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Gabo: la mia vocazione è raccontare storie

redazione Ritratti, SUR

In ricordo di Gabriel García Márquez, pubblichiamo oggi quest’introduzione scritta nel 1996 da Marco Cassini per il libro-intervista pubblicato nella collana “Macchine da scrivere” di minimum fax, che raccoglieva in piccoli libretti tascabili le famose conversazioni della serie “The Art of Fiction”, originariamente pubblicate sulla rivista letteraria americana The Paris Review.

di Marco Cassini

Gabriel García Márquez ottenne il Premio Nobel per la letteratura il 21 ottobre 1982, ricevendone notizia nella sua casa in Messico alle sei e cinque minuti del mattino, quando la moglie Mercedes, svegliata dallo squillo del telefono, gli passò la cornetta dicendo: «Ti chiamano da Stoccolma». Un anno più tardi, in occasione della consegna a William Golding del medesimo riconoscimento, Márquez ricordò: «Una voce maschile, in uno spagnolo perfetto con un lieve accento nordico, e che si presentò come redattore del quotidiano più importante di Stoccolma, mi disse che l’Accademia svedese aveva comunicato cinque minuti prima la notizia ufficiale».
Tutto questo successe a Márquez meno di due anni dopo aver pubblicato due divertenti articoli intitolati «Il fantasma del Nobel». In quegli articoli se la prendeva – come molti fanno in queste occasioni – con l’Accademia di Svezia che non assegnava il premio a questo o a quello scrittore, e ne faceva un po’ la storia stilando una curiosa statistica sulla “sopravvivenza” degli scrittori a questo premio sfortunato. Insomma, pare che chi riesca a vivere sette anni dopo aver ottenuto il Nobel, lo debba solo a un incantesimo o a una fortuna sfacciata. Il record lo detiene il poeta inglese John Galsworthy che, ricorda Márquez, «ricevette il premio nel 1932 e morì sessanta giorni dopo». Il nostro Carducci, nella speciale classifica di Gabo è buon secondo, con tre mesi di sopravvivenza. Sartre, che rifiutò il Nobel, disse una volta in un’intervista: «Mi sono salvato la vita». «Il fatto inquietante – conclude Márquez – è che morì sei mesi dopo averlo detto».

Ovviamente non è che qui importi tanto fare una previsione sulla futura longevità di Márquez, il quale con quegli articoli forse cercava più che altro di esorcizzare il fantasma della mala sorte – vista l’allora effettiva candidatura personale, ed essendo, per sua stessa ammissione, estremamente superstizioso (qualche esempio? Márquez non indossa il frac, non fa l’amore coi calzini ai piedi, non usa la parola ‘simbiosi’. E deve avere sempre dei fiori gialli sul tavolo da lavoro).
Il motivo per cui ho iniziato ricordando questo fatto curioso è invece un altro. Il libro che state leggendo contiene un’intervista a suo modo storica. È l’ultima intervista concessa da Gabriel García Márquez prima di ricevere il Premio Nobel. Forse per l’ultima volta in un articolo che parli dello scrittore di Aracataca non troviamo accenni al suo ingresso nel Gotha della letteratura mondiale. E anzi troviamo qui un personaggio a volte dimesso, quasi modesto, uno scrittore ben conscio di avere «milioni di lettori», che lo inibiscono perché «è come se milioni di occhi ti stanno a guardare e tu non sai cosa pensano», ma al tempo stesso convinto di dover continuamente lavorare per migliorarsi: dalle nove del mattino alle due del pomeriggio, ogni giorno, magari per scrivere un solo paragrafo. E quindi anche molto umano, con le sue umane debolezze, che lo portano a cercare «dei pretesti per lavorare meno». In ogni caso, uno scrittore che rifiuta come «un’assoluta catastrofe» la possibiltà che gli venga assegnato il Nobel. Ma che al tempo stesso spera di esserselo meritato, o almeno di meritarlo in futuro.

