Brazilian writer Daniel Galera

«Mezzanotte e venti» di Daniel Galera

Daniel Galera Autori, Racconti, SUR

Barba intrisa di sangue è in tutte le librerie. Per conoscere meglio l’autore, il brasiliano classe 1979 Daniel Galera, pubblichiamo oggi un estratto da «Mezzanotte e venti». Il brano è uscito originariamente sulla rivista letteraria Freeman’s. Scrittori dal futuro, che propone una lista di ventinove fra poeti, saggisti, romanzieri e scrittori di racconti che nell’attuale clima di chiusura ed esclusione sono riusciti a guardare al di là delle barriere di identità nazionale, età o genere cui la loro opera verrebbe normalmente ascritta, per rivendicare il diritto a fare della scrittura uno strumento di comunicazione globale.

La rivista ha cadenza annuale e viene pubblicata in Italia per i tipi di Black Coffee, che ringraziamo per la concessione.

di Daniel Galera
traduzione di Leonardo Taiuti

Il repentino impulso a provocare la distruzione del mondo trovava origine nella puzza di merda che aleggiava sui marciapiedi, nei fumi che si levavano dai cassonetti della città, nello sciopero degli autobus e nel generale senso di impotenza calato su Porto Alegre insieme all’ondata di afa che l’aveva investita a gennaio. Tuttavia, ammesso che sia possibile individuare un prima e un dopo, uno spartiacque tra la vita che verosimilmente avrei dovuto condurre e quella che invece ho vissuto, tale spartiacque è stato scoprire che Andrei era stato ucciso la notte precedente, in una rapina a mano armata vicino all’Hospital de Clínicas, a pochi isolati dalla zona in cui stavo camminando, nei pressi di Rua Ramiro Barcelos. Quando lessi la notizia su Twitter, mi fermai così di colpo che il piede destro, fradicio di sudore, mi scivolò nel sandalo facendomi torcere male la caviglia, cosa che a sua volta mi fece inciampare e cadere sul marciapiede rovente, con il braccio sinistro ridicolmente teso verso il cielo per proteggere il cellulare.

A poca distanza da me una senzatetto rovistava in un cassonetto, china oltre il bordo come uno struzzo con la testa infilata nella sabbia, le gambe nere e i piedi nudi che spuntavano dalla gonna pieghettata del vestito rosa. Mi udì gemere, così scivolò giù dal cassonetto, chiuse il coperchio e si diresse verso di me. Io intanto mi ero già messa in ginocchio e mi stavo sistemando il cinturino del sandalo. Mi chiese se stessi bene, offrendomi il suo aiuto, e solo allora mi resi conto che era un travestito, con sottili peli ricci sulle cosce e sulle braccia scolpite. Risposi che stavo bene, grazie dell’interessamento, avevo soltanto bisogno di stare un po’ seduta. Mentre mi accomodavo sulle scale dell’edificio più vicino, lei mi osservava con grande curiosità, dando l’impressione di volersi rendere ancora utile, ma mantenendo prudentemente le distanze. Il suo bel viso era come ricoperto di uno spesso strato di glassa lucida e il sorriso, colmo di denti dritti e bianchissimi, appariva ben più innaturale del modo in cui i vestiti le ricadevano sulle forme. Le assicurai che stavo bene e non insistette, si allontanò in direzione di Avenida Osvaldo Aranha, sculettando leggermente come una ragazza in bikini che cammina verso la piscina in casa di certi amici del fidanzato.

Provai a muovere la caviglia sperando di non essermi strappata qualche tendine. Avevo paura di riguardare il cellulare e avere conferma che Andrei si era beccato un proiettile ed era morto, a trentasei anni, calcolai, ricordando che ne aveva tre più di me. Lo scalino su cui mi ero seduta era cosparso di fiammiferi usati. Il pensiero che potesse averli accesi l’assassino di Andrei, un tossico pronto a uccidere per procurarsi una dose, mi provocò un brivido lungo la schiena, seguito da un violento attacco di nausea. Dietro le orecchie spuntarono gocce di sudore, che scivolarono giù, lungo il collo. Mi chiesi che diavolo fosse successo a quella città in mia assenza, una domanda ridicola, visto che fino a pochi minuti prima era la stessa di sempre. Forse accadde allora, in quegli attimi di perplessità, che si radicò in me la consapevolezza che il nostro tempo non è altro che un lento e inesorabile cammino verso la catastrofe, e che qualsiasi sia la forza o l’entità che ha alimentato le nostre speranze – intendendo con «nostre» le mie, quelle dei miei amici, della mia generazione – ora sta per svanire.

