Conversazione con Abelardo Castillo (I parte)

redazione Interviste, SUR

Abelardo Castillo (San Pedro, Buenos Aires, 1935) è narratore, drammaturgo, critico e poeta. Con oltre sessanta racconti all’attivo, quattro romanzi e quattro pièce teatrali, senza contare gli innumerevoli articoli e prefazioni, Castillo è uno degli scrittori attualmente più conosciuti in Argentina. Fin dagli anni Sessanta, Abelardo Castillo si è imposto non soltanto come uno degli scrittori più innovativi del panorama letterario argentino, ma anche come figura chiave nel dibattito ideologico-culturale dell’epoca. Fu, infatti, direttore di tre delle riviste letterarie più importanti del paese («El grillo de papel» 1959-60, «El escarabajo de oro» 1961-64, «El ornitorrinco» 1977-86) a cui collaborarono personalità del calibro di Julio Cortázar, Ernesto Sábato, Miguel Ángel Asturias, Héctor Tizón e Carlos Fuentes. Fra le sue opere principali, Cuentos completos (Alfaguara) e i romanzi El que tiene sed (Emecé, 1985), Crónica de un iniciado (Emecé, 1991), El evangelio según Van Hutten (Seix Barral), unico testo tradotto in italiano (Il Vangelo secondo Van Hutten, Crocetti, Milano 2002). Abbiamo diviso questa lunga intervista in due puntate, questa è la prima. Buona lettura.

di Elisa Montanelli

Abelardo Castillo, prima che uno scrittore, è un appassionato lettore. Come il personaggio di Villari nel racconto La calle Victoria, non ha nessun pudore nel confessare di vivere la realtà attraverso le letture, e le seguenti interviste ne sono la prova concreta. Durante queste conversazioni, con la sua voce grave e l’atteggiamento austero, Castillo fa rivivere in quel soggiorno tappezzato dai libri i suoi scrittori più amati, regalando loro, per qualche ora, una vita fatta non di pagine ma di aneddoti veri. Una volta, uno dei suoi tanti intervistatori fu costretto a fermarsi ed esclamare: «Signor Castillo, lei parla di Poe in un modo che non mi stupirei se stasera lo chiamasse al telefono…». E in effetti la sensazione è stata proprio quella di trovarmi di fronte a un uomo che, illudendosi di parlare con me, stava in realtà conversando con i suoi maestri, con i suoi personaggi, con tutto quello che rappresenta la sua letteratura.
Chi pensa di trovare in queste interviste soltanto osservazioni di carattere letterario si accorgerà, invece, di essere davanti alla trascrizione di un fiume in piena che non ha bisogno di farsi fare domande per inondare il suo interlocutore. Nei tre incontri, avvenuti a Buenos Aires a casa dell’autore nel novembre 2006, io e Castillo abbiamo parlato di storia, di politica, di riviste culturali, degli anni Sessanta, di Cuba, dell’Italia, dell’Argentina e, soprattutto, di letteratura.
Un’ultima precisazione: Castillo vive da una decina d’anni in calle Hipólito Yrigoyen 2316 in una casa de altos con tre balconi, a pochi isolati dal Congreso de la Nación. Nel racconto La calle Victoria, Villari incontra una vecchietta che gli chiede indicazioni per calle Victoria 2300, dove c’è una casa de altos con tre balconi. Castillo mi confida che si tratta della stessa casa e della stessa strada, poiché calle Yrigoyen in passato si chiamava davvero calle Victoria. Si sa che non esiste nessuno più mentiroso di uno scrittore, tuttavia mi piace pensare che la sua piccola confessione di quel giorno corrisponda alla verità: La calle Victoria è stato scritto prima che Castillo si trasferisse in quella strada, prima che sospettasse anche soltanto l’esistenza di quella casa. Alla domanda se la letteratura sia «un destino o una elección», forse possiamo azzardare che per Abelardo Castillo sia stato un destino, o come ama dire lui stesso «una manera de vivir».

