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So da quando ero bambino che il mio destino è la letteratura

borges ocampo 2Dopo il resoconto del confronto con Néstor Sánchez, torniamo a parlarvi di Jorge Luis Borges pubblicando un estratto del suo epistolario con Victoria Ocampo, la storica fondatrice della rivista Sur. Il pezzo è uscito su La Nacion [1].

«So da quando ero bambino che il mio destino è la letteratura»
traduzione di Francesca Signorello

L’elemento caratteristico delle lettere rivelatrici che Borges invia a Victoria Ocampo sono gli accenni alla propria vita e alla propria opera, insieme ai biglietti che contengono il resoconto di uno dei suoi viaggi; il tratto distintivo della scrittrice, invece, sono i passi in cui controbatte alle accuse.

[Settembre-ottobre 1927 ca.]

Sono orgoglioso del nostro incontro, della sua sincera approvazione, e di aver suscitato in lei queste meravigliose puntualizzazioni sull’imprecisione della nostra lingua. O meglio, di tutte le lingue.

Io, meno fortunato di lei, penso di non riuscire a toccare la realtà con nessuna parola. Mi lascia indifferente il fatto che il segno, la cifra convenzionale usata per indicare quella cosa che vedo lassù in cielo, si pronunci moon oppure luna; l’aspetto negativo è che esistono segni chiusi, parole che distinguono la luna dal cielo in cui si trova e dalle terrazze al di sotto, dai suoni e dalle fragranze di cui era pervasa quando la vidi. La realtà non si trova in nessuna lingua: non sa nulla di verbi, sostantivi e aggettivi. Il francese mi sembra una lingua molto più organizzata dello spagnolo, più discreta, più unobstrusive – un’altra parola di cui abbiamo bisogno! – meno orgogliosa dei propri intrighi.

Qui chiudo con i miei ragionamenti e torno a esprimerle – con semplicità – la mia gratitudine. Se mai scriverò una pagina soddisfacente, prometto di inviargliela.

Jorge Luis Borges

 

[Ottobre 1941 ca.]

Cara Victoria,

le esprimo la mia gioia e la mia graditudine per la sua lettera. (L’ho ricevuta domenica, a causa di un piccolo anacronismo riguardante l’indirizzo: dal mese di gennaio vivo al numero 263 di calle Quintana). Pensavo che il mio articolo fosse un atto di buon senso; un collega, che è anche mio cognato (un frère est un ami donné par la Nature, un beau-frère est un Espagnol donné par la Nature), mi accusa già di arbitrarietà. Goethe dice che ha smesso di studiare Kant dopo qualche pagina, perché in nessun momento della lettura «si è sentito migliorato»; noi, Victoria, potremmo dire lo stesso del Chiosciotte o forse di Goethe. Il Martín Fierro mi commuove, ma come mi commuovono gli estilos o le milonghe: mi piacciono, ma non al punto da farmi perdere la consapevolezza di vivere in un mondo piuttosto piatto.

Penso che a brevissimo uscirà il mio libro di racconti fantastici, appunti su autori immaginari, eccetera eccetera. Mi sono ricordato della sua indulgenza per il genere poliziesco; quindi mi sono permesso di dedicarle un breve esercizio su questo genere terribile.

Qui, quasi tutto vecchio. Adolfito e io stiamo correggendo le bozze di un’antologia per Editorial Sudamericana.

Con rinnovata gratitudine, il suo

J.L.B.

 

 

[Aprile-maggio 1946 ca.] [Intestazione: Comitato Onorario delle Biblioteche Pubbliche Municipali]

La prego, Victoria, perdoni il mio ritardo. Ho qui alcuni dati che potrebbero esserle utili:

Sono nato nella città di Buenos Aires, nel 1899. Nella mia famiglia (come in tutte le famiglie di queste repubbliche) abbondano i destini violenti: il colonnello Francisco Borges, mio nonno, morì durante la rivoluzione del 1874; il mio bisnonno, il colonnello Isidoro Suárez, decise la vittoria di Junín e morì in esilio; un altro mio antenato, il generale Soler, fu al comando dell’avanguardia dell’esercito delle Ande (e ala sinistra dell’esercito argentino a Ituzaingó) e dedicò la sua vita a inestricabili intrighi e congiure, almost invariably unsuccessful; un altro ancora (Laprida) fu ferito da una lancia a Mendoza, eccetera eccetera. A questi morti (le cui spade e i cui ritratti erano conservati in casa) ho pensato molto: ora so che io sono infinitamente diverso da loro, e che mi sentirei a disagio a dialogare con le loro ombre. Mi sembra più importante il fatto che una mia nonna fosse inglese; e ancora più importante quello di avere trascorso la mia infanzia (e tutta la mia vita) tra i libri di Stevenson e di Dickens, di Kipling e di Edgar Allan Poe.

