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Uno “scrittore raro” boliviano – Jaime Saenz

redazione SUR

Abbiamo già parlato del libro Los malditos , curato da Leila Guerrero, a proposito di Jorge Barón Biza e del suo romanzo El desierto y sus semillas.

Uno dei 17 autori raccolti nel volume è il boliviano Jaime Saenz, di cui si è occupato, non a caso, lo scrittore boliviano Edmundo Paz-Soldán. A seguire alcuni brevi testi che possono servire come primo approccio alla conoscenza di questo autore: una breve intervista a Paz-Soldán su Saenz, un brano dal suo blog, e una recensione di Raul Schenardi all’edizione italiana del romanzo Felipe Delgado (nell’impeccabile e ispirata traduzione di Claudio Cinti, Crocetti 2001) uscita a suo tempo su Pulp.

Intervista su Saenz di Paz-Soldán

traduzione di Raffaella Accroglianò

Edmundo Paz-Soldán ldán presenta in questo modo il maldito Jaime Saenz:

– Poeta e narratore boliviano (1921 – 1986), è oggi considerato lo scrittore più importante del paese del XX secolo. Da subito costruì la propria leggenda di scrittore maledetto sfidando, con la sua dedizione all’alcol, le convenzioni della classe media alla quale apparteneva. Due esperienze quasi mortali di delirium tremens, a principio degli anni Cinquanta, lo portarono ad abbandonare quasi del tutto l’alcol e a dedicarsi alla scrittura della sua opera, segnata da una ricerca costante di percorsi di comprensione dell’universo che non passassero dalla ragione.

Edmundo Paz-Soldán —autore tra gli altri di Palacio quemado, Norte e Bolaño salvaje— è parte dell’antologia Los malditos, curata da Leila Guerriero, per il profilo “Jaime Saenz, el visitante prófugo”. Il volume raccoglie la vita di 17 scrittori latinoamericani che furono acclamati per le loro opere e contemporaneamente denigrati dalla vita. In Eterna Cadencia ci proponiamo di ripercorrere il libro con brevi interviste a ciascuno degli scrittori che ne fanno parte.

– Perché Leila Guerriero ha proposto a te di scrivere su Jaime Saenz?

– Saenz non è molto famoso fuori dalla Bolivia e immagino che Leila abbia pensato che io, essendo uno scrittore boliviano, avrei potuto avere informazioni su Saenz o avrei potuto avere modi per arrivare ad avere informazioni importanti.

Scrivere il profilo quali difficoltà e sfide ha comportato?

– Vivo negli Stati Uniti e quindi non ho potuto fare lavoro sul campo, anche se la posta elettronica e il telefono mi hanno aiutato a stare in contatto con gli specialisti su Saenz. La principale sfida fu riuscire a far sì che il profilo trasmettesse le caratteristiche principali della sua opera. Non è stato facile, perché si trattava di concentrarsi sull’uomo e non fare analisi letteraria.

Qual è la caratteristica che fa di Jaime Saenz un “maldito”: il fascino per la mistica nazista, l’ossessione di comprendere cosa accade dopo la morte, le esperienze di delirium tremens?

– Fondamentalmente il rifiuto, nel suo modo di vivere e nel contenuto della sua opera, per tutti i valori accettati tradizionalmente dalla società del tempo. Saenz proveniva da un ambiente molto conservatore, la sua fu una presa di posizione così radicale che a molta gente molto composta costò discernere che dietro ai gesti provocatori e alle leggende ci fosse un poeta.

Come funziona la leyenda di Jaime Saenz che lo disegna come uno scrittore maledetto? La sua opera potrebbe essere ciò che è senza la vita che fece?

– Sono molti i poeti boliviani che sono stati affascinati da Saenz e che hanno modellato la loro forma di vita prendendo spunto dal suo esempio. Quello che non hanno fatto è seguire gli insegnamenti della sua opera, e si sono anche dimenticati che, dopo le sue esperienze di delirium tremens, Saenz, tranne alcune ricadute alla fine della sua vita, smise di bere. Fu un bohémien ma, soprattutto, lavorò molto alla sua opera; poteva trascorrere giorni interi scrivendo senza neanche dormire. La vita alimentò la sua opera, non possono essere scisse l’una dall’altra.

– Salta agli occhi che tanto Baron Biza quanto Rodrigo Lira e Jaime Saenz tapparono le finestre affinché non entrasse il sole: a cosa si deve questa ricerca di oscurità?

– È un gesto poetico molto simbolico. Tappare le finestre non è solamente spegnere la luce ma anche chiudere il passaggio alle convenzioni che trionfano di giorno: le buone abitudini, la ragione.

