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Ti ricordi di quando ci siamo fumati le ceneri di Copi?

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È uscito in Spagna per Anagrama il secondo volume delle «Opere complete» di Copi. Ne ha parlato di recente Francesca Lazzarato sul “manifesto”. Ripubblichiamo il suo testo ringraziando l’autrice e la testata. E ricordiamo che di Copi avevamo già parlato qui [2] e qui [3].

di Francesca Lazzarato

«Il giorno dopo la cremazione di Copi, noi che eravamo i suoi tre amici più stretti, e cioè io, Michel Cressole e Guy Hocquenghem, siamo andati a casa di China. Sul tavolo c’era la scatola con la marijuana. La madre era arrivata da poco e parlava male il francese. E aveva assistito Copi in ospedale, non aveva dormito, doveva essere molto stanca. Michel, che era il più audace, le ha chiesto : “China, possiamo farci una pipa di hasch?” “Va bene”, ha risposto lei. Così abbiamo fumato. Poi Michel ha preso la scatola e ha detto: “Le aveva messe qui dentro, le ceneri di Copi?”. E lei gli ha risposto di sì. Tempo dopo, Michel mi ha detto: “Ti ricordi quando ci siamo fumati le ceneri di Copi?”. Io non mi ricordavo, e ancora oggi non ne sono sicuro».

Raccolto da Maria Moreno nel corso di un’intervista realizzata nel 2006 per il quotidiano Pagina/12, l’aneddoto viene dalla viva voce di Raúl Escari, eccentrico intellettuale argentino vissuto per più di trent’anni a Parigi, e tutto lascia pensare che sia falso: non solo Georgina Botana, detta “la China”, parlava bene il francese, ma non era tipo da fare certe confusioni, nemmeno di fronte a una perdita tanto atroce. L’episodio, però, è talmente “alla Copi” da essere ormai parte della leggenda cresciuta intorno a Raúl Damonte Botana – meglio noto con il misterioso soprannome ricevuto da bambino – artista geniale che l’Aids si è portato via venticinque anni fa. La storia delle ceneri di un amico fumate da tre intellettuali gay (due dei quali destinati a morire della medesima malattia), in presenza di una madre accondiscendente o distratta, sembra infatti appartenere all’universo ribollente di Copi, popolato di donne eternamente sedute, polli e topi lussuriosi, maschi che diventano femmine che ridiventano maschi, madri degeneri, cadaveri sparsi, assassini seriali, vecchie prostitute, signore ansiose di comprarsi un collo di pelliccia ancora vivo, il tutto tra decori e abiti che rimandano al camp, ma anche al fastoso kitsch della tenuta Don Torcuato, dove il nonno Natalio Botana accumulava incunaboli, tappeti fatti di pelli di pantera cucite insieme, gabbie con centinaia di fagiani.

A questo universo mobile, grottesco e sinistramente divertente, fondato sul travestimento e sul succedersi di catastrofi individuali e collettive, Copi ha dato corpo grazie a un’immaginazione inesauribile e all’uso di strumenti diversi: il fumetto, con le sue figure quasi elementari galleggianti in pagine senza “grate” né riquadri; il teatro, con una dozzina di piéces travolgenti di cui l’autore era spesso interprete (da leggere, in proposito, l’eccellente Il teatro inopportuno di Copi, a cura di Stefano Casi, Titivillus 2008); romanzi e racconti oggi riuniti nei due volumi delle Obras completas pubblicati dalla Editorial Anagrama (il secondo, uscito quest’anno, è accompagnato dalla brillante prefazione di Patricio Pron). E proprio una simile, felice poliedricità ci induce a rimpiangere il fatto che su Copi, la cui popolarità è stata a suo tempo enorme non solo in Francia, ma anche in Italia, sia sceso uno strano silenzio, per lo meno nel nostro paese.

Non si tratta, va detto, del medesimo silenzio – ora finalmente interrotto da una serie di studi, di traduzioni e di messe in scena – che gli ha riservato a lungo l’Argentina, non tanto e non solo per via della sua “blasfema” raffigurazione di Eva Perón, quanto per diffidenza nei confronti di un emigrato estraneo a ogni canone nazionale, che scriveva in un’altra lingua e che si era tentati di inserire nella modesta casella della “letteratura omosessuale” (qualcosa, cioè, in cui Copi non si sarebbe mai riconosciuto, e che a conti fatti non esiste). Quello italiano è piuttosto l’oscuramento di una parte importante del lavoro del fumettista-commediografo-scrittore, visto che, se da noi il suo magnifico teatro è oggi tra i più rappresentati, sembrano sommerse e perdute sia la narrativa – in parte pubblicata da Bompiani, Lucarini ed ES – sia i  fumetti e i disegni proposti prima dalla Milano Libri di Giovanni Gandini, che nel 1967 prese a pubblicarli regolarmente su Linus nella traduzione di Oreste del Buono, e poi dalla Mondadori.

