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Come una febbre tossica, come una coltellata repentina

redazione SUR

Pubblichiamo oggi un testo di Fabrizio Gabrielli sull’incontro fra Julio Cortázar e il pittore olandese Pat Andrea, da cui nacque un libro curioso: «La puñalada».

di Fabrizio Gabrielli

Tango e pugnalate: l’incredibile storia d’un incrocio del destino

1.

Uno può sceglierselo mica, il momento in cui scocca l’amore. Irrompe come una febbre tossica, una coltellata repentina, ineludibile, obbediente al solo dettame della Necessarietà.

Il seme, quel seme solo apparentemente abbandonato, è vero: germina a contatto con l’agognata e nondimeno inattesa goccia d’acqua. Eppure, se vuoi scorgere una logica, non è in quel primo miracoloso contatto che devi cercare. Ma nel successivo dipanarsi delle aggrovigliate volute, obbediente al solo dettame – stavolta sì – dell’inconfutabile disegno della Natura, per cui è tutt’un incastrarsi puntuale, Supremo Groviglio d’Ingranaggi. Lì, è solo lì, che potrai snidare la geometria di un’epifania.

Uno può sceglierselo mica, il momento in cui scocca un amore. Prendi Johan Crujiff e Danny Coster. Chi se lo immaginava che là, a metà strada tra le lunghe gambe affusolate e i cappellini sbarazzini, nella testa della bionda Danny Coster, si celasse cotal senno, siffatto esprit libre. Si diceva: un gesto contro la giunta militare d’estrema destra, se Johann non farà parte della spedizione al Mundial del 78. Si mormorava: è stata la Coster, a influenzarlo. Ci sarebbe voluto il sangue giovane di Jan Jongbloed, a smontare la tesi immantinente – è solo un cagasotto, aveva detto -, e noialtri l’avremmo capito solo poi, che se quel mondiale non l’aveva vinto, l’Olanda, privata del suo capitano e uomo simbolo, era stato solo per colpa di quei banditi che avevano tentato di rapirlo, Crujiff, facendogli cambiare prospettiva sul modo di vedere il mondo. Facendogli balenare il pensamento prolungato che forse, dopotutto, si poteva pure smettere, di giocare al calcio.

Uno può sceglierselo mica, il momento in cui scocca un amore, si schermiva Pat coi suoi amici. Pat Andrea è un pittore, è olandese come Crujiff. Per Pat Andrea l’Argentina, la luce argentina, è stata quella febbre tossica, quella pugnalata repentina, che arriva ineludibile a pervaderti i sensi, a squarciarti il pensamento. Certo che ci torno, argomentava a chi cercava di dissuaderlo.

Pat Andrea, la prima volta che aveva messo piede a Buenos Aires, l’aveva fatto il 25 marzo del 1976: il giorno successivo al golpe militare. Ci era arrivato inseguendo il filo che le Parche avevano tessuto nottetempo: capita che un gallerista di Bruxelles, curatore delle prime mostre di Andrea, si veda scomparire sotto gli occhi, nei primi anni 70, quindici quadri, tra cui due Magritte. Capita che anni dopo i Magritte vengano localizzati vicino a Còrdoba. Capita che il gallerista colga l’occasione del riscatto per farsi un’idea della giovane scena artistica portena. Capita che il gallerista rimanga molto colpito dall’opera di Guillermo Roux: che la trovi disarmantemente simile a quella di un suo giovane assistito. Che gli venga pensato: dovrebbero conoscersi. Roux e Pat Andrea entrano in contatto così. Si scrivono. Si invitano vicendevolmente. Pat Andrea decide di attraversare l’oceano. E di arrivare a Buenos Aires quando? Il 25 marzo del 1976.

La prima sensazione di Pat è quella di trovarsi invischiato in un colossale dejà vu. Verdi praterie e vacche al pascolo. Liquori d’erbe medicinali. Il delta del Tigre. Paesaggi, sapori, colpi d’occhio Europei. Lo sconosciuto, il perturbante: Pat lo trova mica.

Ha 34 anni. Ha girato in lungo e in largo l’Europa dell’Est e la Grecia militarizzata: non è un pivello, e non saranno certo le indiscrezioni bisbigliate sulla difficile situazione politica a imprimere un cambiamento alla sua visione del mondo. Ma la luce, la luce che trova in Argentina, il pulviscolo della violenza che fluttua nel sole accecante, rendendo la realtà sfilacciata, consunta: è in quell’umidità visiva che Pat sente ticchettare le lancette di un innamoramento a tempo; è lì, che si squarcia il suo personalissimo velo di Maya.

