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Charles Mingus, la rappresentazione del sé e l’autobiografia jazz / 2

Peggio di un bastardo [1], l’autobiografia di Charles Mingus [2], è di nuovo disponibile. Presentiamo la seconda parte di un saggio di Thomas Carmichael che rilegge il libro nel contesto della tradizione autobiografica afroamericana. Il saggio è stato pubblicato originariamente sul numero dell’autunno 1995 della Canadian Review of American Studies [3]. Ringraziamo la rivista e l’autore per averci accordato il permesso di tradurre il testo. Leggi qui [4] la prima parte.

di Thomas Carmichael
traduzione di Lorenzo Medici

L’autobiografia di Mingus si colloca in un momento particolare all’interno della tradizione della narrativa autobiografica afroamericana. Mingus iniziò a scriverla nel 1957, forse come reazione al successo dell’autobiografia di Billie Holiday, La signora canta il blues, pubblicata nel 1956. Al contrario del racconto stringato della Holiday, tuttavia, il manoscritto di Mingus crebbe fino a superare le mille pagine. La McGraw-Hill gli pagò un anticipo e annunciò che avrebbe pubblicato l’autobiografia nel 1963, ma poi si ritirò dal progetto perché, a sentire Mingus, «dicevano che alcune parti erano sconce».[1] [5] Il testo fu poi rivisto dalla sceneggiatrice Nel King e venne pubblicato da Knopf nel maggio del 1971. È importante ricordare questi dettagli bibliografici perché aiutano a inquadrare il testo di Mingus nell’appropriato contesto storico. Anche se è stato pubblicato nel 1971, infatti, Peggio di un bastardo viene dai tardi anni Cinquanta e dall’inizio dei Sessanta: segue La signora canta il blues, e – il che è più significativo ai fini della nostra analisi – è più vicino al naturalismo di Ragazzo negro (1945) e al modernismo di Uomo invisibile (1952) che non alle tendenze postmoderniste dell’opera di Ishmael Reed. Per Mingus l’identità non è una materia da sottoporre a parodia, né l’esperienza di un inevitabile rovesciamento, ma un problema scottante che ha a che fare con l’autenticità e le origini. In Peggio di un bastardo la questione dell’identità è sempre legata alla necessità di fare i conti con l’impatto psicanalitico di una sfera pubblica razzista; e nel caso specifico di Mingus il razzismo è indissolubilmente legato non solo alla sfera pubblica dominata dai bianchi, ma anche a un terrore edipico. Ricordando le botte prese dal padre, il narratore commenta così:

Probabilmente in quei momenti era un uomo malato – malato, frustrato da una vita passata in un ufficio postale, lui che aveva studiato per fare l’architetto, un uomo confuso sotto vari aspetti. Insegnava il pregiudizio razziale ai propri figli, diceva che loro erano migliori di altri perché avevano la pelle più chiara. […] Durante quelle discussioni mamma si guardava allo specchio e raccontava di quante volte l’avevano presa per messicana per via delle lentiggini, del naso sottile e dei piedi piccoli. Diceva di avere sangue indiano. Ma i bambini ricordavano che per papà i messicani e gli indiani erano dei pezzenti pidocchiosi, e si sentivano confusi.[2] [6]

Più tardi, mentre si guarda allo specchio, Mingus ritrova dentro di sé una moltitudine di ascendenze etniche:

[…] indiana, africana, messicana, asiatica, e una certa percentuale bianca, di cui suo padre si era sempre vantato. Lui voleva essere una cosa o l’altra, e invece era un po’ di tutto, senza essere niente di preciso: senza una razza, un paese, una patria, degli amici.
Così alla fine Charles si stirò i capelli e cominciò a frequentare gli altri bastardi: i pochi giapponesi, i messicani, gli ebrei e i greci della Jordan High School.[3] [7]

Ma il desiderio di Mingus di non essere altro da sé stesso trova compimento solo dopo aver fatto sesso con una donna afroamericana: allora, come ricorda il narratore, «per la prima volta Charles si sentì completamente accettato da una negra dalla pelle scura».[4] [8] Questo momento è emblematico del fatto che la richiesta di accettazione e identità in Peggio di un bastardo si intreccia inevitabilmente nel testo con il percorso del desiderio. Gran parte della narrazione di Mingus è occupata dalla sessualità e dal desiderio insaziabile, e passa dal racconto di quando fece sesso con ventitré donne (almeno secondo il suo conteggio) in un solo giorno in Messico, alla preoccupazione che fare il magnaccia sia solo un’espressione di dominazione e disprezzo di sé. Ma queste forme di desiderio trovano il loro posto in Peggio di un bastardo soltanto come modi per eludere il contratto autobiografico e l’interrogazione del soggetto.