Erano due anni che non tornavo a Porto Alegre. Me la ricordavo come una città spaziosa e variopinta, eternamente sospesa in una luce ambrata e primaverile, adorna di cieli azzurri e alberi di ipê dai fiori viola nel Parque da Redenção: un ricordo indubbiamente reale che tuttavia mi rimandava a un passato incerto e irriconciliabile con il presente. Per tutta la settimana la città, rimasta coperta da un tappeto di sporcizia, arrostita dalle radiazioni della più inclemente estate degli ultimi decenni, mi aveva ricordato un malato di cirrosi abbandonato al suo destino sotto il sole. Veicoli e persone giravano alla larga dalle strade in quel trentuno gennaio, tra le vacanze estive e l’approssimarsi del Carnevale; lo sciopero degli autobus, che ormai paralizzava la città da cinque giorni di fila, era l’ultimo colpo di coda di un’onda di letargia che ormai inghiottiva ogni cosa. Gli operai della periferia sbraitavano ai microfoni del telegiornale perché non avevano modo di andare a lavorare e i capi trattenevano la paga. I Jitney, gli scuolabus autorizzati a circolare dal sindaco per le emergenze, e certi scalcinati autobus clandestini sferragliavano lungo le corsie preferenziali deserte, stracarichi di gente che rischiava in continuazione un colpo di calore. Strombazzando i tassisti diffondevano anarchia a loro piacimento, sovraeccitati dall’overdose di passeggeri, e alcuni facevano pagare la tariffa notturna in pieno giorno semplicemente perché potevano.

Il tassista che, alcuni giorni prima, mi aveva portato dall’aeroporto all’ospedale dove era ricoverato mio padre, mi aveva detto che il Tribunale del Lavoro aveva giudicato lo sciopero illegale, ma che agli scioperanti non importava un accidente e che il blocco della circolazione dei mezzi pubblici non sembrava destinato a finire in tempi brevi. Gli autobus che si azzardavano a uscire dal deposito venivano presi a sassate da quelli del sindacato. Gli autisti litigavano tra loro e con i loro capi, accusati questi ultimi di aver provocato l’impasse chiedendo al governo di alzare i prezzi dei biglietti (cosa che il governo non si sognava neanche lontanamente di fare, non in quel momento, a pochi mesi dalle proteste del giugno 2013 che, grazie anche a una violenta repressione della polizia, avevano avuto l’effetto di annullare il rincaro dei biglietti in tutto il Paese). Mentre tutto ciò accadeva, le piante seccavano al sole, di primo mattino sembrava di stare nella foresta pluviale e di pomeriggio i termometri del centro salivano oltre i quarantacinque gradi. L’acqua sgorgava calda dai tubi. Non tiepida. Calda. Bollente, quasi. In varie zone della città mancavano sia acqua che corrente elettrica a volte per ore, giorni addirittura. Chi viveva in periferia se la passava ancora peggio, ovviamente, e iniziavano a comparire i primi blocchi stradali e autostradali in segno di protesta verso tanta negligenza. I senzatetto se ne stavano tutta la mattina raggomitolati vicini, all’ombra, su letti di cartone, immersi in un improbabile sonno di supplica, gli occhi socchiusi. Desideravo farci il nido, su quei gradini, e dormire anch’io nel loro stesso modo.