Pat Andrea schizza bozzetti, prende appunti, e soprattutto cammina molto, per il Nord del Paese, da Còrdoba a Jujuy. Mentre s’imbarca per fare ritorno in Olanda, come chi sventola il fazzoletto verso l’amata conosciuta negli ultimi giorni di permanenza, Andrea sa che farà ritorno, prima o poi. Perché senza quella sostanza febbrile che alimenta la sua pittura, potrà mica troppo stare.

Nel 1978, l’anno del Mundial, del el que no salta es un holandés, per un olandese che resta, non va, Crujiff, un olandese che parte, eccòme se va: Pat.

Gabriel Levinas, gallerista di Artemùltiple, uno dei pochi spazi indipendenti a Buenos Aires refrattari alle ingerenze militari, invita Andrea a tornare al Sud, per un’esposizione personale. Quadri che ritraggono civili che imbracciano fucili, bambini che piangono senza apparente motivo, uomini inginocchiati davanti a donne dalle gambe allargate, ritratti frutto di tre mesi di scandagliamento delle province del Nord, dove aveva avuto una prima rivelazione: l’argentinità, secondo lui, andava espressa senza attenuare, senza relativizzare. Nuda. Cruda. Era così ch’erano nate le sue scene, d’un lirismo perverso, per le quali il permesso a esporre in pubblico appare non foss’altro paradossale, in un Paese in cui di contro s’arriva a bandire Il Piccolo Principe per i suoi presunti contenuti sovversivi.

Durante quel secondo viaggio, poi, Pat capisce anche che andare oltre, nel suo percorso di studio della luce, dell’anima, dell’essenza argentina, proseguire nel suo viaggio centripeto, era possibile, anche senza scadere nel folkloristico, o nel simbolico. Non solo. Capisce anche, e soprattutto, che andare oltre gli era necessario.

Capita che in una bancarella su Avenida de Mayo Andrea compri un libretto, i testi tangueri de La puñalada. E che avvinto da quelle strofe abbandoni oli e caseina per dedicarsi al graffito, al tango vorticoso della coltellata traditrice, al graffio che sopraggiunge alle spalle, che lascia la vittima bocconi al suolo, stupefatta, senza parole. Il daimon del disegno s’impossessa della sua anima. Lo scuote con scariche d’elettrica inquietudine. Tra il periodo del soggiorno e quello dell’immediato ritorno in Olanda immortala trentatré scene, in cui nel ruolo ora dell’attentatore, ora dell’attentato, s’alternano uomini e donne della strada. La grafite si sgretola in gocce di sangue invisibile. La grafite crea le ombre della scheggia di metallo sferrato.

Sebbene il seme germini a contatto con una goccia d’acqua, è mica in quel primo innocente contatto che s’innesca il miracolo, no. Ma nel successivo dipanarsi delle aggrovigliate volute.

2.

Tempo dopo – Pat sta trascorrendo un periodo a Parigi, in un piccolo appartamento preso in affitto nella zona di Place Pigalle, in uno scantinato – un suo amico editore olandese ha modo di vedere i disegni. Ci sarebbe bisogno d’un prologo d’uno scrittore affermato, gli confessa. Ne verrebbe un gran bel libro, aggiunge. Ma su chi puntare? Uno scrittore argentino, senza dubbio. Borges? Borges è cieco, risponde Andrea, scorato. Pensiamoci. Pensiamoci, s’accordano.

Qualche settimana più tardi, seduto sul letto del pied-á-terre parigino, con la sua stazza imponente a dominare l’universo minuscolo dell’appartamento, Julio Cortázar sta sfogliando i trentatré disegni. L’artefice dell’incontro è stato Antonio Seguì. Li guarda attentamente, Julio. Uno per uno. Non posso e non voglio scriverci su un saggio, dice infine, nulla di didascalico, niente che rimandi simbolicamente alla situazione politica argentina. Fa una pausa. Qua: qua c’è un racconto, aggiunge. Lasciami un po’ di tempo, fammi render conto se c’è davvero, qua, un racconto.