Conversazione del 14 novembre 2006

Elisa Montanelli: Lei ha affermato molte volte che i suoi racconti appartengono a un solo “libro incessante” e infatti le sue raccolte comprendono testi dagli anni Sessanta a oggi. Concepisce la sua opera come un cammino in evoluzione, per quanto riguardo ad esempio i temi?
Abelardo Castillo: In genere, uno scrittore tende a considerare il suo ultimo libro il migliore, è come un atto incantatorio, come per illudersi che nell’ultima opera si sta dicendo qualcosa che prima non avevamo detto. Io non credo molto in questa cosa, così come non credo di conoscere le mie chiavi tematiche. Le conosco attraverso il lettore, il critico. Quello che so è che ho una marcata ossessione per le situazioni limite, come la morte, il crimine, la gelosia, la pazzia e so anche che i miei personaggi maschili hanno sempre una debolezza per le giovani donne. Questo però non succede solo nei miei libri: Horacio Quiroga lo mise in pratica sposandosi con una compagna di classe di sua figlia[1] e Nabokov è un caso archetipico. Un’altra costante che posso individuare riguarda i miei personaggi femminili i quali sono solitamente più intelligenti, più astuti, più misteriosi o più profondi. Questo sì, lo posso spiegare. La donna, per me, è come il ponte fra l’intelletto maschile e una realtà molto più profonda, è come un accesso a un certo tipo di conoscenza a cui l’uomo, incollato al suo codice logico, non ha generalmente accesso. Ma, chiaro, è solo una deduzione di carattere poetico. Non so, invece, perchè le coppie delle mie storie vadano sempre a finire male, sono sempre relazioni incompiute, o perchè l’uomo abbandona la donna o viceversa.

EM: Ma c’è, in qualche modo, una deriva verso il fantastico nelle ultime opere?
AC: Ho sempre scritto racconti fantastici, ma non devi dimenticarti che io appartengo alla generazione del Sessanta. Negli anni Sessanta, in Argentina, e in tutta l’America Latina, scrivere racconti fantastici era come un atto di tradimento alle grandi cause libertarie dell’epoca. Io sono sempre stato, lo sono e sospetto che lo sarò fino alla morte, un uomo di sinistra e ho pubblicato tre riviste letterarie molto schierate. Il fatto è che la teoria del compromesso dello scrittore con la realtà e la letteratura fantastica davano l’impressione di non stare in buoni rapporti, quindi i miei racconti fantastici quasi non si pubblicavano, anche se già in Las otras puertas ci sono storie come Mis vecinos golpean, che è al confine con il fantastico, Volvedor che è nettamente un racconto fantastico o Historia para un tal Gaido. Tuttavia, il peso della raccolta ricade sui racconti realistici e in Cuentos crueles non c’è un solo cuento fantastico, sono tutti realistici, come testimonianza del clima culturale e ideologico degli anni Sessanta. Io direi che il fantastico mi gira intorno da quando cominciai a scrivere.  Ho cominciato a scrivere molto giovane e ho sempre scritto racconti fantastici, soltanto che li ho sempre “rimandati”. Una storia come El tiempo de Milena, per esempio, che è la più recente, mi perseguitava in qualche modo da trent’anni. La storia di una ragazza che appare nella vita di un uomo, lei senza crescere e lui che invecchia, è una storia che ho sempre avuto in testa, così come molti altri scrittori hanno storie in mente che scrivono dopo tanto tempo o che finiscono di scrivere molto tardi. Per esempio, El congreso di Borges è pubblicato nell’ultimo libro, El libro de arena, ma è una storia che Borges già annunciava negli anni Cinquanta e che invece ha pubblicato nel ’75. È un testo di una ventina di pagine, ma all’inizio pensava di scrivere un testo molto più lungo. È, insomma, una storia che lo perseguitò sempre ma che non scrisse mai fino alla vecchiaia. Io direi che in certi scrittori non c’è uno sviluppo preciso nel senso di un progresso, ci può essere un’involuzione, questo sì, può darsi che man mano che uno scrittore invecchia diventi sempre più stupido e che la sue produzioni siano sempre meno memorabili (ride). Ma noi prendiamo il caso di una non-involuzione: Thomas Mann, per esempio. Thomas Mann scrive il Doctor Faustus, che è probabilmente uno dei romanzi capitali della letteratura del XX secolo, per me un modello di quello che potrebbe essere la chiusura di tutto un concetto di letteratura, la scrive intorno ai settant’anni, nonostante pensi di non poterla terminare. Non solo termina il Doctor Faustus, ma termina anche I Buddenbrook , un’opera che aveva cominciato da giovane, e l’idea del Doctor Faustus è nella testa di Thomas Mann dai tempi de I Buddenbrook, ossia da quando aveva una ventina d’anni. Quindi, direi che ci sono scrittori che non crescono nel senso tradizionale del termine, di cui non puoi individuare tappe come con i pittori. Anche Poe, per esempio, io non potrei dirti quali sono i primi o gli ultimi suoi racconti, non potrei stabilire una cronologia, e questo vale anche per le poesie. Pochissimi poeti raggiunsero l’abilità che Poe raggiunse in To Helen (e questa non è una frase mia ma di Mallarmé), una poesia che scrisse quando aveva quattordici o quindici anni ispirata alla madre di un suo compagno. Questo componimento continua a essere di un’intensità lirica così grande da poterla paragonare alle migliori poesie di Rilke. E, salvo che l’età non ti annulli e ti renda totalmente deficiente, non credo nel progresso o in un certo tipo di crescita dello scrittore. Quello che può accadere è che, attraverso la pratica e l’esperienza, tu possa terminare da adulto o da vecchio un’opera che avevi concepito, ma che non potevi scrivere, in gioventù.