Da un punto di vista formale la narrazione di Mingus occupa un posto inusuale rispetto alla tradizione della scrittura autobiografica: il testo è scritto infatti principalmente in terza persona, per quanto ritorni alla prima in alcune occasioni. Come ha fatto notare Philippe Lejeune nel suo lavoro sulla struttura del genere autobiografico, la terza persona è probabilmente la verità nascosta della scrittura autobiografica: «La prima persona maschera sempre una terza persona nascosta», e ancora: «[…] nell’autobiografia, l’“identità” è il fondamento della somiglianza».[5] [9] Un simile punto di vista non è incompatibile con l’affermazione di Paul de Man secondo cui la prosopopea è parte integrante della retorica dell’autobiografia (e per estensione di tutta la scrittura), o con la classica teorizzazione foucaultiana della funzione autore; tuttavia nel caso del testo di Mingus l’interpretazione di Lejeune dei contratti autobiografici in terza persona può aiutarci a collegare tra loro l’ambivalenza di Mingus nei confronti del jazz, la sua preoccupazione per il desiderio sessuale, i suoi problemi con l’identità etnica e le motivazioni del racconto autobiografico. Nel famoso incipit dell’autobiografia, il narratore rappresenta sé stesso come una serie di tre esperienze soggettive parzialmente sovrapposte:

In altre parole io sono tre. Il primo, sempre nel mezzo, osserva tutto con fare tranquillo, impassibile, e aspetta di poter raccontare ciò che vede agli altri due. Il secondo è come un animale spaventato che attacca per paura di essere attaccato. Il terzo infine è una persona gentile, traboccante d’amore, che lascia entrare gli altri nel sancta sanctorum del proprio essere e si fa insultare e si fida di tutti e firma contratti senza leggerli e accetta di lavorare per pochi soldi o anche gratis, e quando si accorge di cosa gli hanno fatto gli viene voglia di uccidere e distruggere tutto quello che gli sta intorno compreso sé stesso per punirsi di essere stato così stupido. Ma non può farlo, e allora torna a chiudersi in sé stesso.[6] [10]

Quest’analisi è presentata, significativamente, come parte di una discussione tra Mingus e il suo psicologo, e nella narrazione si ritorna spesso a queste sedute come se fossero il teatro delle esplorazioni autobiografiche di Mingus. Ma se il modo in cui Mingus parla delle dinamiche di questa esperienza frammentata riecheggia, almeno apparentemente, la teoria freudiana degli istinti dell’ego, la descrizione che Mingus fa del centro della sua esperienza di soggettività come spettatore puro, dotato di una voce propria e tuttavia stranamente deferente, sembra porsi in contrasto con l’esperienza vissuta così come viene effettivamente raccontata nel testo. In Peggio di un bastardo l’ «uomo nel mezzo» di Mingus – insensibile, puro osservatore – è essenzialmente un vuoto centrale, la mera esperienza di qualcosa che manca, mentre la parte attiva dell’esperienza frammentata che Mingus racconta, e che è rappresentata ovunque nel testo, è governata da un susseguirsi di minacce e rovesciamenti che rivela quello che Lacan chiamerebbe il «vero funzionamento» del soggetto. In Mingus, l’uomo «che sta sempre nel mezzo» è letteralmente un «effetto» del significante, che in termini lacaniani trova la sua vera collocazione nel campo dell’Altro e lungo il percorso di quel desiderio che continuamente mette in discussione la forma del soggetto. […]

In Peggio di un bastardo questo Altro assume molte forme diverse: l’altro culturale della tradizione musicale europea; l’altro di un’identità etnica e razziale che si rispecchia nell’esperienza vissuta del soggetto; l’altro del desiderio sessuale; e l’altro di un soggetto che a ogni livello si confronta con il suo rovesciamento. E proprio come Lacan sostiene che questa è semplicemente l’inevitabile esperienza del soggetto, così Philippe Lejeune direbbe – in un contesto leggermente diverso – che il rovesciamento del soggetto nel desiderio costituisce la verità del contratto autobiografico. Un’ulteriore complicazione viene dal fatto che il progetto autobiografico di Mingus deve includere il contesto culturale della celebrità. Nella misura in cui il testo di Mingus non è una semplice rappresentazione, ma si inserisce in quella tradizione letteraria che si propone di offrire uno sguardo rivelatore su un soggetto pubblico, sembra suggerire che questo soggetto pubblico vada incontro allo stesso, inevitabile destino a cui allude Michael Warner quando scrive che:

non importa quali peculiarità riguardanti la cultura, la razza, il genere o la classe sociale tiriamo in ballo nel discorso pubblico: il momento in cui prendiamo coscienza che qualcosa è di pubblico dominio è lo stesso in cui ci immaginiamo – anche se erroneamente – di essere indifferenti a quelle peculiarità: a noi stessi. Assumiamo l’atteggiamento del soggetto pubblico, rivelandoci la nostra non-identità con noi stessi.[7] [11]