Cinque mesi dopo, Andrea riceve in Olanda la versione dattiloscritta de El tango de la vuelta. Il racconto parla di donne sole, di mariti in viaggio, di uomini che scompaiono e poi ricompaiono di ritorno dal Messico. Di sguardi. Di sigarette fumate in silenzio. Di attese scandite da un silenzio assordante. Come quello nel momento che precede la pugnalata, come quello che fanno le rotelle degl’ingranaggi, quando il meccanismo sta per mettersi nuovamente in moto, spinto da un’energia insondabile, superiore. Che nessuno, tanto meno l’uomo, sa o può prevaricare.

Uno se lo sceglie mica, il momento in cui innamorarsi. Il momento in cui morire. Quel che gli succede attorno. Ogni evento è ad un tempo causa ed effetto della stessa febbre tossica che rosicchia i giorni, obbediente al solo dettame della Necessarietà. In questo preciso istante, o forse già da un’era primitiva, le lancette si sono messe in moto: in un alternarsi di tic e di tac, il Destino suona la sua grancassa con colpi vigorosi, eppure ovattati.

Elisabeth Franck ha: una notevole fama di illuminata gallerista, in Belgio e fuori dal Belgio. Elisabeth Franck ha: l’occhio lungo dell’illuminato, giustappunto.

Elisabeth Franck ha: l’idea lodevole di acquisire i diritti dello scritto cortazariano El tango de la vuelta e della serie di disegni di Pat Andrea, La Puñalada; di commissionare una traduzione dei testi in olandese e francese; di stampare due edizioni limitatissime, quattrocento copie per ogni edizione, che presenta alla Fiera d’Arte di Parigi del 1982.

Nei giorni della Fiera, Cortázar va in visita allo stand: è irrequieto, elusivo. Perdonami, vado molto di fretta, sussurra a Pat Andrea, ho mia moglie ricoverata in ospedale. Il peggio è passato, ma saprete comprendere: preferisco starle accanto. Si allontana con le cinque poderose copie che gli spettano sottobraccio.

Il giorno dopo, Carol Dunlop si spegne.

Le edizioni francese e olandese de La Puñalada vanno rapidamente esaurite. Elisabeth Franck concepisce, studia, prepara una nuova edizione, in spagnolo. Sembra il rettilineo che immette sulla rampa del successo mondiale.

Ma non è tempo ancora, perché la geometria sia compiuta.

La gallerista belga, di colpo, sprofonda nel vortice di profonde crisi di depressione. Dapprima si convince d’esser vittima di una paralisi, e si esilia volontariamente nell’Hotel Georges V a Parigi, lasciando che un gigolò scozzese sperperi quasi tutto il suo patrimonio. Quando faticosamente riesce a ristabilirsi, acquista un vecchio mulino nel sud della Francia, con l’intenzione di farne una comune per artisti. Ma quando il suo amato cagnolino muore per il morso d’una vipera: la depressione, nuovamente.

Pat Andrea perde ogni contatto con la gallerista. Che morirà, poco tempo dopo, lasciando in deposito a Miami degli scatoloni sigillati, affidandone la custodia a Celia Birbagher, la direttrice della rivista d’arte Nexus, che giura di non aprirli fino al giorno della sua morte.

Anni dopo, è il 2000, Eugenia Nino, gallerista d’arte spagnola, si trova a parlare di Pat Andrea con la Birbagher. Il discorso non fatica a cadere sulla storia della sfortunata edizione spagnola de La Puñalada, sulle casse dal contenuto ignoto custodite a Madrid, sulle sorprese poco sorprendenti, alla fine della fiera. In quegli scatoloni, ovviamente, riposavano sotto una coltre d’oblio le rimanenti 240 copie della sfortunata edizione.

Quando una di queste capita tra le mani di Pat Andrea, l’artista olandese non può fare a meno di notare, nel colophon:

“Finito di stampare nella città di Bruxelles il giorno 15 Febbraio 1984”

Uno se le sceglie mica la città, il momento in cui innamorarsi. In cui nascere. In cui morire.

Se si vuole scorgere una logica, snidare la geometria di un’epifania nel Supremo Groviglio d’Ingranaggi, bisogna volgere lo sguardo alle costanti, ai feticci che affiorano dalla palude melmosa delle coincidenze. Tipo a un libro stampato in una città, Bruxelles, la stessa che a Cortázar aveva dato i natali. Il giorno successivo a quello in cui, a Parigi, lo stesso Cortázar aveva ritrovato la terra.

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