Questa intervista ha un’altra strana coincidenza. In un altro articolo, riportato nel suo Taccuino di cinque anni, Márquez fa una curiosa autodifesa nei confronti di quegli sfortunati giornalisti che vanno a intevistarlo. Quei poveretti che lo chiamano al telefono per dirgli che finalmente vogliono fare un’intervista che sia “qualcosa di diverso dal solito”. E per uno che ha “subìto” almeno un paio d’interviste al mese in ormai quarant’anni di attività (il suo primo romanzo, Foglie morte, risale al ’55), non dev’essere incomprensibile quel suo cedere alla speranza che questa sia veramente la volta buona. Il fatto è che – racconta Márquez in quell’articolo significativamente intitolato «Un’intervista? No, grazie»– alla fine quasi sempre questi incontri si rivelano una delusione. Tutti gli intervistatori «pensano che quella sia l’intervista della loro vita, e sono spaventati». E tutti «o diventano troppo compiacenti, o diventano troppo aggressivi». Insomma il povero scrittore si vede costretto a concludere la sua disamina sconsolata dicendo: «Dopo tanti anni di frustrazioni, continuo a sperare in fondo all’anima che arrivi finalmente l’intervistatore della mia vita».

Ecco, di tutta questa catastrofica vicenda, può essere consolante sapere che quell’articolo risale all’estate del 1981. Qualche mese prima, quindi, dell’intervista che Peter Stone, scrittore e collaboratore di molte riviste letterarie statunitensi, fece con l’autore di Cent’anni di solitudine nell’inverno di quello stesso anno. L’intervista, racconta Stone, fu fatta nello studio-ufficio di Márquez, che è un appartamento – originariamente era forse la stanza degli ospiti – separato dalla casa dello scrittore a San Angel Inn, una zona piena di fiori “spettacolari” a Città del Messico. Nella stanza c’erano due comode sedie, un frigorifero piccolo ma fornitissimo di acqua minerale, un grande divano al di sopra del quale faceva mostra di sé un ritratto di Márquez e, ovviamente, la scrivania. L’intervista si svolse in tre incontri, tutti di pomeriggio (la mattinata di lavoro è sacra per Márquez, mentre i suoi pomeriggi sono dedicati proprio agli appuntamenti di lavoro e alle interviste), con l’autore che parlava prevalentemente in spagnolo e Rodrigo e Gonsalvo – i due figli di Márquez – che si alternavano alla traduzione.
Il fatto che l’incontro ebbe luogo dopo quella sequela di “delitti” – descritti da Márquez come altrettanti attentati alla sua pazienza – portati a compimento da malcapitati intervistatori, lascia uno spiraglio alla speranza che lo scrittore non si riferisse a Peter Stone, inviato per quella occasione dalla storica rivista letteraria americana Paris Review (una rivista che deve la sua fama proprio alle interviste della serie “The art of fiction”). E del resto sappiamo che Márquez è abbastanza scrupoloso quanto alla diffusione di interviste e articoli che parlano di lui. E non tanto perché, come leggerete nelle pagine che seguono, diffida dei critici («per me sono il più grande esempio di cosa sia l’intellettualismo», e ancora: «si sono assegnati il compito di fare da intermediari fra l’autore e il lettore», mentre lui ha sempre «cercato di essere uno scrittore molto chiaro e preciso, nel tentativo di raggiungere direttamente il lettore senza aver bisogno di passare attraverso la critica»); quanto perché, come diceva invece in quell’articolo, «le interviste sono come l’amore: c’è bisogno di almeno due persone per farle, e vengono bene solo se queste due persone si vogliono bene. Altrimenti, il risultato sarà una sfilza di domande e risposte da cui può uscire un figlio nel peggiore dei casi, ma non uscirà mai un buon ricordo». Ecco perché, per esempio, Márquez concede le interviste “importanti” solo a persone che stima o che conosce da molto tempo o con cui si sente a suo agio: l’unico libro-intervista vero e proprio pubblicato finora era stato Odor di guayaba, una lunga, dettagliata intervista divisa per argomenti fatta dal suo amico di sempre Plinio Mendoza.