Ho viaggiato molto: Londra, Parigi, Ginevra, Lucerna, Zurigo, il sud della Francia, il Nord Italia, il Portogallo, tutta la Spagna (tranne le Asturie e la Galizia), l’Uruguay, una settimana in Rio Grande do Sul. Ignoro l’importanza di questa geografia: il mio ricordo più vivido di Lugano (1918) è la lettura appassionata delle visioni di De Quincey; quello più vivido di Madrid, certe discussioni con Rafael Cansinos Asséns.

Ho saputo fin da bambino che il mio destino è la letteratura. Ho imparato (e dimenticato) il latino; ho imparato il tedesco da autodidatta, e ora lo leggo senza troppo disagio. Mi vergogno di quasi tutto quello che ho pubblicato, tranne di alcuni esercizi fantastici e di certe osservazioni analitiche.

In questa nota (che lei, Victoria, saprà giustificare e analizzare) faccio a meno di date e avvenimenti. Io vivo, o cerco di vivere, in maniera impersonale: sono certo di essere cambiato pochissimo; di essere uguale (nella sostanza) a quello che sono stato e che sarò.

Riceva la perenne gratitudine e l’amicizia di

Jorge Luis Borges

Alcuni dati aggiuntivi:

nel 1922 fondai (con Eduardo González Lanuza, Francisco Piñero e Guillermo Juan) la rivista «Proa», dalle uscite irregolari e segrete; nel 1924 (con Ricardo Güiraldes, Brandán Caraffa e Pablo Rojas Paz) la rivista mensile «Proa», che durò un anno.

Ho pubblicato tre libri di poesie (il primo, Fervore di Buenos Aires – un bizzarro miscuglio di topografia e metafisica – è del 1923; l’ultimo, Quaderno di San Martino, del 1930). Al momento li sto revisionando, per vedere se di tre posso farne uno.

Con Silvina Ocampo e Adolfo Bioy Casares ho pubblicato un’Antologia della letteratura fantastica e una censuratissima Antologia della poesia argentina. (Gli editori la ribattezzarono Antologia poetica argentina).

A breve ne uscirà una terza, di racconti polizieschi. Quando il destino mi concederà qualche mese libero, scriverò un romanzo breve o un racconto lungo, che conterrà, in un certo qual modo, tutte le pagine della mia opera precedente. Si tratta di una narrazione allegorica: sarà ambientata nel 1899, a Buenos Aires.

Ho tradotto: dal francese, opere di Michaux e Gide; dall’inglese, The Wild Palms di Faulkner, A Room of One’s Own e Orlando di Virginia Woolf; dal tedesco, Die Verwandlung di Kafka e racconti di Martin Buber, Kasimir Edschmid, Gustav Meyrink, A. Ehrenstrim, eccetera eccetera.

 

 

Buenos Aires, 13 luglio 1953

Cara Victoria,

sfortunatamente le mie specializzazioni (le mie preferenze) non corrispondono a quelle expected in a Latin American writer. Al Colégio Libre de Estudios Superiores e presso l’Associazione Argentina di Cultura Inglese ho tenuto corsi sui classici nordamericani (Hawthorne, Emerson, Edgar Allan Poe, Whitman, Melville, Thoreau, Mark Twain, Henry James, Henry Adams), sulla letteratura inglese, sulle antiche letterature germaniche (gli anglosassoni, gli scandinavi, i tedeschi), sui pensatori presocratici, sul buddismo (better keep this dark), su Bernard Shaw, Yeats, Martin Buber e Kafka. Il 24 di questo mese comincerò un ciclo di seminari sul secolo XVIII in Inghilterra: Pope, Hume, Macpherson, Gibbon, Boswell e Blake. Non so se aggiungere che a Santiago del Estero parlai, davanti a un pubblico ebreo, di Mosés de León e della cabala. Inoltre, ho anche discusso di letteratura fantastica.

