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C: È molto interessante navigare senza meta e in modo azzardato per finire a leggere cose che non avresti mai pensato. Mi piace molto. Navigare implica come una decisione, con una guida, una partenza, una destinazione e questo tipo di cose. Ma qui è come entrare in una serie di correnti vorticose. Uno si mette in una pagina e finisci in un’altra con connessioni incredibili… no? Questo implica un problema, dal momento che ti porta a voler andare sempre oltre, cosa che rende difficile soffermarsi il tempo necessario per leggere ognuno di questi materiali.

Mi sembra che ci siano molte cose da raccontare e non mi decido a smettere di raccontarle. Chiaramente ci sono molte cose che non racconto, ma nonostante questo, tutte le cose che sono in questi libri mi sembrano indispensabili. Forse dovrei avere maggior senso critico e lasciare da parte qualcosa. Ma quando comincio a ragionare su un libro penso: ”Ok, questa volta faccio davvero un libro corto”. E alla fine finisco per fare questi mattoni… La casa editrice lo tollera perché, dato che La Voluntad era molto lungo, Planeta lo ha rifiutato ed è stato pubblicato da Norma, dopo però si è pentita e ora è abituata a tutto. Inoltre mi sembra che come lettore sono a favore dei libri lunghi. Nel senso che se un libro è bello vorrei che non finisse mai. Se è brutto e lungo è come se fosse lungo e corto. Lo lasci e basta. Qual è il vantaggio che sia corto di là del problema industriale?

Z: Be’, per loro è un vantaggio che sia corto per la questione della stampa…

C: Già, ma questo non è un problema mio. Né come scrittore, perché voglio dire un certo numero di cose. Né come lettore, perché giustamente quando sei interessato e sei preso da un libro, desideri che duri per sempre.

Forse suona un poco presuntuoso, ma se ho raggiunto una certa posizione, è perché ho lottato per ottenerla. Quando mi dicevano “neanche per sogno puoi pubblicare una cronaca di ventimila caratteri”, io m’impuntavo e dicevo che si pubblicava così, e se non la volevano che si fottessero. Non è che il primo giorno che mi sono presentato con un testo mi hanno detto “fantastico Caparrós, vieni qua e pubblica tutto quello che ti pare”. Mi è successo con molti editori e continua a succedermi di dover combattere per pubblicare quello che mi va. È molto facile sostenere di dovere obbedienza e pubblicare quello che ti chiedono, perché devi mangiare, ecc. Va bene. Ma dopo non ti lamentare se non ti danno la posizione che pensi di meritare. La lunghezza, la forma, i temi, certe esagerazioni… se non lotti per quello che fai, poi non piangere.

Il mio linguaggio naturale è la scrittura. Quando mi viene in mente qualcosa, mi viene in mente in termini di testo. Questo è chiaro. Sono allenato sin da bambino per questo. Ho sempre letto molto e la mia forma di relazione con il mondo è stata attraverso la parola scritta. Quando mi viene un’idea, mi viene sotto forma di frase, non d’immagine o di suono. Poi la radio mi piace tantissimo e non ho problemi ad andare in uno studio radiofonico. È moltissimo che non faccio radio, ma ogni tanto sono tentato. Credo che l’ultima volta sia stata quando avevamo un programma con Dorio e Telerman a Radio Belgrano, nel marzo dell’87.

Durò un mese perché ad aprile ci fu la rivolta di Pasqua dei carapintada.

Quel lunedì, dopo il discorso “la casa esta en orden” di Alfonsín, uscimmo alle sette di mattina dicendoci che eravamo stati fortunati a preservare la democrazia, ma volevamo sapere cosa aveva negoziato Alfonsín con i militari. Ricevemmo una chiamata dall’alto, della direttrice della Radio, Chiquita Constenla, che ci convocava alle nove nel suo ufficio. Ci disse che eravamo licenziati. Ciò ci convinse ancora di più che la democrazia era democratica e la casa era in ordine, ah ah ah ah…”

La televisione mi sembra un mezzo molto potente ma non mi sta simpatica. C’è troppa gente che media tra ciò che pensa uno e quello che alla fine si vede sullo schermo, in generale media in negativo: per controllare, per censurare… questa cosa non è intrinseca alla televisione, ma dato che è un mezzo che possiede tanto potere, si crea sempre questo conflitto.