Riguardai il cellulare, che mostrava ancora la storia dell’omicidio di Andrei Dukelskij presa dal sito del giornale Zero Hora. Lessi l’articolo, bagnando lo schermo dell’iPhone con il sudore della mano. Secondo la ragazza, una certa Francine Pedroso, Andrei era andato a correre verso le nove e mezza di sera, portando con sé soltanto le chiavi di casa e il telefono, che poi era stato rubato dai suoi assassini. Non c’erano testimoni, nonostante il luogo dov’era avvenuto il delitto fosse molto trafficato, anche di sera. «Una delle voci più promettenti della letteratura brasiliana contemporanea» era l’onore che l’articolo gli conferiva. «Il Duca, come lo chiamavano gli amici». C’era già un hashtag, #AddioDuca, per riunire le manifestazioni di affetto e incredulità di amici e lettori sui social media. Non trovai il coraggio di andare a vedere.

Andrei e io non ci frequentavamo più tanto. L’avevo visto l’ultima volta qualche anno prima, a San Paolo, nel corso dell’ultimo firmacopie del suo tour, o se non altro l’ultimo di cui avessi avuto notizia. Aveva smesso di aggiornare Twitter e, come notai poco dopo, aveva chiuso anche l’account Facebook. Eravamo molto più stretti quindici anni prima, all’università, quando scrivevamo insieme sulla nostra fanzine, Orangutan, e ci scambiavamo riflessioni che in seguito riconoscemmo come prova della nostra profondità intellettuale. Mi aveva fatto leggere Camus, João Gilberto Noll, Moby Dick. Provai a immaginare dove fossero in quel momento gli altri collaboratori della fanzine, specialmente Emiliano, che da quando vivevo a San Paolo mi mancava più di tutti. Ricordavo ancora il momento in cui avevo visto Andrei per la prima volta, nel cortile della scuola di giornalismo: fumava come se lo facesse da quando era in fasce, deciso e serio come un judoka, con una stempiatura che presagiva una calvizie precoce. Indossava sempre belle camicie bianche e azzurre, e si presentava nei locali in completo, una stravaganza per un giovane universitario alla fine degli anni Novanta. Aveva sempre le unghie lunghe e sporche e, ammettiamolo, non emanava un buon odore. Il Duca non smise mai di essere un mistero, per noialtri. Tra i suoi amici, ma soprattutto tra noi dell’Orangutan, c’era una sorta di tacita gara a capirlo, a conquistarsi la sua fiducia, a diventare il suo confidente. Ma il Duca non si apriva mai con nessuno. Neanche leggere i suoi racconti e romanzi aiutava a svelare l’enigma. Per come la vedevo io, nascondeva qualcosa perfino nella scrittura, come aspettando chissà quale futuro lontano, in cui si sarebbe ritrovato pronto a scrivere tutto quanto.

Il funerale nel cimitero ebraico di Rua Oscar Pereira, proseguiva l’articolo, sarebbe stato chiuso al pubblico. Niente veglia, in accordo con la tradizione ebraica. Me ne stavo lì, seduta sui gradini di un palazzo residenziale, ansiosa di sentirmi sopraffatta dal torpido sonno dei senzatetto, ma pensavo al corpo di Andrei riverso sul marciapiede a cinquecento metri da lì, al suo sangue secco che doveva aver lasciato delle macchie sulla pietra, ormai misto al piscio dei cani e ai liquami che colavano dai sacchetti della spazzatura, e mi sorpresi a pensare, contro la mia stessa volontà, che magari era stato risparmiato, che forse dopotutto era stato fortunato, sfuggito com’era a un destino terribile, qualcosa con cui tutti avremmo dovuto invece imparare a fare i conti.

