L’ultima deriva di Bizzio: il romanzo realista di fantasmi

Raul Schenardi SUR

Presentiamo uno studio del critico Hernán Sassi che mette a confronto due romanzi di scrittori argentini: Rabbia di Sergio Bizzio (Donzelli, 2009), e I fantasmi, di César Aira, che le Edizioni SUR pubblicheranno in autunno, e offre diversi spunti di riflessione sul concetto di «realismo» in questi due scrittori e nella recente narrativa argentina.
Di Bizzio, oltre a Rabbia, da noi è uscito il romanzo Reality. Assalto al Grande Fratello (Edizioni e/o, 2010). Di Aira si possono leggere Il mago e Come diventai monaca (Feltrinelli, 2006, 2007).
Ringraziamo Hernán Sassi e la rivista online «el interpretador», dove è stato pubblicato originariamente il saggio.

di Hernán Sassi
traduzione di Barbara Turitto

Il racconto più realista che si possa immaginare si sviluppa secondo vie irrealiste
Roland Barthes

È noto come César Aira sia stato un saldo punto di riferimento per quanti volessero sottrarsi all’egida di Borges, Cortázar, Piglia e Saer. Nel caso di Sergio Bizzio, che secondo Graciela Speranza è, tra gli altri, uno degli eredi del grafomane di Pringles, egli ha messo in moto la “macchina-Aira” non tanto nelle sue prime opere (per esempio Infierno Albino, del ’92, il suo secondo romanzo, è agli antipodi dei deliri airani) quanto piuttosto da Más allá del bien y lentamente (1995), Planet (1998) e En esa época (2001), questa ultima premiata da una giuria integrata proprio dallo stesso Aira. Lasciandosi alle spalle quell’amore incondizionato per la “pura azione” che faceva di lui il più diretto discepolo di Aira, con Rabbia [trad. in Italia da Gabriella de Fina per Donzelli, 2009; N.d.T.] Bizzio si separa da tale proteiforme regolatore di meccanismi. Quasi congedandosi dal suo maestro, permane una – seppur tenue – affinità elettiva con l’ultima deriva di Aira: quella realista.

I
Questo lavoro fa parte di un progetto di ricerca che si pone l’obiettivo di analizzare le modalità di rappresentazione della crisi economica e sociale dagli anni ’90 ai giorni nostri nella narrativa filmica e letteraria del periodo. A tale proposito va ricordato che negli ultimi romanzi di entrambi gli scrittori si sentono gli “echi del presente”, in particolar modo gli strascichi delle politiche neoliberali, come l’aumento della disoccupazione, la proletarizzazione e l’economia informale, l’aumento della delinquenza, la decadenza o “l’allineamento” dei diversi attori sociali.
Come vedremo, Rabbia, con questa sua singolare deriva realista(1), è uno dei tanti esempi di rappresentazione di un aspetto della crisi (in particolare la decadenza di una classe prodotto della crisi stessa) privi di spirito mimetico, senza sguardo moralizzatore o intenzioni conoscitive classiche del realismo più stantio, che oggi sopravvive in taluni esempi della narrativa e del “nuovo cinema argentino” (tanto per citarne qualcuno, Puerto Apache di Juan Martini e El cielito di María Victoria Menis).
Bizzio sceglie come scenario una villa ove si riflettono problematiche sociali. Offre la rappresentazione del ceto alto tradizionale nell’ambito che gli è proprio, la villa, spazio di maggiore intimità e di minor contatto con l’esterno ma nel quale l’esterno filtra. Ci racconta una bizzarra storia d’amore (bizzarra ma non per questo meno realistica, ed è questo il tratto paradossale e al contempo caratteristico di Rabbia) tra una domestica e un operaio, María, che resta nascosto per anni ai piani alti della casa, e attraverso tale storia traccia un crudo ritratto del ceto alto in netto declino.
In un brano si fa esplicita menzione sia dell’imprescindibile ritaglio di ciascuna rappresentazione realista sia del “nocciolo duro” del presente (come lo chiama Sandra Contreras) della crisi sociale nel quale il romanzo ci colloca:

Ogni volta che guardava fuori si meravigliava del fatto che in quel ritaglio della realtà, come chiamava l’esterno, potesse vedere tutta la realtà. Un panorama non più grande di trenta metri […] gli bastava a percepire l’animo generale, o perlomeno quello del ceto alto; a intravedere il livello di disoccupazione secondo l’aumento o la diminuzione dei cartoneros e dei venditori ambulanti.