EM: Rimanendo sul genere, La que espera[2] è un racconto che definirei “del limite”, un fantastico cortazariano. Quanto ha inciso Casa tomada di Cortázar nella stesura di questo racconto? L’idea della coppia, forse incestuosa, dei fratelli che vivono soli nella stessa casa, senza mai sposarsi…
AC: Per niente. Io credo che pesi molto il fatto dei fratelli, ma in realtà l’ispirazione l’ho avuta da un fatto di cronaca letto sul giornale. Una donna, in Italia, viveva non so se con suo fratello, come ho scritto io, o con il marito o il figlio, fatto sta che l’uomo fu creduto morto in guerra, ma lei non ci credette mai e continuò a preparargli la tavola, il letto e i vestiti come se fosse vivo. Tutti dicevano che era pazza, ma dopo molti anni – molto più di tre come dico io nella storia, io metto tre anni perchè sia il più verosimile possibile – quest’uomo tornò. Questa è la notizia, l’uomo non era morto e la donna aveva avuto ragione.

EM: Però la donna nella realtà non lo uccise…
AC: No, appunto. Quando lessi la notizia, pensai che in realtà, a quel punto, la storia non terminava, ma cominciava. Che cosa fa ora questa donna che per anni aveva organizzato la sua vita intorno a un’assenza, a un’attesa e a una speranza che finalmente si compie? È ora che diventa pazza, non era pazza quando lo aspettava, ora è pazza perchè la realtà irrompe nella sua vita e tutto quello che era stata la ragione della sua esistenza, ovvero preparargli il letto, la cena e il camino, si è rotto. La realtà irrompe e ora la vita della donna non ha più senso. A questo punto mi sono chiesto: che cosa potrebbe succedere ora? Potrebbe ucciderlo, forse. In realtà, se non mi sbaglio, nella notizia si parlava di una madre che non aveva creduto morto il figlio, ma io, in Argentina, non potevo assolutamente scrivere una storia su una madre che aspetta un figlio desaparecido, perchè questa storia si sarebbe contaminata con la situazione politica attuale. Avrebbe potuto essere letto come un emblema delle Madri di Plaza de Mayo, il cui motto è la reaparición con vida dei loro figli. Quindi, pensai che se qualcuno avesse letto il racconto come simbolo di un desaparecido e di una madre in attesa del ritorno del figlio e che poi deve ucciderlo per continuare ad aspettarlo, si sarebbe trasformato in un racconto fascista. Per questo li ho fatti diventare fratelli, ma non credo che abbia niente a che vedere con Cortázar, per di più i fratelli che avevo in mente io erano due fratelli reali che conobbi quando vivevo a San Pedro. La differenza è che, in Cortázar, il peso non ricade sulla fratellanza dei due, ma sulla casa che viene pian piano occupata. È un racconto fantastico che si può leggere politicamente o come vuoi tu, dove, che siano fratelli o che siano una coppia, è esattamente la stessa cosa e sarebbe la stessa cosa anche se si trattasse di una persona sola. L’importante in Cortázar è che la casa viene occupata