Vengono ignorate o cancellate, in questo modo, le tante soglie che consentono di passare dall’una all’altra forma in cui l’opera dell’autore argentino si articola, le tante e diverse modulazioni della sua voce. Se è vero, per esempio, che da molte parti è stata sottolineata l’indubbia teatralità dei fumetti di Copi e dei loro dialoghi surreali, sottrarli al lettore o restituirglieli esclusivamente attraverso un adattamento per il palcoscenico significa disconoscere la specificità di una narrazione visiva originalissima, che oggi come ieri  sa polverizzare le attese e le certezze piccolo-borghesi. Quanto alla narrativa, le due raccolte di racconti (Une langouste pour deux e Virginia Woolf a encore frappé)e i cinque romanzi (L’uruguayen, Le bal des folles, La citè des rats, La guerre des pedés e La internacional argentina, l’unico scritto in spagnolo) ci confermano che l’opera di Copi è in realtà fatta di vasi comunicanti, ma sono anche l’ esempio di come l’autore sappia calarsi in tipi diversi di scrittura e adattarli nel modo migliore ai personaggi e alle storie che vuole raccontare, alle immagini che intende evocare.

Imprescindibile per chi voglia capire quale influenza ha esercitato questo stravagante fuoruscito sulla letteratura argentina contemporanea, da César Aira (che attraverso l’elogio della sua presunta “imperfezione” svela e conferma la propria poetica) ad Alberto Laiseca, fino ad autori giovani come il Daniel Guebel di Derrumbe o il Felix Bruzzone di Los Topos, la narrativa di Copi porta al parossismo le caratteristiche del suo teatro: poiché non può mostrare direttamente e concretamente corpi, travestimenti e mutazioni, enfatizza l’eccesso, accumula un’incalcolabile quantità di sorprese ed eventi, parodizza i diversi generi letterari e crea una rigorosa impalcatura per sostenere la verosimiglianza di un mondo in cui le identità (e non solo quelle di genere) sfumano una nell’altra, e il tempo e lo spazio non rispondono alle leggi consuete.  La scrittura acquista così una rapidità bruciante, cui si arriva partendo dalla sostanziale immobilità del fumetto e dal vuoto dei suoi fondali bianchi, e passando attraverso il moto ben regolato della scena teatrale.

Quale che sia la forma scelta, come ci fa notare César Aira (“Copi”, Editorial Beatriz Viterbo 1991), Copi non manca di privilegiare il racconto e crea intrecci segnati da una violenza stilizzata fino alla comicità, dalla contraddizione, dal paradosso, dal gusto per il mostruoso e l’assurdo, fino a   costruire quella che il critico argentino Daniel Link definisce la proposta “di un’etica e di un’estetica trans: transessuale, transnazionale, translinguistica”. Un sovvertimento grandioso, che, continua Link,  mette in discussione categorie consolidate (maschile /femminile, uomo/animale, padrone/servo, sacro/profano) e postula la nascita di nuovi soggetti sociali, fuori da ogni classificazione.

Non a caso il più celebre tra i suoi personaggi teatrali venne affidato nel 1970 a un attore come Facundo Bo, interprete di un’Eva Perón vigorosa e sboccata che si inventa ammalata di cancro e fugge dopo aver ucciso una sostituta abbigliata e truccata come lei, perché il popolo abbia un corpo da venerare. La vita invece della morte, un uomo al posto di una donna: una scelta che fu considerata dai peronisti un affronto nato dalla storia politica della famiglia Damonte (Copi ricevette minacce di morte, il teatro parigino venne devastato), ma che forse intendeva  rappresentare la rottura di tutti i codici del potere maschile da parte di una figura femminile per nulla incline a essere mortalmente santificata .

Argentino che, come i connazionali Héctor Bianciotti, Néstor Perlongher, Osvaldo Lamborghini e Manuel Puig, sembra far parte di una diaspora omosessuale e intellettuale che non disdegna di adottare altre lingue – è stato così, almeno, per Bianciotti , divenuto addirittura accademico di Francia –, Copi scrisse quasi sempre in francese. Ma in quel francese riversò invenzioni personali, giochi di parole, incursioni in altre lingue (si veda lo sgrammaticato italiano del romanzo “Le bal des folles”), e infine l’anima stessa del lunfardo, dello spagnolo contaminato e “sporco” parlato dagli immigrati e portato in scena dal grotesco criollo, genere teatrale e popolare nato all’inizio degli anni ’20 e caratterizzato da un umorismo delirante, dalla caricatura, dal travestimento, la cui influenza sull’opera di Copi è innegabile e che verrà rivisitato in una delle sue ultime opere teatrali, Cachafaz, su una coppia sottoproletaria e omosessuale che uccide i poliziotti da cui è perseguitata e li trasforma in cibo per sé e per l’intero quartiere. Un impasto linguistico personalissimo, insomma, che unito a un sotterraneo ma indubbio rigore formale ha indotto più di un critico ad avvicinare Copi a un altro meraviglioso “inclassificabile”, il grande cuentista uruguayano Felisberto Hernández. Un accostamento suggestivo e sul quale si può discutere, ma che dimostra la crescente considerazione per un autore di assoluta modernità, capace di farci ridere “come chi è appena stato morso da un cobra”, e che andrebbe recuperato e valutato nella sua interezza.