Da Boomerang, il blog di Paz-Soldán

La presencia de Saenz en el libro se encuentra plenamente justificada. Su obra poética no solo es una de las más inmensas de la poesía latinoamericana del siglo XX; su vida es un inventario de gestos provocativos contra la clase media de la que provenía, contra un tiempo que se le antojaba dominado por la razón. Nacido en La Paz en 1921, Saenz fue un ser torturado desde muy temprano; comenzó a beber a los quince años y a los veinte ya era alcohólico. Dos experiencias con el delirium tremens a principios de la década del Cincuenta lo llevaron al borde de la muerte y lo obligaron a dejar el alcohol y dedicarse plenamente a la escritura. Para Saenz, el alcohol era un camino de conocimiento que permitía acceder a un grado de conciencia superior, a un estado de revelaciones y una visión más profunda de la realidad. En La noche (1984), escribe: “La experiencia más dolorosa, la más triste y aterradora/ que imaginarse pueda,/ es sin duda la experiencia del alcohol./[…]/ Y tan atroz y temible se muestra, en un recorrido de/ espanto y miseria, que uno quisiera quedarse muerto allá”.

Una de las facetas más extrañas de Saenz es su relación con el nazismo, que descubrió durante un viaje a Alemania en 1939. Lo fascinaba el lado mágico, místico del nazismo; tenía una gran simpatía por el irracionalismo alemán. En la pared de uno de sus cuartos tenía la foto de Hitler y en una pizarra había dibujado una esvástica; creía que el nazismo era la última esperanza para detener el avance del capitalismo (que veía como una conspiración judía). Esa fascinación con el nazismo lo acompañó toda su vida, y estaba plagada de contradicciones: Saenz utilizaba ideas nacionalsocialistas sobre la importancia de lo telúrico para aplicarlas a Bolivia y creía que en la potencia de la raza aymara se encontraba el futuro del país (en su escritorio guardaba la foto de un indio aymara gigante).

A Saenz le gustaba visitar la morgue, pero su interés era más metafísico que morboso. Vivía de noche y dormía de día (tenía cartulinas negras en las ventanas de sus cuartos, para que no entrara la luz); era un ermitaño, pero no un antisocial: en su casa, por las noches, recibía a sus amigos, y la tertulia se convertía, en palabras de la poeta Blanca Wiethuchter, en una “larga conversación metafísica”, en la que imperaba el gran sentido del humor de Saenz. Estudió doctrinas teosóficas, leyó a místicos como Milarepa y llevó a cabo sesiones de magia negra en su cuarto: todo ello en procura de buscar caminos radicalmente diferentes a la racionalidad imperante. Esa búsqueda incansable fue plasmada en una obra que incluye entre sus cumbres a poemas como Aniversario de una visión (1960) y novelas como Felipe Delgado (1979). Falleció en 1986, ya canonizado con justicia como el escritor boliviano más grande del siglo XX.

Jaime Saenz nell’abbigliamento tipico dell’aparapita di La Paz

Jaime Saenz, Felipe Delgado

di Raul Schenardi

Se vi incuriosiscono gli autori eccentrici e le letterature periferiche, se amate la scrittura intrisa di poesia e non vi turba la presenza di un elevato tasso alcolico nelle pagine di un romanzo, spero non vi sia sfuggito Felipe Delgado, del boliviano Jaime Saenz (1921-1986), pubblicato l’anno scorso. Poeta lirico d’ispirazione neoromantica e di simpatie surrealiste, di contenuti ermetici e atmosfere oniriche, circondato da un’aura di “maledetto” per le sue abitudini da boéhmien e per le provocatorie dichiarazioni di simpatia per il nazismo (di cui, fortunatamente, non si trova traccia nella produzione letteraria), Saenz pubblicò questo romanzo nel 1979, suscitando in patria un forte impatto e interpretazioni divergenti. Questa biografia fittizia (forse sarebbe meglio dire autopsia) di un giovane della capitale boliviana negli anni ‘30 dispensa infatti in 700 pagine una materia densa, stratificata, che non si lascia ricondurre a schemi risaputi.

Alla morte del padre, Felipe comincia a dilapidarne l’eredità in una taverna (rovescio del mondo diurno, razionale), dove trascorre tutto il suo tempo con personaggi pittoreschi tra cui spicca l’esoterista Oblitas, immergendosi via via in una disperata ricerca di autenticità guidata unicamente dai suoi demoni interiori esacerbati dall’alcol. Né l’amore di Ramona, che presto gli viene strappata da una malattia, né l’interessamento di un amico del padre preoccupato per la sua salute mentale, che lo convince a lasciare la capitale per ritirarsi a vivere in campagna suo ospite, distoglieranno Felipe da un “programma esistenziale” che consiste nel lasciarsi vivere senza coltivare speranze e senza rifuggire dalla sofferenza, rifiutando il lavoro e qualsiasi attività che non sia una sorta di contemplazione nichilista, fino a scomparire misteriosamente. Ma l’alchimista Saenz combina con sapienza i suoi materiali, sviluppa episodi esilaranti, scolpisce figure a tutto tondo, e alla fine ci si rende conto di aver letto un inno alla vita.

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