da qualcosa che il lettore non capirà mai, ma avrebbe funzionato anche con un solo personaggio. Il mio racconto, invece, con un solo personaggio non avrebbe funzionato perchè è la storia di un’attesa. Quindi, no, non ha niente a che vedere con Casa tomada. Inoltre, c’è una mania di riferire la letteratura di uno scrittore a quella di un altro scrittore, che a volte è giusta e ha senso, mentre a volte è puramente una comodità. La verità è che Cortázar non ebbe il tempo di influire sulla mia letteratura, mentre ha influito Borges, è evidente, Robert Arlt e anche la letteratura straniera. Quando conobbi Cortázar, intorno agli anni Sessanta,quando pubblica per la prima volta in Argentina – io scrissi la prima recensione de Las armas secretas – in realtà qui non era conosciuto. Cortázar cominciò a essere conosciuto qui nel ’63, quando pubblica Rayuela, che si converte in un boom mondiale, e lui diventa il padre del rinnovamento della letteratura latinoamericana. Quando lessi Las armas secretas, io non avevo idea di chi fosse Cortázar. La sua fama in Argentina cominciò con la rivista El escarabajo de oro, quando noi iniziammo a pubblicare i suoi racconti. Sentii di aver scoperto in qualche modo il grande cuentista argentino, ma a quell’epoca io avevo già scritto El otro Judas, Israfel, Las otras puertas da cima a fondo e stavo già scrivendo Cuentos crueles. Considera che il racconto più recente de Las otras puertas, Macabeo, è del ’60 e io leggo il libro di Cortázar in quello stesso anno, e molto tempo dopo si pubblicarono in Argentina i suoi libri anteriori. Addirittura, nel prologo di una mia raccolta, un critico segnala la somiglianza fra Historia para un tal Gaido, il racconto del personaggio che uccide l’autore, con Continuidad de los parques di Cortázar, dove il personaggio uccide il lettore, ma  Historia para un tal Gaido è anteriore al racconto di Cortázar, che per altro pubblicammo noi in rivista, e ricordo perfettamente – dovrei avere ancora la prima lettera di Cortázar – di avergli mandato alcuni miei cuentos fra cui Historia para un tal Gaido, che avevo scritto nel ’57, e lui mi stava mandando – la  corrispondenza avveniva per nave, non via internet… – alcuni testi suoi fra cui Continuidad de los parques. Quello che non capisco è come fanno i critici a non intuire che la prosa è totalmente borgesiana, c’è la piena influenza di Borges, che non negherò mai e di cui mi sento molto orgoglioso, perchè credo che finalmente abbiamo uno scrittore che può essere considerato a pieno titolo il fondamento della nostra letteratura. Ce ne sono pochissimi in Argentina, abbiamo Sarmiento, Hernández, la generazione dell’Ottanta e quella che io considero la santissima trinità della prosa argentina, ossia Marechal, Arlt e Borges, in qualsiasi ordine. E, tornando a Historia para un tal Gaido, la influenza reale e diretta è Pirandello, il personaggio che va alla ricerca dell’autore.

