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L’antiplagio, o quando gli scrittori si nascondono da sé stessi

Cristian Vázquez Scrittura, SUR

La fama di uno scrittore e la nostra opinione sulla qualità della sua opera ci influenzano nella lettura? L’antiplagio, ovvero inviare la propria opera sotto pseudonimo, consente ad autori affermati di spogliarsi della propria reputazione e farsi giudicare solo per la letterarietà del loro testo.
Cristian Vázquez ce lo racconta in un articolo originariamente apparso su
Letras Libres.

di Cristian Vázquez
traduzione di Federica Gavioli

Come sarebbe se potessimo spogliarci dei pregiudizi e giudicare ogni testo solo per quello che di bello o di brutto racchiude?

1.

Poco tempo fa parlavo di concorsi letterari con un’amica. Questa ragazza, che non ha molta familiarità con il mondo della letteratura, mi chiedeva il motivo per cui le opere devono essere inviate sotto pseudonimo. Le ho spiegato che è un modo per garantire – in teoria – la trasparenza del concorso. La mia amica ha obiettato che l’accorgimento le sembrava di poco valore, dato che, se il concorso è truccato, l’ostacolo dello pseudonimo può essere aggirato facilmente. Le ho dato ragione: fatta la legge, trovato l’inganno. Ma lo pseudonimo serve – in teoria – a evitare un altro problema, qualcosa che non è un tranello ma può generare, in modo volontario o meno, iniquità: la presenza di un nome conosciuto sul frontespizio o alla fine di un manoscritto. È innegabile che sapere chi è l’autore dell’opera che stiamo leggendo influenzi sempre la lettura. Se stiamo leggendo uno scrittore rinomato o che ammiriamo, e il testo non ci piace particolarmente, pensiamo: «Be’, non è un granché, ma ci sono i suoi tipici guizzi». E se in un libro così troviamo  qualcosa di veramente buono, pensiamo che «è lì che si riconosce il genio». Al contrario, quando un testo non ci piace e non conosciamo l’autore dell’opera, giudichiamo i passaggi buoni come semplici casi fortunati, sempre che arriviamo fino a quel punto e che non lo abbandoniamo prima per dedicarci a una lettura più degna (per esempio, dell’autore conosciuto o ammirato del primo caso).

Per questa ragione, lo pseudonimo nei concorsi scongiura – in teoria – non solo la possibilità che la giuria favorisca gli amici o chi dovrebbe vincere per motivi commerciali, ma anche che sopravvaluti (o sottovaluti) un testo solo perché conosce il nome dell’autore.

2.

Sono celebri i casi di scrittori rinomati che, forse stanchi di convivere con il proprio nome, decidono di abbandonarlo per vedere cosa succede. Quasi un modo di nascondersi da sé stessi, mettono in atto una specie di antiplagio, ovvero, l’opposto del plagio: invece di prendere il testo di un altro e presentarlo come proprio, propongono il proprio testo come se fosse di qualcun altro.

Lo fece Doris Lessing, prima di diventare Premio Nobel. Aveva l’impressione che la stessero pubblicando per il prestigio conquistato e non per il valore intrinseco dei suoi nuovi testi. Ne scrisse uno e lo inviò a diverse case editrici firmandosi con uno pseudonimo. Venne rifiutato da tutte. Autori commerciali come Stephen King e J.K. Rowling vissero esperienze simili: i libri pubblicati sotto falso nome passarono inosservati (finché non si scoprì che erano loro). Il domenicale Sunday Times fece un esperimento e inviò a più di quaranta case editrici e agenti letterari due frammenti di romanzi vincitori del Booker Prize: In uno stato libero di V. S. Naipaul e Holiday di Stanley Middleton. Ottennero una sola risposta positiva: un’agente letteraria era interessata all’opera di Middleton. Naipaul, altro Premio Nobel, ottenne solo rifiuti.

3.

