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Gabriel García Márquez: la potenza della metafora

Gabriel-Garcia-Marquez [1]Un anno fa ci lasciava Gabriel García Márquez. Lo ricordiamo con una recensione di Mario Luzi, che sul Corriere della Sera del 31 ottobre 1968 raccontava il suo capolavoro: Cent’anni di solitudine.
L’articolo è tratto dal volume
Cronache dell’altro mondo, Marietti editore.

di Mario Luzi

Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez nella sua versione italiana (ed. Feltrinelli, pp. 426) ha già ricevuto molto consensi e perfino un premio letterario non certo sollecitato, ma anzi pieno di diritto come l’opera narrativa emergente di questa annata. Criterio periodico che si mostrerà inadeguato, suppongo, perché Cent’anni di solitudine ci rivela un vero scrittore, un altro della pleiade latino-americana così fervida in questi anni tormentosi del continente.

Di essa, ricercare i caratteri comuni è come sempre pericoloso. Quelli che possiamo circoscrivere senza peccare di troppa grossolanità hanno qualche parentela con questo bellissimo fenomeno: che il drammatico acquisto di coscienza storica eccita simultaneamente il mito della profondità etnica. Il lettore europeo resta incantato nel percepire l’intento di definizione politica diffuso in una epicità di fondo che il contatto con le nostre poetiche ben più riflesse non ha fatto che esaltare: per contrasto, s’intende, rimandando all’autenticità popolare; ma anche per effetto dell’anticlassicismo stimolando il favoloso, il magico, il leggendario di cui lo scrittore centro e sudamericano dispone nella sua mente endemica.

Negli esempi più alti come Asturias o Fuentes o Sábato – Borges, si sa, è un fenomeno a parte rispetto a qualsiasi orizzonte – si ha netto il senso di trovarci nel vivo di una letteratura di risorse peculiari e geniali che tende alla totalità del significato e non cerca se non parzialmente il «colore» e nemmeno si lascia implicare nello schema nazional-popolare – tentazioni tradizionali della provincia e del sottosviluppo.

Nel discorso rientra bene anche Gabriel García Márquez, il quarantenne autore colombiano che impariamo a conoscere da questo romanzo, svolgimento e organica somma c’informano, di una serie di prove della stessa materia. La notizia è di tutto riguardo se è vero che conferma un rapporto di necessità, sempre così raro, tra lo scrittore e il proprio universo. D’altra parte questo si presenta da sé con l’autorità di un mondo che, definito nei suoi connotati umani, è anche un luogo della mente.

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di Babeth Lafon & Eleonora Marangoni

Macondo è il suo centro, i fasti e nefasti della famiglia Buendía la sua iperbolica, reale e fantastica sostanza. Un destino appunto di solitudine lega gli uomini e le donne di questa prolifera ceppata al paese che, nato con loro, è destinato a sparire dopo aver conosciuto la felicità dei pionieri, la mortificazione della legge, la tragicommedia della guerra civile, l’insidiosa prosperità della colonizzazione bananiera e molte altre calamità di cui è difficile stabilire l’ordine – se naturale o metafisico – come una pioggia durata quasi cinque anni o un’epidemia d’insonnia che toglie la memoria.

La logica affabulatoria e mitica del racconto non vuole del resto si facciano troppo rigide distinzioni tra reale e irreale nel mondo dei Buendía. Sono uomini ostinati nelle loro deliranti illusioni demiurgiche e pazienti come cinesi nel loro lavoro di oreficeria, uomini bruciati alla concupiscenza sfrenata e dalla passione per i galli da combattimento; donne pratiche e avvedute come Ursula, il perno ultracentenario della casata, donne con il fuoco oscuro nel sangue. La progressione è naturalmente verso il disfacimento, predetto e scritto nei libri magici dello zingaro alchimista Melquiades, l’unico vero ospite e testimone di questa esuberante e solitaria comunità. Emblematico, fra tutti, il destino di Aureliano Buendía, il colonnello, che dopo aver condotto con fede, con disincanto e cinismo l’annosa guerriglia liberale, si seppellisce nel laboratorio domestico a fabbricare pesciolini d’oro.

Márquez confessa di aver trovato un maestro in Faulkner e un esempio nel suo microcosmo di Yoknapatawa e confessa anche il fascino subito dalla Peste di Camus.

Due indicazioni che, a rigore, potrebbero rimanere esterne se si considerano la sua felicità e la sua euforia narrativa, sintomi certi della congenialità radicale della materia e dei modi stilistici strettamente conformi che le danno movimento e respiro – un respiro alterno di realtà e leggenda.

Ma possono essere indicazioni utili per conoscere la natura dell’artista che in atto è così occupato dalla «simpatia» con gli uomini, gli eventi, i tempi e con il compito di raccontarli da nascondere ogni retroterra problematico. Il tragico e allucinato naturalismo di Faulkner, l’allegoria di Camus dicono infatti qualcosa delle esigenze che lo scrittore vuole soddisfare dalla sua creazione letteraria: e che potrebbero definirsi di fedeltà al senso della vita, della profonda realtà nazionale, e di più vasta significazione simbolica.

In Cent’anni di solitudine la potenza di metafora che hanno alcuni episodi e poi la vicenda nel suo insieme è evidente. Lo spreco di ambizioni, di energia, di desideri dell’uomo continuamente respinto dalle promesse della storia all’inerzia della natura e al farnetico della solitudine può essere un simbolo latino-americano e valere in assoluto come risposta fondamentale all’interrogativo che ogni poeta si pone sulla sorte dell’uomo.

31.10.1968