EM: Instancabile, mi risparmia il gusto di fargli domande e segue.
AC: Quello che ci insegnò Cortázar, per lo meno quello che insegnò a me, è che si poteva essere uno scrittore di sinistra pur scrivendo racconti fantastici. E quando aderisce alla Rivoluzione Cubana – Cortázar proveniva dalla destra, dalla rivista Sur, da una destra abbastanza evidente, cominciò a essere di sinistra dopo il ‘63 – anche se non fu mai un intellettuale di sinistra, perchè la sua era una sinistra più “emotiva” che teorica, non rinunciò mai alla sua letteratura fantastica. E addirittura tenne una conferenza che noi pubblicammo nella nostra rivista, che si chiamava Algunos aspectos del cuento, ma che noi ribattezzammo El cuento en la Revolución, dove difendeva il racconto fantastico, anche in un momento di lotta politica così acuto come quello che stava vivendo Cuba. Questo mi fece sentire autorizzato a scrivere racconti fantastici e a continuare a “maneggiare” il mio mondo onirico, o il mio mondo reale, pur stando a sinistra. Qui sì, più che l’influenza, c’è l’insegnamento di Cortázar, ma dal punto di vista letterario non ebbi tempo di sentire la sua influenza per quello che ti dicevo prima, per un fatto di tempo.

EM: Parliamo un po’ della storia argentina. Questo paese ha vissuto anni critici e di terrore e, recentemente, nel 2001, ha passato una crisi disastrosa. Come si riflette tutto questo nella sua prosa? Per citare uno dei suoi ultimi racconti, il protagonista di El desertor[3] a un certo punto pensa: “La Argentina es un país sin nada donde todo el mundo quiere tenerlo todo”.
AC: Per gli europei e per i non argentini, il 2001 è l’anno della crisi, ma in realtà la crisi è permanente, solo che nel 2001 esplode. E ti dirò di più, la crisi non è assolutamente finita. Sylvia, poco fa, è scesa a comprare un paio di scarpe a una bambina che vive per strada con i genitori cartoneros[4], perchè va sempre scalza. È un angelo quella bambina… E tutto questo a mezzo isolato da casa mia e quattro dal Congreso de la Nación. Quindi, non è che la crisi sia stata una novità. Tutti, in Argentina, sapevamo che la crisi esisteva, così come oggi sappiamo di vivere in questa perenne crisi. Siamo in momento illusorio di miglioramento che in qualsiasi istante può arrestarsi. Ora, riguardo a El desertor, penso di averlo scritto nel 2004 o 2005, poco prima dell’uscita del libro, solo che lo ambiento prima del 2000. Come accadeva sempre a Gide, le mie storie sono sempre in ritardo, perchè le concepisco in una data epoca e le scrivo molto dopo. El desertor lo pensai molto prima del 2001, solo che l’ho scritto recentemente. Non scrivo mai un racconto nel momento in cui mi viene in mente e, per di più, non lo scrivo finché non lo sento pronto quasi parola per parola, quando sento che ormai non esiste un altro modo di scriverlo. Di sicuro so che nel momento dello scoppio della crisi stavo scrivendo La Cosa, uno dei miei racconti più apertamente fantastici. Mi ricordo che chiamai al telefono Antonio Dal Masetto e parlammo della crisi, di quanto era difficile scrivere qualsiasi cosa in un momento così critico, quasi come se la scrittura non avesse senso, la scrittura fantastica in particolare. E così feci passare due anni prima di decidermi a terminare El espejo que tiembla. La crisi, comunque, non fu nel 2001, viene da molto prima, senza esagerare direi che viene dal 1966, quando i militari presero per la prima volta il potere con Onganía[5], senza contare il governo di Perón, che era salito al potere vestito da militare. Direi che la crisi comincia proprio in quest’epoca, se non vogliamo risalire ai tempi di Uriburu[6]… Ricordo un editoriale de «El escarabajo de oro», che scrissi nel 1961, dove dicevo che la crisi era un modo di essere dell’Argentina, per noi essere in crisi era semplicemente “essere” e non avevo mai visto, da quando avevo diciott’anni, una cosa che non fosse una crisi. Questo paese è in crisi perenne.