Márquez, poi, è uno di quegli scrittori che asseriscono che le interviste sono una forma di fiction. Anzi, per lui «l’intervista ha abbandonato da molto tempo i territori rigorosi del giornalismo per addentrarsi fra le giungle della finzione». Certo, c’è il rischio che qualcuno la prenda troppo alla lettera, questa storia della finzione, dell’intervista come invenzione letteraria. E che succeda quel che più di una volta è capitato a Márquez. Al quale sono state spesso attribuite affermazioni travisate quando non addirittura inesistenti: secondo una rivista spagnola il sogno della sua vita sarebbe quello di comparire sull’enciclopedia sovietica; a dar retta a un giornalista di Medellín, invece, Márquez – che gli aveva in realtà confidato la sua intenzione di richiedere la commutazione della pena per un colombiano che era stato condannato a morte negli Stati Uniti – avrebbe addirittura «capeggiato un movimento nazionale destinato a impedirne l’uccisione»; in un’altra occasione, la radio colombiana annunciò che, in un’intervista rilasciata all’emittente, Márquez aveva fatto sapere che non intendeva partecipare a una cena in suo onore organizzata per quella sera, e che fu pertanto annullata, mentre lui – ignaro di tutto – si presentò con la moglie sul luogo convenuto senza trovarvi nessuno. Ma non sempre, con queste interviste-fiction, le cose si sono messe male per lui. «A dire il vero – ebbe occasione di scrivere Márquez una decina di anni fa – la migliore intervista con me che sia mai stata pubblicata fra le innumerevoli che mi sono state fatte fu una inventata a Caracas». Ma in quella occasione lo scrittore, invece di protestare, si congratulò con l’intraprendente giornalista, «perché si trattava di una sintesi perfetta di quasi tutto quel che io avevo dichiarato alla stampa negli ultimi quindici anni, e tutto era organizzato e migliorato così bene e con tanta precisione e tanta intelligenza che mi sarebbe piaciuto averla fatta io in quel modo». E la questione non si ferma certo alle interviste: Márquez è arrivato persino a formulare l’ipotesi fantastica che ci sia un «mio altro io» al quale succede di partecipare a incontri e programmi radiofonici nei paesi più disparati del mondo, di essere avvicinato da persone che ricordano i bei tempi andati in cui, secondo loro, avrebbero avuto avventurosi fine settimana insieme nei Caraibi, di essere ringraziato da qualcuno a cui un inesistente fratello Humberto di Márquez avrebbe fatto chissà quali favori, addirittura di scrivere lettere di protesta a una compagnia aerea per il pessimo trattamento riservatogli in un viaggio che però Márquez non ha mai intrapreso. In una divertente cronaca ricordava: «Poco tempo fa, svegliandomi nel mio letto in Messico, lessi su un giornale che avevo tenuto una conferenza di letteratura il giorno prima a Las Palmas di Gran Canaria, dall’altra parte dell’oceano, e lo zelante corrispondente aveva fatto non solo una cronaca dettagliata della cerimonia, ma pure una sintesi molto suggestiva della mia esposizione… C’era solo un errore: io non mi ero trovato a Las Palmas né il giorno prima né nei ventidue anni precedenti». Insomma Márquez e il suo “altro io” non si incontreranno mai, «perché non sa dove abito, né come sono, né potrebbe immaginare che siamo tanto diversi. Continuerà a godersi la sua esistenza immaginaria, abbagliante ed estranea, col proprio yacht, con l’aereo privato e i palazzi imperiali dove fa fare il bagno nello champagne alle sue amanti dorate e sconfigge a suon di cazzotti i principi suoi rivali. Continuerà a nutrirsi della mia leggenda, ricco fino all’inverosimile, giovane e bello per sempre e felice anche nelle lacrime, mentre io continuo a invecchiare senza rimorsi davanti alla macchina da scrivere, estraneo ai suoi deliri e ai suoi spropositi, cercando ogni sera gli amici di tutta la vita per farci la solita bevuta e rimpiangere sconsolati l’odor di guayaba».
Certo, questi sono i rischi cui si va incontro quando si diventa un personaggio pubblico. Quel personaggio pubblico che Gabo è ormai consapevole di essere, con tutto il rammarico che questa consapevolezza comporta. «Detesto trasformarmi in spettacolo pubblico. Detesto la televisione, i congressi, le conferenze, le tavole rotonde…» aveva confessato a Plinio Mendoza nella sua intervista pubblicata nel 1982. E poi: «La cosa peggiore che può succedere a un uomo che non ha vocazione per il successo letterario, in un continente che non era preparato ad avere scrittori di successo, è che i suoi libri si vendano come hot-dog». E per concludere: «Il successo non lo auguro a nessuno. È come per gli alpinisti: si ammazzano per raggiungere la cima, e quando arrivano cosa fanno? Scendono o cercano di scendere con prudenza, con la maggiore dignità possibile». L’unica giustificazione che lo scrittore ha sempre dato per questa sua ritrosia alla partecipazione ad eventi pubblici è: «Non lo faccio per modestia, ma per qualcosa di peggio: per timidezza».
Ma, detto tutto questo, “il personaggio pubblico Gabriel García Márquez” non ha mai voluto dare smentite ufficiali alle voci false che gli sono state attribuite, non ha mai ringraziato per un elogio e non si è mai adirato per un’ingiuria. In un solo caso, unico e proprio per questo storico, Márquez intervenne pubblicamente per rispondere in merito a una questione privata: per rispondere alle due accuse infamanti che il governo del suo paese – in particolare il presidente colombiano Turbay Ayala – usò per argomentare la decisione dello scrittore di lasciare la Colombia con la moglie Mercedes, il 26 marzo del 1981. «La prima accusa è che me ne sono andato dal paese per dare maggior risonanza pubblicitaria al mio prossimo libro. La seconda è che l’ho fatto per appoggiare una campagna internazionale tesa a screditare il paese». In quella accorata difesa, fatta ancora una volta dalle pagine di un giornale, Márquez inanella una serie di frasi che nessun critico letterario e nessun biografo forse riuscirebbero ad usare per lui: «non ho nulla da nascondere, né mi sono mai servito di un’arma diversa dalla mia macchina da scrivere» oppure: «non mi sono mai guadagnato un soldo se non con la macchina da scrivere». E, quanto alla sua vita privata: «il mio merito maggiore non è aver scritto i miei libri, ma aver difeso il mio tempo per aiutare Mercedes ad allevare bene i nostri figli» e ancora: «mai, neppure lontanamente, mi sono permesso la superbia di scordare che sono uno dei sedici figli del telegrafista di Aracataca».