Questi casi ricordano altri personaggi che, in situazioni diverse, nascosero la propria identità per vedere come si sarebbero comportati gli altri non sapendo chi fossero. Molti figure di potere hanno scelto questo stratagemma per ottenere informazioni di prima mano: dall’episodio mitologico in cui Zeus si traveste da viandante per verificare se il re Licaone uccidesse davvero i propri ospiti con dei sacrifici umani (e Zeus, per punizione, lo trasforma in lupo), fino all’attuale re Abdullah ii di Giordania che nei primi anni di mandato si fingeva un indigente o un giornalista per verificare il funzionamento dei centri assistenziali e di altri uffici pubblici.

In questo caso si tratta di imposture discendenti. Ovvero, persone che fingono di avere meno potere di quello che hanno per vivere situazioni che, se si presentassero con la propria identità, non potrebbero vivere. È quello che fa, per esempio, anche Superman quando si mostra in pubblico nelle goffe sembianze di Clark Kent.

Tuttavia, la maggior parte delle imposture del nostro mondo sono di ordine inverso: imposture ascendenti. Gente che tenta di convincere gli altri di essere più potente o più ricca o più saggia o più felice di quello che è in realtà. E di esserlo più di tutti gli altri. Se questa è una pratica comune da tempi immemorabili, i social network l’hanno accentuata in modo esponenziale. Non è mai stato così facile fingere di vivere una vita diversa da quella reale come ai tempi di Facebook. Il caso di Anna Allen, l’attrice spagnola che finse di avere fatto carriera a Hollywood, è tra i più emblematici.

Si potrebbe dire, dunque, che quando uno scrittore di prestigio presenta a una casa editrice un manoscritto firmato con uno pseudonimo, sta mettendo in atto un’impostura discendente. E che in un concorso che prevede tra i requisiti l’uso di un nome di fantasia tutti i partecipanti mettano in atto una qualche impostura, discendente per alcuni (quelli rinomati), orizzontale per tutti gli altri (cioè per la maggioranza).

4.

Witold Gombrowicz si faceva beffe di come la fama di un autore o di un libro modificasse il nostro modo di leggere. «Chi di noi sarebbe in grado di riconoscere il valore dei grandi geni – si chiede uno dei personaggi del suo romanzo Ferdydurke – se a scuola non ci avessero inculcato per bene che sono grandi geni?». Il personaggio stesso spiega in un altro passaggio che «amiamo Juliusz Słowacki e adoriamo le sue poesie perché era un grande poeta». La stessa logica continua a ripresentarsi oggi in tutti gli ambiti della cultura, e nessuno potrebbe metterlo in dubbio. Come sarebbe bello se davanti a ogni opera ci potessimo spogliare dei nostri pregiudizi sull’autore e giudicarla solo per ciò che di bello o di brutto ha in sé. Ed evitare che ci succeda come al narratore del racconto di Borges che vede tanto diversi i due testi identici di Miguel de Cervantes e Pierre Menard. Borges lo spiega con maestria: «Il Chisciotte – mi diceva Menard – fu anzitutto un libro gradevole; ora è un’occasione di brindisi patriottici, di superbia grammaticale, di oscene edizioni di lusso. La gloria è una forma d’incomprensione, forse la peggiore»[1].

Questo – l’incomprensione della gloria – è ciò che devono aver provato, al momento del proprio antiplagio, Doris Lessing e Stephen King e V. S. Naipaul. E forse anche il re Abdullah ii di Giordania e Anna Allen. E chissà che non la provi anche un qualunque scrittore rinomato ogni volta che partecipa a un concorso letterario sotto pseudonimo e perde a confronto con un collega sconosciuto (ma non lo racconta a nessuno).

[1] J.L. Borges, Finzioni, Einaudi, Torino, 1955. Traduzione di Franco Lucentini.

 

© Cristian Vázquez, 2016. Tutti i diritti riservati.

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