EM: Quest’ultima frase si adatta bene anche all’Italia…
AC: Sì, infatti. Siamo molto simili. Nel 2001 scrissi una lettera a due cari amici italiani[7] cercando di spiegare loro la crisi e dicendo di non preoccuparsi, che non sarebbe stato per molto, dava l’impressione di durare molto, ma per noi che abbiamo sempre vissuto in situazioni simili non era una cosa da allarmarsi. In sei mesi si sarebbe superficialmente risolto tutto e, in seguito, si avrebbe avuto l’impressione che effettivamente si fossero risolti tutti i problemi. Ma quali problemi si sono risolti? La gente che muore di fame oggi è esattamente la stessa di quella che moriva prima. Gli ospedali sono sempre catastrofici e l’educazione è diventata una delle peggiori del mondo. La gente vive per strada. Certo, da cinque anni le cose vanno meglio, la gente che viveva rivoltando la spazzatura si è “organizzata” e ora si chiamano cartoneros… Ma quale crisi ha superato l’Argentina!

EM: Lasciando da parte la storia e cambiando totalmente argomento, vorrei parlare un po’ della forma. Come fa, per esempio, a costruire racconti con livelli temporali così complessi, dove all’interno di una struttura perfettamente circolare, ci sono prolessi e analessi continue? Credo che siano anche difficili da concepire e scrivere.
AC: Ecco, per me non si tratta di un fatto estetico o letterario, non ha niente a che vedere con la grammatica, ma con me stesso. Vedi, io vivo in una specie di presente continuo, dove, in qualche modo, il tempo non passa. Le cose accadono, in effetti, ma è come se accadessero nello spazio. Per me, spazio e tempo sono dimensioni analoghe. Per esempio, la notte non la concepisco come un momento nel tempo, è come se fosse un luogo nello spazio. Io entro nella notte come si entra in una casa vuota o in una piazza, è come se mi dirigessi verso la notte, verso un luogo che non posso chiamare tempo. Io vivo più o meno così. Posso passare quindici anni senza vedere un amico, se davvero è un amico, e non rendermi conto del tempo che è passato. Vedo il passare del tempo, lo vedo quando mi guardo allo specchio (ride), ma in generale è come se vivessi un unico tempo presente. Per questo non ti posso spiegare, da un punto di vista formale, come lavoro “temporalmente” nei miei racconti. Mi succede come con le persone narrative: comincio a scrivere un racconto in prima persona e questo racconto si sposta alla terza, perchè ho bisogno di vedere il personaggio da fuori. Il romanzo El que tiene sed, per esempio, è in prima e in terza persona. Quando è in terza persona? Quando mi apparto da Esteban Espósito – è chiaro che qui si narra una sbornia, peraltro permanente – e ho bisogno di vederlo da fuori, come se fosse  “egli”, quando ho bisogno di vedere da un’altra prospettiva come farei un determinato tipo di cose e, d’altra parte, si tratta di una condizione tipica dell’artista in generale. L’artista non vive mai nella realtà attuale, o meglio, sta vivendo in questa realtà e in un’altra che gli permette di vedere la realtà come un possibile atto estetico. Esteban vive questa condizione come una specie di lucida pazzia permanente, quindi in questo momento sento che il testo esige la terza persona. Mi ricordo, una volta, di aver parlato con Cortázar e di avergli fatto più o meno la domanda che hai fatto a me, e lui mi rispose con un aneddoto, ossia che Vargas Llosa gli aveva domandato a sua volta la stessa cosa, senza rendersi conto che lui stesso scriveva romanzi dove il tempo va e viene – Conversación en la catedral, per esempio – e non ne era cosciente. E in seguito chiesi a Cortázar come gli vennero in mente i cronopios e lui mi raccontò, con estrema naturalezza, che una volta aveva visto scendere cose strane dal soffitto di un teatro. Mi stava raccontando l’apparizione dei cronopios nella sua realtà, non l’apparizione nella sua letteratura, e quindi fra i cronopios della realtà e quelli della letteratura c’era una distanza minima. Con il tempo, accade la stessa cosa, perchè non è una questione retorica o grammaticale, ma sento che a un certo punto devo andare indietro o che la storia ha fatto un salto in avanti, e non è che io scelga le parole che designano questi salti temporali, ma è come se le parole si imponessero da sole, e i tempi verbali cominciano a funzionare a mano a mano che sono necessari. Si potrebbe fare anche artificialmente, rendendosi conto della costruzione di questi livelli, ma sarebbe artificiale. Il resto non lo so.
Mi è difficile il contrario, scrivere una storia “cronologica”. Per di più, non mi ricordo dove, mi è capitato di leggere una specie di schema del cuento, come una specie di precetto da corso di scrittura – che non servono assolutamente a nulla – dove si diceva che un buon racconto comincia nel mezzo, torna all’inizio e va alla fine. In effetti, la grande maggioranza dei racconti funziona così, forse perchè è il modo più “economico” di raccontare una storia. In un romanzo di puoi permettere di raccontare tutto dall’inizio alla fine, ma in un racconto devi scegliere pochi momenti essenziali e saltare da uno all’altro per garantire l’economia e l’efficacia della storia.