M.T. Gramuglio, in un articolo che analizzava la deriva realista nei romanzi sull’ultima dittatura, segnalava che i procedimenti propri della rappresentazione realista sono l’articolazione della storia in una successione temporale-causale, le annotazioni precise di nomi, tempi e luoghi, la stabilità del punto di vista narrativo e lo spogliarsi dagli espedienti retorici che contraddistinguono il linguaggio poetico. Nel caso di Bizzio, però, come anche in quello di C. Aira, A. Laiseca o W. Cucurto per esempio, le opere dei quali sono citate come “realismo delirante”, “sventato”, “spropositato”, ma pur sempre realismo, questi non sarebbero realisti soltanto per l’uso degli espedienti citati. Per loro occorrerà pensare alternative teoriche a tale realismo come formato prestabilito. Questa relazione, seguendo le ipotesi di Sandra Contreras su Aira e le impostazioni di Graciela Speranza sulla narrativa filmica e letteraria, intende spingersi in questa direzione.

II
In Fragmentos de un diario en los Alpes, romanzo di Aira di qualche anno fa, il narratore dice: «Bisognerebbe capire se non ci siano altre forme di realismo possibile». Stando a questo commento, in uno dei suoi ultimi articoli (En torno al realismo, in “Pensamiento de los confines”, n. 17, dicembre 2005) Sandra Contreras analizza queste «altre forme di realismo possibile» in alcuni romanzi di Aira degli ultimi anni.
Contreras scopre un Aira di taglio balzachiano e lukacsiano, il cui realismo risulta palesemente in «una singolare connessione con la realtà» , frutto di un «amalgama di frammenti di realtà» che sacrifica il verosimile e ottiene un maggiore realismo con una minore verosimiglianza. L’anima del realismo di Aira non starà né nel verosimile né nella peculiarità di una posizione politico-estetica dello scrittore bensì da un’altra parte. Ciò che definirà lo scrittore come realista sarà quella “fame di verità, di realtà” dello scrittore (parole che Aira riprende da Lukàcs) prima ancora dell’opera che, se di uno scrittore realista, immancabilmente si radica nei grandi problemi del suo tempo. Cosicché, quel che determina il realismo è il fanatismo dello scrittore per la realtà. In questa cornice, La villa e Las noches de Flores saranno, secondo Contreras, testi «orditi partendo da due noccioli duri della più vicina realtà argentina, la baraccopoli e la crisi economica, con la sua sequela di delinquenza, sequestri e omicidi che conducono alla catastrofe propria del sensazionalismo».
Per collocare meglio il realismo di Aira, Contreras dimostra che sia la versione di Contorno sia quella di Punto de vista si ancorano al realismo di G. Lukàcs nella sua volontà conoscitiva e interpretativa della realtà nazionale, sociale e politica. Recuperando un Lukàcs avverso a tale cliché, a questa visione che «tende a dissociare realismo e melodramma, realismo e stravaganza, e ad associare realismo e verosimiglianza, o più propriamente realismo e volontà conoscitiva, critica, naturalmente del presente», dimostra che la deriva realista di Aira (e come si vedrà anche quella di Sergio Bizzio), si fonda piuttosto su un incontro di questi campi prima antagonistici.
Nel caso del romanzo di Bizzio, fatte salve le differenze che presenta rispetto a questa nuova tappa di Aira – perché ce ne sono, e molte –, anche Rabbia, come gli ultimi lavori di Aira, è un romanzo realista che non si attiene al verosimile (è un “romanzo realista di fantasmi”, come è stato definito); inoltre, è incentrato sul “nocciolo duro” della realtà argentina, con la quale entra in contatto con “una singolare connessione” (l’autore ha la suddetta “fame di verità, di realtà”); e soprattutto, si colloca nell’incontro di campi prima antagonistici: in questo caso, il realismo e il fantastico, il realismo e il melodramma, l’immaginario e il reale.