Insomma, sembra proprio che nulla sia più difficile che trovare una linea di demarcazione tra vita privata e vita pubblica, tra lavoro e affetti familiari. Così come – per tornare agli episodi legati alle dichiarazioni vere o inventate – realtà e finzione non possono non intrecciarsi. Si tratti di interviste, di romanzi, di vita.
E in uno scrittore come Márquez tutto questo sembra essere tanto più vero, quanto più ci si addentri nella sua narrativa in cui realtà e immaginazione diventano assolutamente indistinguibili. Lo stile che gli ha dato la fama, quella sorta di “epica del quotidiano” in cui anche l’evento più semplice riesce ad assumere una straordinarietà indimenticabile, nasce dalla narrazione orale, dalle storie che la nonna di Gabriel gli raccontava con la sua «faccia come un muro». Eppure, «non c’è una sola riga in tutto il mio lavoro che non abbia una base nella realtà». Márquez ricorda che scrivendo le storie che poi sono diventate i Dodici racconti raminghi «non ho avuto bisogno di domandarmi dove finiva la vita e dove cominciava l’immaginazione».

I continui riferimenti alla scrittura giornalistica di Márquez non sono certo casuali. L’intreccio fra realtà e finzione, la capacità di rendere credibile il fantastico e reale l’incredibile derivano a Márquez proprio dalla lunga militanza nei giornali, dalle numerose collaborazioni, dalla continua attività pubblicistica che corre parallelamente alla professione di scrittore per tutta la sua vita. Gran parte di questa intervista è basata proprio sul rapporto tra le due forme di scrittura, e sarà sorpreso il lettore appassionato delle storie di Márquez nello scoprire che l’autore non antepone affatto la narrativa alla pratica giornalistica, e anzi è proprio di quest’ultima che spesso si sofferma a tessere le lodi, in termini di laboratorio creativo nel quale la sua forte personalità di scrittore si è formata. Molto, infatti, è cambiato nello stile e soprattutto nel tono delle storie di Gabriel García Márquez – è l’autore stesso a ricordarlo in questa intervista – da quando ha imparato a raccontare avvenimenti inventati con una “voce da giornalista”, fino a creare una scrittura continuamente frammista a quegli «espedienti» da cronista che donano credibilità all’enunciato. E l’arricchimento è stato – afferma lo scrittore – reciproco: in Márquez giornalismo e narrativa si alimentano l’un l’altra di questo suo continuo passaggio di genere. State pur certi che non troverete mai, o quasi mai, Don Gabo in un corso di scrittura creativa o in un’aula universitaria di letteratura, ma sarà molto più facile vederlo alle prese con una dozzina di appassionati cronisti in uno dei suoi “talleres de periodismo”, i laboratori di giornalismo di cui si è fatto promotore in diversi paesi di lingua spagnola negli ultimi anni. E poi sarà molto facile fargli confessare che «mi dà sempre un grande piacere la possibilità di scrivere un buon pezzo di giornalismo».