Mi ricordai all’improvviso di avere nella borsa i cerotti alla nicotina di mio padre. Cercai di concentrarmi, spensi lo schermo del cellulare, mi alzai e mi rimisi in cammino verso Avenida Ipiranga. Una colonna di fumo nero si levava dalla massicciata di cemento che conteneva il fiume Dilúvio e, mentre attraversavo il ponte, vidi due ragazzini vestiti di stracci chini su un fuocherello scoppiettante, dove probabilmente fondevano cavi di rame da vendere alla discarica. Il Dilúvio, ridotto a un torrentello, serpeggiava tra i cumuli di sabbia esposti al sole, ma nei pochi punti in cui era profondo si vedevano banchi di pesci nuotare nell’acqua di scarico grigia, polposa. Dall’altra parte del viale, dove si estendeva il quartiere Santana, in un minuscolo isolato di Rua Gomes Jardim fatto di micro case con le verande nascoste dietro giardini bisognosi di un po’ di cure, vicino a una vetreria e a una vecchia macelleria che da bambina mi aveva sempre spaventata a morte, c’era la casa dei miei genitori, per i quali il mondo – in termini di salute e longevità – era più vicino alla fine di quanto non fosse per me.

E per mio padre il mondo era quasi finito davvero. A sessantasei anni aveva avuto un infarto e si stava ancora riprendendo dal bypass. Quando, otto giorni addietro, il cellulare mi aveva svegliato prima dell’alba nel mio appartamento di San Paolo, l’operazione era già cominciata. All’altro capo del filo mia madre sembrava più arrabbiata che spaventata. I dettagli me li aveva forniti più tardi mio padre in persona, uscito dalla terapia intensiva. Dopo aver cenato con un panino salame e formaggio, consegnato in motocicletta dal fattorino della sua tavola calda preferita, e dopo aver guardato la televisione bevendo due bicchieri di Campari e acqua tonica, e aver fumato con l’abituale voracità, si era addormentato per poi svegliarsi in piena notte con un bruciore e un lieve dolore al petto. Aveva fatto due passi in soggiorno e, visto che il dolore non passava, si era deciso a fare un salto al pronto soccorso. Non aveva considerato necessario disturbare il sonno leggero di mia madre, perciò era salito in macchina e aveva guidato fino all’ospedale Mãe de Deus, vittima di un infarto di cui non si rendeva conto, fumando Marlboro Light con un braccio fuori dal finestrino e l’altra mano sul volante della sua Honda Fit Automatic, ascoltando forse i Simply Red su Rádio Continental, certo di essere afflitto da costipazione o qualcosa del genere. Appena menzionato il dolore al petto al medico del triage, gli era stata controllata la pressione e l’avevano portato di corsa in cardiologia. Poco dopo era in sala operatoria.

Ero arrivata in ospedale con valigia e zaino alla mano, e l’avevo visto solo al termine del giorno successivo all’operazione. Stringeva forte un cuscino mentre tossiva muco sotto gli occhi di mia madre. Era disorientato e chiedeva in continuazione se fosse giorno o notte. Quando gli avevano tolto il lenzuolo per eseguire dei controlli, il suo corpo nudo mi era parso incredibilmente bianco e avevo pensato che non era possibile che quello fosse il colore di mio padre, che lui era più scuro di così. Gli avevano tolto troppi liquidi, aveva una carenza di sangue, era chiaro che qualcosa non andasse. Avevo distolto lo sguardo, immaginando che si vergognasse della situazione. Da parte mia provavo repulsione nel vederlo così debilitato. Riverso sul letto d’ospedale alla mercé di sonde e aghi, lo sterno ricucito con un filo d’acciaio che sarebbe rimasto anche quando il resto del corpo fosse diventato polvere, era l’emblema non solo della sua morte, ma anche della mia. Quei macabri pensieri avevano iniziato a recedere sullo sfondo solo quando l’avevano spostato nella sua stanza. Aveva riacquistato il buonumore e scherzava dicendo che ora il suo inutile corpo era a mia disposizione per svolgere esperimenti, che era arrivato il momento di donarlo alla scienza.

