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Dalla Colombia a Sheffield, un’intervista a Julianne Pachico

Cosa sappiamo della Colombia? Ce lo racconta in questa intervista Julianne Pachico [1], l’autrice delle Più fortunate [2] che domani inizia il suo tour [3] in Italia. L’articolo, uscito originariamente su Peak Reads [4], viene qui riprodotto per gentile concessione dell’intervistatrice. Buona lettura!

di Mandy Wight
traduzione di Silvia Seminara

 

Benvenuta a Sheffield, Julianne, e grazie per aver accettato di fare quest’intervista. Cosa ti porta qui?

Insegno alla Sheffield Hallam University da febbraio dell’anno scorso, quindi da un annetto e mezzo, e mi sono trasferita qui una settimana fa. Quando mi hanno assunta stavo ancora finendo il dottorato, quindi trasferirmi non era la scelta ideale, ma ora da una settimana sono una vera sheffieldiana.

 

Hai vissuto in Inghilterra, in Colombia e negli Stati Uniti. C’è un paese tra questi con il quale ti identifichi più da vicino?

Un fatto indicativo, di recente, è stato guardare Colombia-Inghilterra ai Mondiali di calcio. Stavo vedendo la partita col mio ragazzo, che è inglese e ha tifato per l’Inghilterra, mentre io ho tifato per la Colombia sin dall’inizio. Mi è sembrato molto interessante che, nonostante io abbia un passaporto inglese, mia madre sia inglese, insomma geneticamente io sia per metà inglese, la squadra per cui tifavo era la Colombia. Immagino che essendo cresciuta in Colombia, che è stata casa mia da bambina, il luogo di tutte le mie esperienze formative e dei miei ricordi, ho un rapporto privilegiato con questo paese. I miei genitori vivono negli Stati Uniti e io ho un accento americano perché ho frequentato una scuola americana, ma negli Stati Uniti ci ho vissuto solo quattro anni, e quando la gente mi chiede: «Che sta succedendo in America? Perché sono tutti così fissati con le armi?», io rispondo: «Lo stai chiedendo alla persona sbagliata, non ne ho idea». Mi ritengo fortunata ad aver avuto la possibilità di entrare e uscire da diversi paesi e culture. La cosa interessante del vivere in Inghilterra è che, nonostante io sia geneticamente inglese e le origini della mia famiglia risalgano al Seicento, a causa del mio background e del mio accento sarò sempre vista come una straniera qui – sempre. Non credo sia una cosa negativa, e quello che amo dell’Inghilterra è l’apertura e l’accoglienza nei confronti delle persone che vengono a vivere qui. Forse la situazione sta cambiando, ma spero continui a essere così.

 

Vorrei chiederti qualcosa riguardo a Le più fortunate, libro che ho letto e ho trovato assolutamente straordinario. Sin dall’inizio l’ho visto come una raccolta di racconti collegati tra loro, ma ho notato che alcuni critici ne parlano come di un romanzo. La mia domanda è: tu come lo vedi e perché hai scelto proprio questa forma?

Negli Stati Uniti è stato lanciato come un romanzo, il che secondo me è interessante considerato che molti autori importanti di racconti sono americani, quindi è ironico che proprio in America abbiano voluto chiamarlo romanzo – è stata una scelta dell’editore basata sul fatto che i lettori preferiscono i romanzi alle raccolte di racconti. La mia intenzione sin dall’inizio era la raccolta collegata, il romanzo frammentario, che è una forma che mi piace leggere – libri come Cloud Atlas di David Mitchell o Olive Kitteridge di Elizabeth Strout, che non sono proprio delle raccolte né proprio dei romanzi. Insomma, volevo solo scrivere il tipo di libro che piace a me come lettrice. Mi è anche sembrata una forma adatta per raccontare la Colombia. Non volevo scrivere un libro in cui tutto fosse spiegato, tutto risolto, e questo per qualcuno può essere frustrante, ma mi sembrava un modo onesto e autentico di scrivere della Colombia, che è un posto confusionario in cui vivere, un posto dov’è difficile ottenere una qualsiasi risposta definitiva, e anche un paese frammentato e come spezzato, quindi anche per questo motivo mi è sembrata una forma appropriata. E forse, essendo il mio primo libro, l’inizio della mia carriera, scrivere dei racconti mi è anche sembrato più facile, meno spaventoso di scrivere un romanzo. Da allora ho scritto un romanzo, quindi adesso li ho provati entrambi.