EM: In Cien años de soledad l’inizio è tipico di un racconto, per esempio.
AC: Sì, il fatto è che García Márquez, prima che un ottimo romanziere, è un ottimo cuentista.

Entra Sylvia con il caffè e ne approfittiamo per parlare d’altro, del tempo, dell’Italia, dei segni zodiacali. Ma parlare di qualcosa che non abbia a che fare con la letteratura non è facile per quest’uomo dalle mille letture, e anche i  segni zodiacali sono una buona occasione per tornare al mestiere di scrivere.

AC: Questo è un altro buon esempio per spiegarti come concepisco il tempo. Io sono Ariete e, siccome l’Ariete è il primo segno dello zodiaco, per me l’anno inizia a marzo. Finché non arrivo a marzo, io sono sempre nell’anno passato e questo mi crea qualche problema quando devo firmare un contratto… (ride). Puro egoismo. Questo deve senz’altro significare che ho una relazione molto particolare con il tempo e credo che sia anche dovuto al fatto che sono cresciuto in un paese accanto al Río Paraná: accanto al fiume il tempo passa in un altro modo, la gente assume il tempo in un altro modo. Se a San Pedro diciamo “ci vediamo domani”, implica che ci vedremo da qualche parte, in qualsiasi momento o addirittura dopodomani. In città è diverso, la gente vive con gli orari. A San Pedro no, la gente non ha orari e nemmeno i miei racconti.

EM: Questo è certo… Tuttavia, in El tiempo de Milena[8] ci sono, stranamente, dettagli temporali molto precisi: la Rivoluzione Cubana, la morte del Che, lo scioglimento dei Beatles, età esatte. Forse perchè, essendo una storia così vaga e fantastica, ha bisogno di aggrapparsi con più forza alla realtà?
AC: Sì, esattamente. Per creare un vero racconto fantastico lo devi circondare di fatti reali. Se accumuli troppi eventi fantastici, il racconto non può più definirsi fantastico, diventa una sorta di impossibilità totale. Se, invece, in una situazione completamente normale, cominciano ad accadere cose che non dovrebbero accadere, lo spavento è assicurato. Perchè è così strano e angustiante il mondo di Kafka? Proprio perchè Kafka scrive come uno scrittore realista e talvolta naturalista, intercalando eventi assurdi. C’è sempre qualcosa di lievemente anacronistico in Kafka, personaggi che si spostano con estrema rapidità o mobili posti in posizioni scomodissime, che bloccano una porta o una finestra. C’è sempre qualcosa di “scomodo” in Kafka, come ne Il castello per esempio, dove c’è una grande sensazione di straniamento, come in tutto l’universo del racconto fantastico contemporaneo. Quindi, tornando a El tiempo de Milena, ho lavorato molto per far sì che tutto intorno alla storia fosse assolutamente verificabile, come il Parque Lezica, il Parque Rivadavia, la casa con i cani di marmo – che esiste davvero – , fatti storici verificabili, come la morte del Che in Bolivia, lo scioglimento dei Beatles, fatti accaduti nella storia reale. Tutto questo enfatizza la storia fantastica, a mio avviso. Questa irruzione del fantastico nel reale, che enfatizzo dicendo “cuando lo imposible empieza a suceder, lo mejor es tomarlo con naturalidad”, è quello che dà la sensazione di straniamento del racconto.