Cominciai a Noticias quando avevo 16 anni e quando la chiusero lavorai alcuni anni per la rivista Goles. Mi mandavano a tutte le partite di merda. L’altro giorno ho incrociato il Chavo Fucks che mi ha detto che ha un Banfield 0 Temperley 0 commentato da me. Gli ho chiesto di darmela, mi ricordo di quel giorno perché fu una partita di merda e in più non avevo la macchina e mi ero dovuto muovere in autobus…. In quel periodo solamente Goles e El Gráfico facevano le classifiche dei giocatori. A volte parlavamo con qualcuno di El Gráfico per non fare grandi disastri dando un 2 a uno che poi su El Gráfico aveva un 8. Come si fa per vederli tutti contemporaneamente? C’è sempre un 8 che uno si domanda… cosa avrà fatto questo ragazzo?”

Poi, quando me ne andai, rimasi in Francia senza sapere bene dove stare. Per vari anni non lavorai come giornalista. Studiai storia perché m’interessava da bambino… quando arrivai pensavo di sapere il francese della scuola, ma mi resi conto che non sapevo un cavolo. Non lavoravo perché non c’era lavoro, vivevo con i 600 franchi al mese che mi mandavano i miei vecchi. Con 300 pagavo l’affitto di una stanza e con gli altri 300 mangiavo e tutto il resto. Vivevo abbastanza in ristrettezze, sempre invitato a mangiare a casa di qualcuno.

Era una strana epoca per l’università. Era poco dopo il maggio del ‘68 e allora c’era molto questa idea di provare, diciamo, a organizzarsi in una maniera meno autoritaria. In quel periodo uno sceglieva la facoltà. Sono stati quattro anni. Era molto strano scegliere. Io mi sono laureato in storia senza aver mai letto nulla, per esempio, di Roma. Perché m’interessva molto la Grecia. Dopo ho dovuto leggere per conto mio la storia romana. Avevo un professore universitario molto rispettato, un tipo molto molto intelligente, che arrivava prima per mettere tutte le sedie in circolo anziché tenere la sua sedia davanti a noi che lo guardavamo. Lo faceva per mettere fine a questa idea della posizione di potere del professore. Era un po’ strano, un tipo grande che cambiava il posto delle sedie…

Io ero affascinato da tutto quello che mi stava capitando. Per un verso ero addolorato per le notizie che mi arrivavano di amici che sparivano o che venivano ammazzati, chiaramente era molto duro. Ma, allo stesso tempo, ero affascinato da tutto quello che stavo vivendo. Nei primi anni decisi che l’Argentina non esisteva, che non m’interessava. Non aveva nulla a che vedere con quello che io volevo: era un paese di merda, dove ammazzavano i miei amici.

Lavoravo in una specie di rivista mensile alternativa, un’affiche, una rivista murale. Avevamo fatto un numero in maggio per boicottare i mondiali d’Argentina. E quando poi cominciarono i mondiali, volevo che la squadra vincesse. I miei amici non capivano. Io gli spiegavo che purtoppo, sin da bambini, ci avevano addestrati a desiderare che l’Argentina vincesse il mondiale. E se avevamo la sfortuna di vincerlo in quel momento con i militari, cattiva sorte. Nonostante questo, quando vincemmo contro l’Olanda, ebbi mal di testa come mai nella vita.

Cominciai a tornare quando scrissi il mio primo romanzo, No velas a tus muertos, quasi senza volere mi ritrovai a scrivere dell’Argentina del ’79, o giù di li. E quando ci fu la possibilità, decisi di tornare. E mi sorprese, dopo il primo shock, trovarmi con una strana familiarità rispetto a tutto quello che era rimasto qui e dal quale mi ero sentito così lontano. Mi sorprese non essere stato tanto lontano come mi sarebbe piaciuto credere. M’interessavano gli spazi che si erano aperti. In radio, lì sì che mi resi conto delle differenze che avevo con l’Argentina; per non essere stato per molto tempo qui. Facemmo cose che sembravano molto di rottura; perché, io per lo meno, non sapevo dove era la norma, qual era. Quindi sembrava di rottura quello che in verità non era che un ignorare la norma. La prima notte, alla fine del programma, salutammo con un “ciao e a domani” e il giorno dopo ricevemmo un memorandum nel quale ci spiegavano come si salutava, che bisognava dire “buona notte cari radio ascoltatori”, ecc. Pensa quanti stupidi regolamenti c’erano in quel periodo…

