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«Primo amore» di Ricardo Piglia

Ricardo Piglia Autori, Ricardo Piglia, SUR

La città assente di Ricardo Piglia è in libreria: ne pubblichiamo oggi un estratto, una delle tante storie che compongono il caleidoscopico romanzo.

«Primo amore» di Ricardo Piglia
traduzione di Enrico Leon

M’innamorai per la prima volta quando avevo dodici anni. A metà lezione arrivò una ragazza dai capelli rossi e la maestra la presentò come la nuova alunna. Stava ferma accanto alla lavagna e si chiamava (o si chiama) Clara Schultz. Non ricordo nulla delle settimane seguenti, però so che ci eravamo innamorati e che cercavamo di nasconderlo perché eravamo piccoli e sapevamo che volevamo una cosa impossibile. Alcuni ricordi mi fanno ancora male. In fila gli altri ci guardavano e lei diventava ancora più rossa e io imparai cosa significasse subire la complicità degli stupidi. All’uscita facevo a botte nel campetto da gioco di Amenedo con tizi del quinto e del sesto anno che la inseguivano per tirarle rametti nei capelli, perché lei li portava sciolti fino alla vita. Una sera tornai a casa tanto malconcio che mia madre pensò che fossi diventato pazzo o che mi fossi preso una febbre suicida. Non potevo dire a nessuno quello che provavo e sembravo imbronciato e abbattuto, come se avessi sempre sonno. Ci scrivevamo lettere, però sapevamo scrivere a malapena. Mi ricordo di un susseguirsi instabile di estasi e disperazione; mi ricordo che lei era seria e appassionata e che non sorrideva mai, forse perché conosceva il futuro. Non conservo nessuna fotografia, solo il suo ricordo, però in ogni donna che ho amato c’era Clara. Se ne andò com’era venuta, inaspettatamente, prima della fine dell’anno.

Un pomeriggio fece un atto eroico e violò tutte le regole entrando di corsa nel cortile proibito dei maschi per venire a dirmi che la portavano via. Ho l’immagine di noi sulle mattonelle rosse e intorno il cerchio sarcastico degli altri che ci guardano. Il padre era ispettore comunale o direttore di banca e lo trasferivano a Sierra de la Ventana. Ricordo l’orrore che mi provocò l’immagine di una serra montuosa che era anche una prigione. Per questo era arrivata ad anno già iniziato e per questo forse mi aveva amato. Fu così grande il dolore che riuscii a ricordare che mia madre diceva che se uno amava una persona doveva mettere uno specchio sul cuscino, perché se l’avesse vista riflessa in sogno, l’avrebbe poi sposata. E la notte, quando in casa tutti si erano addormentati, io camminavo scalzo fino al patio sul retro e staccavo lo specchio al quale mio padre si faceva la barba tutte le mattine. Era uno specchio quadrato, con la cornice di legno marrone, agganciato con una catenella al chiodo della parete. Dormivo a tratti, cercando di vederla riflessa mentre sognavo, e a volte m’immaginavo di vederla apparire al bordo dello specchio. Molti anni più tardi, una notte, la sognai riflessa sullo specchio. La vedevo così com’era da piccola, con i capelli rossi e gli occhi seri. Io ero un altro, ma lei era la stessa e veniva verso di me, come se fosse stata mia figlia.

La cornice di legno dello specchio era tempestata di solchi grigi, come se qualcuno l’avesse incisa con un temperino. Junior si guardò la faccia e sullo sfondo vide la galleria riflessa. Il guardiano l’aveva seguito con passi felpati, tenendosi a distanza; poi gli si avvicinò, con una mano sulla schiena e l’altra che s’intravedeva in tasca, mentre mandava giù saliva, a giudicare dal pomo d’Adamo.

«Cos’è questo?», gli chiese Junior, indicandogli la cassa di vetro.

«La scienza non l’ha ancora dimostrato», rispose, con una frase che senza dubbio aveva imparato a memoria. «Un avvoltoio, forse un chimango. Lo trovò, nel 1895, nei dintorni di Tapalqué, il dottor Roger Fontaine, scienziato francese». E il suo dito tremante indicò la targa di bronzo.

Un uccello di metallo si ergeva su di un tronco e si becchettava le ali.

«Strano», disse Junior.

«E adesso guardi attentamente questo teschio», disse la guardia. «È della stessa zona».

Sembrava un cranio di vetro. La campagna argentina è inesauribile e nei paesi la gente conserva i resti di storie vecchissime.

Di fianco c’era una serie di oggetti in osso, in fila su una bassa bacheca. Sembravano dadi o piccoli astragali o grani di un rosario eretico. Junior si fermò a esaminare un vaso giapponese, probabilmente donato da qualche ufficiale di marina. Ne aveva vista una replica nel mercato di Plaza Francia, li riproducevano così perfettamente che miglioravano l’originale e riuscivano a far sembrare la copia più antica e più pura. Il guardiano si era dileguato docilmente per una scala laterale. Junior attraversò una galleria con disegni e foto degli archivi polizieschi ed entrò in un’altra sala. Era la stanza di una casa familiare, con le persiane chiuse e un abat-jour acceso, non c’erano mobili, ma un po’ più in giù, quasi per terra e in mezzo alla camera, come in una culla, c’era la bambola.

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