Mingus cerca di riscattare questa non-identità del soggetto pubblico ritornando, nelle ultime pagine di Peggio di un bastardo, a raccontare una seduta con il suo psicologo in cui rievoca una conversazione avuta anni prima a Los Angeles con Fats Navarro, trombettista ed ex membro, al pari di Mingus, della band di Lionel Hampton. Da un certo punto di vista questa seduta con lo psicologo è un seguito ideale del primo capitolo, che si conclude appunto con un riferimento, subito interrotto, a Navarro: nella seduta successiva, che è per l’appunto l’ultimo capitolo del libro, questa fantasticheria su Fats Navarro viene portata a compimento. Questa connessione sembra alludere a una struttura ripetitiva, a una circolarità della narrazione; ma alla fine di questo testo – un po’ come alla fine di Canto di Salomone di Toni Morrison – l’inevitabile rovesciamento del soggetto nel circolo del desiderio trova una risposta nei discorsi di Navarro sulla morte, nei tentativi confusi di Mingus di dare un qualche tipo di ordine manicheo al mondo e nelle loro affermazioni congiunte sul potere dell’amore. Tuttavia, quest’affermazione del potere redentore dell’amore con cui si chiude il testo non è altro che un ritorno alla dinamica del desiderare e dell’esigere, che si rivela essere il motivo fondante e il centro vuoto di tutto il progetto autobiografico. Da questo punto di vista allora la discussione finale del libro, posta nel contesto di una seduta di psicoterapia, non riflette la metanarrazione psicanalitica della conoscenza di sé ma piuttosto il rovesciamento del soggetto come correlazione necessaria di quelle contraddizioni che per Mingus sono sempre presenti, a ogni livello della sfera sociale. Come notava Slavoj Žižek, infatti, possiamo collegare le deformazioni, le disfunzioni, gli antagonismi della sfera sociale con le esperienze del soggetto individuale solo se accettiamo che «tutti i fenomeni che appaiono alla coscienza borghese quotidiana come semplici deviazioni, deformazioni e degenerazioni contingenti del funzionamento “normale” della società (crisi economiche, guerre e così via), e che in quanto tali sembrano poter essere evitati grazie al perfezionamento del sistema, sono in realtà prodotti necessari del sistema stesso».[8] [12] Allo stesso modo, l’esperienza psicoanalitica di un sintomo è un’indicazione del vero funzionamento del soggetto.

Nel contesto dell’autobiografia di Mingus, allora, il soggetto frammentato e la narrazione in terza persona non sono stratagemmi anti-egemonici, ma piuttosto conferme della vera forza delle concrezioni contingenti del razzismo e dell’esclusione. Il patto autobiografico che dovrebbe considerare l’«identità» come una garanzia di somiglianza è, nel caso dell’autobiografia afroamericana e «jazz» di Charles Mingus, un patto che insegue le esigenze della somiglianza solo al fine di confermare un soggetto che non può rappresentarsi se non come mancanza, situato all’interno di un ambiente sociale in cui le contrapposizioni contingenti e le complesse affiliazioni e i disconoscimenti sono essi stessi semplici conferme delle inevitabili strutture dell’Alterità che ovunque si oppone al soggetto autobiografico, qui rappresentato dal segno del bastardo e dal nome proprio: Charles Mingus.

© Thomas Carmichael, 1995. Tutti i diritti riservati.

[1] [13] Brian Priestley, Mingus: A Critical Biography, Da Capo Press, New York 1982.

[2] [14] C. Mingus, Peggio di un bastardo, cit., pp. 28-29.

[3] [15] Ivi, p. 65.

[4] [16] Ivi, p. 95.

[5] [17] P. Lejeune, Il patto autobiografico, Il Mulino, Bologna 1986.

[6] [18] C. Mingus, Peggio di un bastardo, cit., p.7.

[7] [19] M. Warner, «The Mass Public and the Mass Subject», in B. Robbins, The Phantom Public Sphere, University of Minnesota Press, Minneapolis 1993.

[8] [20] S. Žižek, Il sublime oggetto dell’ideologia, Ponte alle Grazie, Milano 2014.