Siamo al cospetto di uno scrittore che ha iniziato la sua attività come cronista e che, un po’ da scrittore un po’ da cronista, così ha raccontato, in un recente stage alla scuola per giornalisti di El País, i suoi inizi: «Ogni volta che passavo davanti al giornale, vedevo seduto a un tavolo un redattore, con gli occhiali appoggiati sulla punta del naso. Un giorno entrai e dissi: “Voglio lavorare qui”.
“Lei è giornalista?”, mi chiese.
“Sì, ho pubblicato dei racconti su El Espectador”, risposi.
“Ah… sì (li aveva letti), siediti e scrivi questa notizia”.
La scrissi. La lesse e cominciò a cancellare una a una le righe del testo, e a riscriverle da cima a fondo. Ebbi il buon senso di leggere quello che aveva scritto fra le righe. A poco a poco imparai, e presto cominciarono a esserci sempre meno correzioni. Alla fine, discutevamo insieme come andava fatta la notizia. Fu così che cominciai…»
Siamo di fronte a un autore che deve la sua fama al romanzo, ma la cui attività di scrittore è iniziata nel 1955 con il racconto-intervista di un naufragio pubblicato a puntate su un quotidiano e il cui ultimo libro, Los largos días del secuestro, è una cronaca in puro stile giornalistico. Certo, si tratta di uno stile giornalistico molto personale, uno stile per il quale «il reportage è il racconto di quello che è successo, un genere letterario assegnato al giornalismo per chi ha bisogno di sentirsi un narratore schiavo della realtà», o dove «il reportage è come una salsiccia: bisogna sapere quando comincia e quando finisce, se no continui a riempirlo di dati e non finisci mai». Uno stile in cui «non importa se si perde di vista la notizia, perché quando il lettore arriva alla fine della storia si ricorderà dell’inizio» e «l’intervista non è altro che un modo di raggiungere la verità per caso». Uno stile nel quale, come abbiamo imparato dalla lezione di Gabo, dati storici e dati narrativi si fondono fino a far perdere le rispettive identità.
Così come perdono identità definite le due professioni di Márquez, giornalista e scrittore. In un’intervista apparsa sul quotidiano La Repubblica, Márquez ha detto: «La mia vocazione è raccontare storie. E non c’è nessuno dei miei romanzi che non abbia una base nel reportage, nella realtà. È accaduto che il romanzo mi ha conquistato. Ma recentemente mi è venuta una grande nostalgia del giornalismo. Perché la realtà non mette a tacere la voce dello scrittore».
E quanto più ci andiamo convincendo che Márquez, insignito anche del Nobel, il più alto riconoscimento letterario che uno scrittore possa ottenere, sia e rimanga fondamentalmente uno narratore, tanto più ci faremo sorprendere da questa sua confessione-provocazione: «il mio vero mestiere è quello del giornalista».