Avevo risposto che per la mia ricerca non mi serviva niente, a parte semi di Arabidopsis e canna da zucchero, ma che un mio amico all’università studiava gli effetti delle sigarette e della carne lavorata sul corpo dei vecchi cocciuti, e forse avrebbe trovato interessante la sua carcassa. Erano passati a trovarlo alcuni miei colleghi dell’università e dei liceali dell’istituto dove insegnava letteratura e portoghese, e anche un terzetto di studenti che lo avevano in grande stima. L’avevo sorretto ogni volta che voleva fare un giro in corridoio, e lui si lamentava delle ultime ossessioni della mamma, dell’interventismo economico del governo federale, della pedagogia permissiva della nostra epoca e degli studenti che pensavano gli fosse tutto dovuto, sempre guardandomi con la coda dell’occhio per valutare le mie reazioni a ciò che stava dicendo. Dopo cinque giorni di ospedale l’avevano mandato a casa, dove il suo umore era precipitato. A volte scoppiava a piangere e ci guardava perplesso, dicendo che non sapeva perché stesse piangendo mentre le lacrime gli colavano lungo le guance. Insisteva a farsi la doccia in piedi, si medicava le ferite da solo e si dedicava agli esercizi di respirazione che gli aveva prescritto il fisioterapista. Aveva ancora molti anni davanti, pensavo, magari ne sarebbe uscito più forte di prima, o almeno quanto bastava a vedere il mondo deteriorarsi lentamente fino alla propria fine.

La mattina in cui seppi della morte di Andrei ero uscita a comprargli dei cerotti alla nicotina. Papà voleva una marca specifica che non era così facile da trovare e, dato che non c’erano autobus, ero dovuta andare in una farmacia di Bom Fim. Ero rientrata a casa vispa come una malata di malaria. Mio padre dormiva, perciò lasciai il sacchetto con i cerotti sul tavolo in sala da pranzo e andai in cucina. Riempii un bicchiere di cubetti di ghiaccio e tè freddo, piazzandomi sotto il getto del condizionatore. Il vecchio e consunto divano aveva un odore tutto suo, che sovrastava quello delle rose e dei gigli che la mamma teneva sul tavolo, in un vaso. Per me quello era l’odore degli acari. Da piccola avevo scoperto che esistevano grazie a un articolo sulle malattie respiratorie e da quel momento avevo associato l’odore del divano a un esercito di quelle creaturine, che immaginavo si fosse infilato nella trama ruvida dei cuscini. L’articolo era corredato di un’immagine di alcuni acari visti al microscopio: sembravano olive verdi con le zampe posate su gomitoli di spaghetti grigi. Avrò avuto nove o dieci anni, e all’epoca gli acari avevano scatenato una vera e propria fobia nelle case di tutto il Brasile. I miei, seguendo l’esempio del resto del Paese, avevano fatto installare in tutte le camere da letto dei filtri per l’aria simili a robot di latta. Ascoltavo il mormorio meccanico dei filtri e immaginavo gli acari che venivano masticati, un massacro perpetrato da minuscoli ingranaggi. Che ne era stato di quei filtri? Ormai nessuno faceva più caso agli acari. «Quattro paia di zampe e un paio di palpi» dissi fra me, ricordandomi un frammento di uno dei libri di biologia che leggevo e rileggevo da bambina. Erano i tratti distintivi degli aracnidi, la classe che comprendeva acari, ragni e scorpioni. Mi piaceva pronunciare quella frase, l’allitterazione e il suono quasi comici mi ricordavano un verso di qualche canzone per bambini. A volte mi ritrovavo a canticchiarla, mentre asciugavo i piatti, facevo la pipì o me ne stavo davanti al computer a lavorare a un articolo.

Mi ripetei quelle parole in testa, come un mantra, mentre sorseggiavo il mio tè e il sudore mi si seccava sulla pelle. Andrei era morto. L’ansia che mi aveva assalita in strada non accennava ad andarsene, al contrario, sentivo che mi penetrava dentro in maniera irreversibile, come acqua avvelenata nel terriccio. Guardai il bicchiere che tenevo in mano, immaginai di trasformarlo in centinaia di schegge sparpagliate ovunque, e mi parve di scorgere un che di perverso e irrispettoso in quel bicchiere che se ne stava lì, intatto. Era come se fosse cosciente di essere un bicchiere, qualcosa che non aveva alcun diritto di essere. Lo strinsi forte: volevo romperlo e allo stesso tempo non volevo. Era un impulso simile alla tentazione che a volte coglie qualcuno di stritolare un cucciolo.