 

Il libro si sofferma molto sulla violenza e sull’esperienza del vivere nella giungla, sulle difficoltà di quell’esperienza per coloro che sono stati rapiti ma anche per i guerriglieri che ci vivono da tanti anni. Che tipo di ricerche hai fatto per poter scrivere in modo così dettagliato di quest’esperienza?

Ho letto un sacco di memoir e di non-fiction, molto giornalismo. Ho guardato un sacco di foto online. Ho letto della narrativa di autori colombiani, ma credo che la non-fiction sia stata la cosa più utile. Nello scrivere racconti come «Torta al limone» o «M+M», che sono ambientati nella giungla, è stato di grande aiuto leggere libri scritti da persone che sono state tenute in ostaggio, che sono state rapite o che hanno preso parte alla rivolta armata. Inoltre, è stato necessario andarmene per vedere la Colombia da una prospettiva diversa. Finché vivevo lì da ragazzina non ero granché interessata alla situazione politica, dato che quando sei adolescente tendi a concentrarti egoisticamente soltanto sulla tua vita. Questa è una cosa che ho sentito dire anche ad altri scrittori – Kazuo Ishiguro, per esempio, i suoi primi due libri erano sul Giappone nonostante lui ci abbia vissuto pochi anni, se n’è andato quand’era ancora piccolo. Mi sembra uno schema interessante: le persone hanno bisogno di lasciare i luoghi per poterne scrivere.

 

Insieme alle descrizioni molto realistiche della vita dei guerriglieri nella giungla, nel libro ci sono anche elementi surreali, ad esempio «I turisti» è raccontato dal punto di vista dei conigli. I personaggi leggono anche molti libri fantasy e parlano di film, e mi chiedevo se potevi raccontarmi un po’ perché hai scelto di includere l’elemento surreale e fantastico.

Una delle prime cose che vengono in mente quando si pensa alla narrativa colombiana è il realismo magico, per via di Gabriel García Márquez e Cent’anni di solitudine. Credo che la maggior parte della gente intenda il realismo magico come una serie di eventi magici descritti però in modo molto realistico: come il prete di Cent’anni di solitudine che beve una tazza di cioccolata calda e inizia a levitare, o altre cose surreali che accadono nella vita di tutti i giorni. Mi sembra un motivo molto presente nella letteratura colombiana; detto ciò, non è che mi sono messa a tavolino col proposito di scrivere in maniera surreale perché così è la letteratura colombiana. Di nuovo, credo sia derivato più che altro dal fatto che è questo il tipo di narrativa che mi piace. Leggo molta science fiction e molto fantasy. Il racconto dei conigli, per esempio, è stato il mio tentativo di scrivere una storia horror. Poi sono una grande ammiratrice di Kafka, e tra i suoi racconti ce n’è uno su un animale non identificato che vive in una tana, quindi credo che gli elementi fantastici presenti nel libro siano il risultato del mio gusto e delle mie letture. E in García Márquez, in Cent’anni di solitudine, succedono queste cose molto magiche, persone che levitano, l’epidemia d’insonnia, ma poi ci sono anche eventi come il massacro di tutti quei lavoratori, che però è una cosa dimenticata, completamente nascosta; credo che mettendo vicini questi due elementi lui stia dicendo che la cosa davvero incredibile, ancora più incredibile delle donne che levitano, sia nascondere la realtà di tale violenza, tutti questi morti ignorati.

 

Quando scrivevi avevi in programma di raccontare al mondo la Colombia, la violenza che c’è lì? Era una missione che ti sei prefissa, una scelta consapevole?