Negli Stati Uniti potrei parlare di letteratura spagnola e ispanoamericana. Ho una conoscenza passabile della prima e una buona di quella argentina. Con Adolfo Bioy Casares ho curato e commentato un’antologia di Quevedo (Quevedo: prosa y verso, Emecé Editores, Buenos Aires 1948) e un’altra dei poeti gaucheschi (Fondo de Cultura Económica, Messico). Forse potrebbero trovare interessanti il saggio, la poesia o la narrativa argentina. La ringrazio nuovamente per la sua bontà, cara Victoria. Con sincero affetto, il suo

Jorge Luis Borges

 

 

Austin, 11 ottobre 1961

Cara Victoria,

stiamo groping our way in questo bizzarro mondo nordamericano, in cui ogni cosa è leggermente diversa. Gli aborigeni sono pieni di buona volontà e cercano di aiutarci. L’Università è splendida; la biblioteca di questa casa di studi di provincia potrebbe accoglierne due di Biblioteche Nazionali. Sto iniziando i texani ai piaceri di Ascasubi e Hernández. A fine gennaio saremo di nuovo a New York. Qui gli alberi risvegliano in noi ricordi di San Isidro e, non mi fraintenda, Adrogué. Un doppio abbraccio, senza dimenticare la cara Angélica.

Sempre suo,

Georgie e Leonor

 

 

Austin, 30 novembre [1961]

Cara Victoria,

la nostra gratitudine per la sua lettera. La vita negli Stati Uniti ci aggrada e a volte ci sorprende, entrambi; al momento non ho nulla di bello o nuovo da raccontare sull’America, ma sono tormentato da una poesia che, non appena sarà definita del tutto, provvederò a inviarle. Lunedì 4 dicembre partiremo verso Ovest e io terrò alcune conferenze presso le università di Albuquerque (Nuovo Messico) e California (credo di aver letto che i pioneers incidevano sui loro carretti la scritta California or bust!). Le chiederei umilmente qualche timida notizia su una certa Antologia personale che ho lasciato da quelle parti. Con affetto ad Angélica e agli amici di Sur che si ricordano di me, con i miei auguri di Merry Xmas.

Un abbraccio,

Georgie

Ci scriva. Torneremo il 12. Il 20 gennaio partiamo per New York, la troveremo là, forse?

 

[Senza data]

Caro Georgie,

grazie a Leonor – che me l’ha prestato – sono sprofondata nella lettura (non in senso negativo) del Jorge Luis Borges di «L’Herne» (non so quale sia la parentela tra questa rivista e «l’hydre de Lerne»… mi suonano simili). Lei meritava senz’altro questo omaggio (tardivo) e molto altro ancora. Dico molto altro ancora perché non tutte le collaborazioni di questo numero sono all’altezza di cui parla José Bianco quando cita le sue collaborazioni con SUR, e il modo in cui esse squilibravano la rivista. Eppure in questa pubblicazione sono apparsi racconti, saggi e poesie dei migliori scrittori europei e americani contemporanei. Non si può dire che lei sia stato in cattiva compagnia.

Riguardo al livello non sempre altissimo delle collaborazioni di «L’Herne», comincio citando, in questa occasione, le mie stesse pagine. No so se rileggendole (io ne avevo inviate delle altre, ma loro, senza neppure avvisarmi, le hanno scambiate con alcune già pubblicate su «Cuadernos») mi sono parse peggiori di quanto ricordavo, forse per errori intrinseci a ogni traduzione, per quanto buona che sia. Temo che lei non condivida questa mia opinione, poiché l’ho sentita affermare che la traduzione di Ibarra di Il cimitero marino era migliore dell’originale di Valéry.