Certo, pronunciata dall’autore di Cent’anni di solitudine, questa frase può sembrare più un vezzo o un tentativo di malcelata modestia che non una dichiarazione di teoria della (propria) scrittura. Ma chi ha letto i suoi articoli si rende facilmente conto di come, paradossalmente, un pezzo di sessanta righe – magari di cronaca sportiva o politica, quando non di puro gossip letterario – possa a volte sembrare, più che le quattrocento pagine ambientate a Macondo, la giusta misura in cui la creatività di Márquez si libera di ogni possibile vincolo e realizza dei piccoli gioielli indimenticabili. E si spiega così anche il particolare “attaccamento” di Márquez ai suoi scritti giornalistici, anche quando questi, per la loro stessa natura, sono destinati a vivere una vita ben più breve di un romanzo o di un racconto. Peraltro, a proposito della “mortalità infantile” dell’articolo giornalistico rispetto all’opera narrativa, proprio Márquez aveva detto altrove, circa alcuni dei suoi racconti, che sono «basati su fatti giornalistici, ma redenti dalla loro condizione mortale grazie alle astuzie della poesia».
Oltre alle questioni “affettive” nei confronti dei propri scritti, poi, non si può non considerare l’impegno – talora molto pesante – profuso nello scrivere articoli anche brevi: un paragrafo di poche righe può impegnare Márquez diverse ore, a volte giornate intere. Sono lontani i tempi in cui riusciva a scrivere tre o quattro editoriali ogni mattina per potersi poi dedicare alla narrativa la sera (e riuscire magari a completare un racconto nell’arco di una nottata di lavoro). Oggi, infatti, ammette tranquillamente di non riuscire a scrivere un capitolo di un romanzo che in parecchie settimane. E se si tratta del primo paragrafo, allora possiamo scordarci di vederlo uscire soddisfatto dal suo studio anche per mesi interi: «Ho passato molti mesi su un primo paragrafo», ha confessato a Peter Stone. «Nel primo paragrafo risolvi la maggior parte dei problemi del tuo libro. Definisci il tema, lo stile, il tono». E leggendo queste dichiarazioni non ci sfiora minimamente il dubbio che si tratti di una trovata di Márquez per rendersi più simpatico, addirittura più umano, agli occhi dei suoi lettori. Provate semplicemente a leggere l’incipit di Cent’anni di solitudine. Poi provate a scrivere qualcosa di altrettanto forte e misterioso. Oppure sfidatevi a cercare nella letteratura contemporanea un altro inizio di romanzo altrettanto suggestivo: «Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio».
È proprio vero, allora, quello che dice Márquez, che il primo paragrafo è un «assaggio di quello che sarà il resto del libro». E, potremmo aggiungere, quando si tratta del suo libro più famoso, per uno scrittore l’incipit può rivelarsi un assaggio non solo di quel romanzo, ma di tutta la sua produzione letteraria.