EM: Come disse Cortázar, per un buon racconto fantastico è sufficiente un solo evento irreale che irrompe nella quotidianità.
AC: Quando scrissi la recensione de Las armas secretas in «El grillo de papel», quello che segnalavo è proprio questo, l’abilità di circondare il racconto di un’estrema naturalezza e quotidianità, finché non irrompe l’impossibile, come in Cartas de mamà, per esempio, dove tutto è assolutamente reale, tranne Nico. A Cortázar piacque molto questa recensione, perchè gli sembrò in qualche modo di aver scoperto il suo procedere letterario, che, d’altro canto, ha illustri antecedenti in Kafka, Pirandello e Buzzati, dove l’irrompere dell’impossibile nell’assoluta normalità causa terrore. Questa è l’unica maniera possibile di scrivere racconti fantastici, per lo meno nella contemporaneità. Non potremmo più, ovviamente, scrivere Il castello di Otranto. Diciamo che con Poe, si spense il fantastico in senso ottocentesco, sebbene Poe sia ancora leggibile, proprio perchè il terrore poeniano va molto al di là della pura scenografia. È un precursore.

EM: Andando un po’ più sul generale, mi piacerebbe parlare con lei dei classici e della loro traduzione. Calvino diceva che un classico è un libro che ha sempre qualcosa da dire in tutte le  epoche e, cosa vera e molto divertente, che ogni volta che qualcuno legge un classico, invece di dire «sto leggendo Delitto e castigo», dice «sto “rileggendo” Delitto e castigo», sebbene non l’abbia mai letto in vita sua…
AC: Sì…(ride).

EM: Tuttavia un classico, per avere sempre qualcosa da dire, dovrebbe essere ritradotto ogni quindici o vent’anni. Che ne pensa? Pensa che sia la prova inconfutabile che la traduzione non raggiunge mai l’originale?
AC: Il fatto è che per farli parlare a ogni epoca, si devono ritradurre in ogni epoca. Per far parlare un classico del diciannovesimo secolo al ventunesimo, con i parametri del ventunesimo, deve essere ritradotto. La traduzione è una prova: un brutto libro tradotto con la lingua e i parametri di oggi rimane sempre un brutto libro che non parla a nessuno, o che parla solo alla sua epoca. I grandi classici greci continuano a parlare eccome, e mi parlerebbero ancora meglio se me li traducesse in castigliano un argentino di oggi. È necessario che ogni epoca assuma di nuovo le loro parole rimettendole in funzione. Se si potesse tradurre con le sole parole della sua epoca, evidentemente quel libro non funziona come classico.

Suona il campanello. Abelardo e Sylvia aspettano visite e io mi congedo, promettendo di tornare a torturarli con altre domande. La notte di barrio Balvanera mi sorprende appena mi chiudo la porta alle spalle. Senza nemmeno sospettarlo, abbiamo parlato per tre ore.

NOTE


[1] La seconda moglie di Quiroga, María Elena Bravo.
[2]Abelardo Castillo, El espejo que tiembla, Seix Barral, 2005
[3]Ibid.
[4] I cartoneros sono persone estremamente povere che smistano l’immondizia di Buenos Aires ricevendo in cambio un compenso quasi inesistente. In pratica, si trovano alla base della piramide del mercato del riciclaggio dei rifiuti, rischiando ogni giorno e ogni notte di contrarre malattie anche mortali dalla sporcizia. Si calcola che attualmente siano cinquantamila in Argentina le persone che vivono dei rifiuti, fra le quali la metà sono bambini.
[5] Juan Carlos Onganía si impadronì del potere con un golpe militare il 29 giugno 1966.
[6]José Félix Uriburu prese il potere con un golpe militare il 6 settembre 1930 destituendo il governo democratico di Hipólito Yrigoyen.
[7] Il tempo delle pentole. L’Argentina via e-mail – Lettera argentina a un amico italiano, in «Il manifesto» del 2 gennaio 2002, pag. 18.
[8]Ibid.

Condividi