Negli anni ’70 volevamo cambiare qualcosa che, se esistesse oggi, sarebbe più di quello che promettono con il progressismo, ma che allora era molto meno di ciò che le società speravano. Era una questione di modelli: sfruttatori e sfruttati, padroni e impiegati, profitti e plusvalore. L’idea era questa: che ci fossero società nelle quali nessuno intascava quello che produceva la maggioranza. Oggi sembra che questo sia impensabile e con il solo fatto che tutti abbiano la possibilità di produrre perché qualcuno diventi ricco ci sembra fantastico. Bisogna ringraziare di avere un padrone che si arricchisce. Sono differenze di aspettativa.

Z: Come combatteresti oggi per un mondo migliore se avessi 20-25 anni?

C: Mi sembra si facciano molte cose. Molte persone provano a fare cose, si mettono in ONG in gruppi, in qualsiasi tipo d’iniziative. Quello che manca è qualcosa che le unisca, una meta comune che faccia in modo che ciò sia parte di un tutto unico. Questa mi sembra essere la differenza principale. Prima, se volevi cambiare il mondo era più o meno chiaro quello che dovevi fare: ti mettevi in qualche partito di sinistra e partecipavi in qualche forma. Il percorso era più o meno tracciato. Questa cosa funzionò male non solamente in Argentina ma anche nel resto del mondo. Quindi adesso non ci sono percorsi tracciati e devi cercarli con modalità non definite. Ciò crea una situazione contraddittoria: da una parte è scoraggiante non avere un percorso definito e dall’altra è interessante questo momento in cui nulla è scritto e poco a poco si formano nuove vie.

C: A volte mi metto a pensare a come sarà questo periodo, come, per esempio, saranno letti questi ultimi trenta o cinquant’anni nel 2200. E mi sembra un’epoca un poco vuota, con momenti che poi non restano nei manuali. Perché non accade nulla di particolarmente significativo…cose che poi saranno decisive per il modo di vivere delle future generazioni. Quello che la storia registra sono quei momenti che dopo 200 anni sono visti come fondamentali. Sono quasi vent’anni che non accade nulla di tutto ciò sul piano politico e sociale, mentre sì accade sul piano della tecnica in cui le cose adesso cambiano molto. Ma questi cambiamenti tecnologici in generale si ripercuotono in politica e nella società con un certo delay. Bisogna vedere quanto è il delay in questo caso…

La narrativa d’intrattenimento ha sempre avuto un suo spazio. Ora sembrerebbe che questo spazio sia particolarmente forte. Si rifugia negli interstizi lasciati dall’invasione di cose come la TV e il cinema, che è poi il luogo del cosìdetto sapere. Quindi questo tipo di narrativa è qualcosa che t’intrattiene ma che contemporaneamente t’insegna. Di conseguenza uno sente che non sta perdendo il tempo. Perché non sta solo leggendo un poliziesco, ma contemporaneamente apprende come vivevano i monaci medioevali. Il lettore quindi si tranquillizza. Ma mi sembra deprecabile perché, giustamente, la cosa buona della letteratura è di poter perdere il tempo coscientemente. Ti danno l’illusione che mentre t’intrattieni apprendi qualcosa. Questo tipo di lettura ti fa sentire meno in colpa di guardare una telenovela del pomeriggio. Mi sembra che questo sia un artificio per vendere questo tipo di narrativa.

Noto che la letteratura si è un poco imbarbarita. Mi sembra che, dopotutto, gli intenti avanguardisti che durarono fino agli anni 70, siano entrati in una strada senza uscita. Sono diversi anni che non sappiamo bene cosa fare. Tutta la corrente che poteva derivare da Joyce in avanti… si sono fermati in un punto come se non potessero proseguire oltre gli schemi tradizionali. In quel punto la corrente si è fermata ma nulla li ha spostati. Credo che ci siano cose, che accadranno delle cose. Qualcuno a un certo punto userà tutte le risorse che offre l’informatica per raccontare un qualcosa di significativo in una forma che ancora non esiste. Come Cervantes usò i racconti cavallereschi per inaugurare in una qualche forma quella che sarebbe stato il romanzo novecento anni fa, qualcuno utilizzerà i giochetti del computer, l’ipertesto e tutto il resto per creare arte e cominciare una nuova era. Ma ancora non è successo. Nel mentre, non accadono fatti significativi.