Molti degli argomenti di cui si è parlato finora hanno una chiara riprova nella premessa che lo stesso Márquez ha scritto per la sua raccolta Dodici racconti raminghi («Perché dodici, perché racconti e perché raminghi» è il titolo del brillante intervento, ma non solo questi tre piccoli misteri della sua scrittura Márquez ci svela in quel breve saggio): quanto la genesi della sua scrittura sia articolata, sofferta e a volte addittura casuale; quanto la letteratura sia parte integrante della sua vita e quanto, quindi, proprio tutto entri a far parte della sua narrativa, anche eventi della vita reale che a distanza di molti anni si trasformano in fiction; con quanta disinvoltura Márquez passi da un genere all’altro di scrittura (perché in fondo “tutto è scrivere”).
I racconti in questione sono stati scritti nell’arco di diciotto anni, e hanno avuto una gestazione che – se si vuol credere che quanto ci racconta Márquez sia tutto vero e non sia una sorta di finzione nella finzione – «merita di essere raccontata». Alcuni di quei racconti erano nati come articoli di giornale, altri come sceneggiature cinematografiche, uno addirittura era originariamente un serial televisivo; «un altro lo raccontai quindici anni fa durante un’intervista registrata, e l’amico cui l’avevo raccontato poi lo trascrisse e lo pubblicò, e adesso l’ho riscritto a partire da quella versione», altri ancora sono storie riprese da sogni fatti in passato. Ricorda esattamente su che tipo di quaderno aveva preso appunti per anni, per non lasciarsi sfuggire possibili argomenti per racconti che un giorno, prima o poi, avrebbe scritto; ricorda la terribile odissea di quel quaderno, fino alla sua misteriosa sparizione, alla quale seguirono sconforto profondo e una estrema dedizione per recuperare nella memoria l’angolo in cui quelle idee erano state riposte; ci parla persino dei sopralluoghi fatti per controllare se le città in cui le storie erano ambientate fossero mutate col passar degli anni. Márquez ci regala questo racconto nel racconto con un tono rassicurante ma dimesso, come per dire che in fondo chiunque può diventare scrittore, mettendoci però in guardia: e premette di voler raccontare questa esperienza «anche solo perché i bambini che da grandi vogliono diventare scrittori sappiano fin d’ora quanto è insaziabile e corrosivo il vizio di scrivere». Insaziabile e corrosivo al punto di non voler mai smettere di scrivere, di considerare ogni versione di un racconto migliore della precedente, e di continuare incessantemente a scrivere nel tentativo di migliorarsi. «Il resto è il piacere di scrivere, il più intimo e solitario che si possa immaginare, e se uno non rimane a correggere il libro per il resto della vita è perché lo stesso rigore di ferro di cui c’è bisogno per cominciare si impone per finirlo». A questo proposito, sembra proprio che Márquez abbia il vizio di correggere e riscrivere i suoi libri decine e decine di volte, fino a quando il suo agente letterario non non si vede costretto a strappargli il manoscritto di mano, quasi con la forza («un libro non si finisce, lo si abbandona», ha più volte confessato l’autore). Insomma, se non è facile fare lo scrittore, non dev’essere facile neanche fare l’agente letterario di Gabriel García Márquez, anche se qualche piccola soddisfazione Carmen Balcells se l’è meritata, come la curiosa dedica posta all’inizio di Dell’amore e di altri demoni («Per Carmen Balcells bagnata di lacrime»). E come la descrizione che ne fece in un articolo del 1982, dove scrisse: «Non parlo mai di denaro con gli editori e i produttori cinematografici, perché ho un agente letterario che parla per me meglio di me; primo, perché è una donna, e poi, perché è catalana».
E chissà quante soddisfazioni s’è tolte invece chi, come Márquez, è riuscito a fare del proprio mestiere una fonte inesauribile di grande piacere; nel ’92 infatti dichiarò: «A tratti mi sento scrivere per il puro piacere di narrare». E, verrebbe da aggiungere, per il puro piacere di usare la macchina da scrivere. Se è vero quello che Márquez ha detto recentemente circa il computer («Se avessi avuto prima il mio Macintosh, avrei scritto cento libri di più, e cento volte più belli»), c’è da considerare che all’epoca in cui fu pubblicata questa intervista sulla Paris Review, i computer non erano così diffusi come ora, e comunque non in casa Márquez, per cui non appaiono mai citati in questa conversazione e in molti altri scritti di Márquez, dove è sempre citata invece la macchina da scrivere. Lo scrittore colombiano, infatti, per lunghi anni, e prima di passare all’uso del word processor, ha riempito molte colonne giornalistiche parlandoci del suo rapporto con la macchina da scrivere. «Ai miei tempi giovanili di reporter scrivevo a qualsiasi ora e con una qualsiasi delle macchine paleolitiche delle redazioni dei giornali… In seguito ebbi la sventura di conoscere la macchina elettrica che non solo era più fluida, ma che sembrava pure mi aiutasse a pensare, e non sono più riuscito a usare una macchina normale». L’approccio col computer, quindi, sembrava già allora una tappa obbligata, per uno scrittore che ama essere facilitato nel suo mestiere; e visto soprattutto il fatto che Márquez, per sua stessa ammissione, scrive solo con due dita: «Noi scrittori a macchina lo facciamo con gli indici, taluni cercando la lettera sulla tastiera, così come le galline frugano nel cortile in cerca di lombrichi nascosti». Insomma Márquez ammette senza il minimo rammarico che «è ormai difficile scrivere altrimenti, e la scrittura meccanica finisce per diventare la nostra autentica calligrafia».

Comunque, poco importa che i suoi libri siano stati scritti a mano, con una macchina da scrivere meccanica o elettrica o col computer. Quel che davvero fa piacere sentir dire a uno scrittore è che non c’è cosa più bella dello scrivere. E che «non c’è atto di libertà individuale più splendido che sedermi a inventare il mondo davanti a una macchina da scrivere».

 

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