Quello che facevo consapevolmente credo fosse provare a descrivere le diverse facce della Colombia. Ad esempio, so che un aspetto ineludibile, quando si pensa alla Colombia, è la droga, quindi volevo ci fosse un racconto che riguardasse qualcuno che si droga, qualcuno che vive all’estero e si fa di cocaina, perché è così che molti incontrano la Colombia, attraverso questo prodotto che esporta. Ho pensato che volevo ci fosse un racconto sui guerriglieri e su cosa significa vivere in un accampamento nella giungla, e un racconto su cosa significa vivere in un villaggio rurale che è stato colpito da tanta violenza paramilitare e da cui molte persone se ne sono andate, come succede in «L’Uomo Armadillo», il penultimo racconto. Per quanto riguarda il voler prendere una posizione o provare a sensibilizzare la gente sul problema della violenza in Colombia, questa è una cosa con cui mi trovo ancora in difficoltà come scrittrice. È un discorso che ho affrontato di recente con un altro scrittore colombiano, al quale domandavo se la narrativa è in un certo senso superflua nell’ottica di fare qualcosa di utile. La sua opinione era che questo è un modo fuorviante di intendere la narrativa, come qualcosa che abbia il compito di istruire. Può averlo, ma forse non dovrebbe essere questo l’obiettivo principale dello scrittore; l’obiettivo principale dello scrittore, sosteneva lui, dovrebbe riguardare le parole sulla pagina e la creazione di un’esperienza emotiva per il lettore, e se sei interessato alla politica allora questo verrà fuori nella scrittura, ma non dovrebbe essere una cosa artificiale da inserire a forza nel testo, altrimenti diventa solo moralismo. È stata una cosa interessante per me da sentire, soprattutto scrivendo della Colombia nel Regno Unito. Penso che negli Stati Uniti sia un po’ diverso perché geograficamente gli Stati Uniti e la Colombia sono molto più vicini, ci sono più immigrati colombiani che ci vivono, in generale più immigrati che parlano spagnolo, e anche dal punto di vista economico gli Stati Uniti hanno investito molti più soldi in Colombia, quindi credo che lì sia diverso. Qui invece – almeno nella mia esperienza, per quel che vale – non ho incontrato molta gente che conoscesse la Colombia, quindi in qualche modo mi fa piacere se le persone leggono questo libro e imparano qualcosa sulla Colombia che magari prima non sapevano. Ma per quanto fossi consapevole di quello che stavo tentando di rappresentare, non avevo un progetto esplicito per cercare di imporre un certo punto di vista.

 

So bene che nella letteratura latinoamericana ci sono grandi nomi come García Márquez e Mario Vargas Llosa, scrittori che tutti conoscono, ma ci sono anche altri autori, scrittrici donne per esempio, che la gente conosce molto meno, e mi chiedevo se secondo te questo è il caso anche della letteratura colombiana.

Penso che molto abbia a che fare con la traduzione, con chi viene tradotto. I due autori che hai citato appartengono a un periodo preciso, il movimento del Boom, in cui spiccavano autori con grandi personalità, autori politicamente impegnati: García Márquez era molto legato a Cuba nel bene e nel male, e Vargas Llosa aveva corso per la presidenza. Oggi non credo sia più così. Sono d’accordo che è importante ascoltare diverse voci, ed è qui che i traduttori diventano preziosi, nel trovare libri che non hanno ricevuto l’attenzione che meritano e portarli a un pubblico più vasto. Sono sempre stata molto interessata alla narrativa in traduzione, e questo ha in gran parte a che fare semplicemente con il problema di procurarsi i libri. Qui in Inghilterra trovare libri in spagnolo è molto difficile, a volte li scarico in ebook ma non sono una grande amante del Kindle, quindi a volte è più semplice procurarsi un libro tradotto. Sarebbe importante dare un maggior sostegno ai traduttori per far sì che vengano ascoltate molte più voci, e credo che editori come And Other Stories o Tilted Axis Press diano un contributo in questo senso.

 

Ti ci vedi a tornare a vivere in Colombia un giorno?

Non lo so. Chi può dire cosa riserva il futuro? Al momento la cosa su cui sono più concentrata è la mia carriera di scrittrice, trovare dei modi per poterla portare avanti. Ho una cattedra alla Sheffield Hallam che è perfetta per me, è part-time e mi lascia il tempo per scrivere. Senza contare che lavorando con gli studenti imparo molte cose.

 

Un’ultima domanda: a cosa stai lavorando adesso? Possiamo aspettarci un romanzo, o un’altra raccolta di racconti?

Ho da poco mandato un romanzo alla mia agente. È ambientato a Medellín, in Colombia. Come per Le più fortunate, non ero partita con l’idea di scrivere della Colombia, è come se fosse semplicemente successo, e credo sia stato il risultato degli Accordi di Pace e del fatto che fare viaggi in Colombia sta diventando molto più comune. Se Le più fortunate era sul passato della Colombia, questo libro è più sul suo presente e futuro, su dove andrà il paese a partire da adesso.

© Mandy Wight, 2018. Tutti i diritti riservati.

 

Mandy Wight è una lettrice, blogger e traduttrice. Sul suo blog Peak Reads [5] recensisce libri in inglese, tedesco, spagnolo e narrativa in traduzione.