Dal mio punto di vista personale, mi sembrano necessari alcuni chiarimenti. Lei, come tutti, sa già che io sono molto egocentrica e parlo solo di me stessa (questo, perlomeno, è quello che mi ripetono sempre). Dice lei, nel suo dialogo con Ibarra, che rimase sorpreso nel vedere, nel primo numero di SUR, foto dell’Iguazú, della Cordigliera, della Terra del Fuoco e delle Pampas (plurale). Un vero atlante geografico. Allora se ne uscì dicendo che io volevo mostrare il nostro paese ai miei amici europei. Ma non è così. Volevo mostrarlo agli argentini. A me stessa. Questa terra dal clima e dalle caratteristiche così varie è la nostra, volevano dire quelle foto. Oggi su «La Prensa», «La Nación», eccetera eccetera, ci imbattiamo in continuazione in foto dei nostri paesaggi, compresi quelli delle piazze di provincia con i loro lampioni, le panchine e qualche rara pergola spoglia. Niente di tutto questo è destinato a occhi estranei, penso (e spero) io.

SUR, mio caro Georgie, è stato per me un costoso strumento educativo, lo tenga bene a mente. E prima ancora di dedicare le foto in questione al lettore sconosciuto (nostro eterno cliente), le dedicavo a me stessa, capisce? Questa qui è la tua terra, mi dicevano. Non dimenticarlo, ignorante.

Altro punto da chiarire: Adolfo Bioy Casares osserva che all’inizio della vostra amicizia, lei lo mise in guardia: «Se ha voglia di scrivere, non diriga né una casa editrice né una rivista». Mai fu dato consiglio più proficuo a un esordiente. Chi dirige (o chi lo fa indirettamente) una casa editrice o una rivista (non parliamo poi di chi, per colmo di sventura, si trova a capo di tutte e due le disatrose aziende) ne uscirà sempre perdente, se è uno scrittore. Il suo occuparsi e preoccuparsi di far conoscere altri scrittori finirà per generare in lui un’incapacità innata di scrivere. La sua fisionomia diventerà sfumata. Tutti quelli che pubblicherà saranno sempre scrittori, mentre lui sarà l’eterno editore o direttore di una pubblicazione più o meno fallita.

Eppure, questo lavoro sacrificato (quando non è lucrativo) porta con sé, a volte, qualcosa di utile. Per esempio, se nel 1939 la rivista SUR non avesse invitato Roger Caillois, autore giovane e sconosciuto, a tenere alcune conferenze a Buenos Aires, forse la traduzione delle sue opere, caro Georgie, avrebbe dovuto tardare ancora qualche anno. Si sarebbe trattato solo di un ritardo, non c’è dubbio. Lo avrebbe scoperto (per gli europei) un altro Colombo. Ma in questo caso, la scelta felice di SUR si rivelò proficua per la diffusione dell’opera di Jorge Luis Borges, argentino sconosciuto oltre oceano (malgrado io in persona abbia parlato parecchio di lui nelle capitali europee e statounitensi).

Sorvolo su un articolo in cui si raccontano incidenti connessi alla mia rivista (argomento che non ha nulla a che vedere con i suoi scritti, Borges). Lo sorvolo perché il suo autore non parla né con lealtà né in buona fede, e perché non si può essere smemorati fino a questo punto. Inoltre, in caso di amnesia, sarebbe bastato guardare i numeri di SUR. Lì si trovano tutte le dichiarazioni di cui l’autore dell’articolo ricorda solo quelle che gli fecero comodo in quell’occasione. È proprio buffo pensare che lei, nello stesso momento, firmò una violentissima dichiarazione contro il castrismo. Io non firmai. E se lei, in questa emergenza, avesse diretto una rivista, e nella sua redazione fosse successo quello che è successo a SUR, avrebbe dovuto dire qualcosa, come feci io, nella maniera più discreta e prudente possibile. Tutt’oggi sembra inverosimile che un segretario, o un caporedattore, avverta il direttore di una rivista dicendo che non tollererà più che quest’ultimo espliciti il proprio pensiero e l’orientamento della propria pubblicazione. O questo si chiama totalitarismo o io ignoro il significato della parola.

Non c’è altro, caro Georgie. Voglio ribadire che non mi piacciono le violenze del regime castrista (a causa di queste me ne sono allontanata) e che non approvo il razzismo nordamericano (di cui Kennedy non fu complice). Forse è un’utopia pensare che si possa cambiare il mondo con i metodi che usò Gandhi. Ma quest’ultimo è l’unico politico del nostro secolo che ho venerato fino in fondo.

Con ammirazione, la sua amica

Victoria Ocampo