Percepivo il fatto di vivere a trentatré anni con i miei, seppur con l’attenuante dell’imprevisto che per poco non aveva ammazzato mio padre, come un passo indietro. Adoravo tutto di quella casa, ma questo non era sufficiente a liberarmi di un certo senso di disagio. Distolsi lo sguardo dalle foto incorniciate di Tatuíra, il nostro defunto bastardino con il suo manto tigrato, e guardai le viole nei loro vasi in cucina, poi la collezione di volumi di ricette con il dorso sbiadito. Vidi nella mente la doccia che sputava fuori aria quando ci lavavamo, l’enorme libreria di mio padre ingombra di letteratura, i libri che la mamma lasciava impilati sul pavimento del capanno dietro casa in cui lavorava alle sue illustrazioni, la stanza degli ospiti che ancora conservava le sciocche vestigia dei tempi in cui fungeva da cameretta di una figlia unica: un poster che ritraeva Johnny Depp e Winona Ryder in Edward mani di forbice.

La familiarità di quel luogo intensificava la mia paura di aver lasciato sguarnito un confine strategico molto lontano da lì, di aver scoperto il fianco all’attacco di chi voleva portarmi via la mia vita. Ero indietro con il pagamento dell’affitto del mio appartamento di San Paolo, più della metà delle lampadine di casa erano fulminate e la mia ricerca sui ritmi circadiani della canna da zucchero si era impantanata in un’insignificante lite, grazie alla quale non ero riuscita a superare gli esami per accedere al dottorato. Avrei potuto ripeterli ad aprile, e avevo fatto attenzione a prenotarmi per un giorno in cui il professor Cesar, la mia nemesi, sarebbe stato costretto a mandare un sostituto. Questo mi avrebbe garantito il successo, ma tremavo di rabbia e ansia ogni volta che ripensavo all’umiliazione cui quel verme mi aveva sottoposta. Ero certa di essere stata vittima di comportamenti scorretti da parte dei professori della facoltà, ma perseguire quella strada sarebbe stato controproducente. Se solo avesse voluto, Cesar avrebbe potuto annientarmi.

Strinsi il bicchiere con così tanta forza che le dita diventarono bianche. Mi chiesi cosa sarebbe successo se avessi semplicemente abbandonato tutto. Se non fossi tornata, se mi fossi data alla macchia in Uruguay e fossi rimasta lì ad ascoltare l’eco distante degli spasmi finali della civiltà. Il senso di colpa e di sconfitta mi avrebbero seguito fin nella tomba. Versione uno: avrei provato una sensazione di libertà che non avrei mai immaginato potesse esistere. Versione due: la domanda era se, oltre le lenti miopi della vanità umana, le nostre ambizioni diventavano veramente ingiustificate, futili e trascurabili, come in segreto a volte sospettavo.

Allentai la stretta sul bicchiere risucchiando gli ultimi cubetti di ghiaccio e lo posai sul tavolo. Dovevo fare qualcosa per sfuggire a quel vortice d’ansia. Poi mi ricordai qual era stato il mio passatempo preferito in quella casa da bambina, ovvero sfogliare i libri da cui traeva ispirazione mia madre: tomi illustrati di zoologia, botanica e anatomia. Uscii dalla porta sul retro, in cucina. Il caldo, anche solo nei pochi secondi che impiegai ad arrivare al capanno, mi aggredì con tale violenza che mi chiesi se condizioni del genere non fossero ostili alla vita umana. La fragilità dell’uomo era patetica. Milioni di anni di evoluzione avevano prodotto creature del tutto inadeguate all’ambiente che le ospitava, un fatto reso evidente dalle sofferenze che pativamo in carenza di cibo o per i più insignificanti mutamenti di temperatura: una vulnerabilità umiliante a ogni sorta di condizione atmosferica, all’esposizione alla materia fisica e ad altri organismi, per non parlare dell’ancora più umiliante vulnerabilità della nostra mente dinanzi a sciocchezze quali l’ansia o la speranza. Eravamo semplicemente inadatti alla natura. Veniva da sé che volessimo distruggerla.

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