III
In Rabbia non sono presenti i deliri di Más allá del bien y lentamente, romanzo nel quale vi è una chiara allusione al procedimento airano della “fuga in avanti”, ove tra dissertazioni canine sull’anima, il tempo e l’eternità, e tra le peripezie in compagnia di Peter Pan e Campanellino, vagabondi e abitanti di case espugnate finiscono per “scappare” e trovare la salvezza nell’aldilà. E neppure in En esa época, ove l’apparizione di un disco volante scomponeva il verosimile del racconto storico che era stato conservato nelle prime pagine. Rabbia non ha le tipiche deviazioni airane, quelle torsioni del racconto attraverso le quali questo veniva scagliato verso circostanze insolite che culminano in favole deliranti; deviazioni e torsioni a cui Bizzio ricorreva nelle opere precedenti. Il suo romanzo – e lì sta la chiave – piuttosto conserva un inquietante equilibrio tra il reale e l’improbabile.
Con Rabbia Sergio Bizzio si colloca in un “singolare verosimile”, come S. Quereilhac chiama il verosimile di Las noches de Flores. Una trama che può risultare inverosimile, nella quale interviene un operaio-fantasma, viene messa in opera con una caratterizzazione verista dei personaggi, dal momento che il romanzo presenta tipici esponenti dei ceti bassi e alti (dei quali, operai e appartenenti alla classe benestante, si rivelano i gusti, si elencano dettagliatamente i beni, persino il denaro) e conserva lungo tutto lo sviluppo del testo due piani, uno realista e l’altro fantastico, e in questo equilibrio lavorato con fine scalpello prende forma quello che diceva Horacio González sul realismo, che è un atto di narrazione altrettanto figurato (altrettanto lavorato) dei noti sperimentalismi.
Il romanzo di Bizzio non si avvicina né al fantastico di H. James con i suoi minacciosi fantasmi né a quello di Bioy, autore citato nel romanzo, con il quale Rabbia ha in comune soltanto le infernali macchinazioni dell’amante che vuole a tutti i costi restare accanto alla sua amata; il romanzo di Bizzio è lontano da quel tono melodrammatico e persino da thriller passionale da due soldi. Sia in Aira sia in Rabbia, cosa che non succede negli altri autori menzionati, le situazioni o i riferimenti al genere fantastico (Alice in I fantasmi e La villa; Nardo, un essere esilarante metà pipistrello metà pappagallo che appare e riappare in La noches de Flores; le esplicite menzioni alla condizione di fantasma in Rabbia, un fantasma in una villa, uno dei topoi del fantastico) si accompagnano a un marcato iperrealismo. E nel caso di Rabbia, romanzo che nessun lettore potrebbe inquadrare nel genere fantastico catalogandolo come una semplice storia di fantasmi, in esso non si percepiscono le suture – a differenza delle opere precedenti di Bizzio nelle quali sapevamo quando si “saltava nel vuoto”, quando sopraggiungeva la favola delirante –; qui si assemblano situazioni realiste (il duro ritratto di un ceto e la passione amorosa di due membri della classe povera) con eventi improbabili (l’esistenza di un fantasma nella villa), che non sono allucinazioni, sogni o deliri frutto di una passione sfrenata. È per questo che, tra le opere di Bizzio e prima fra tutte, Rabbia col suo realismo è più vicina ad Animalada, film da lui scritto e diretto, ove si narra una storia inverosimile (l’amore di un uomo per una pecora) da un punto di vista rigorosamente realista.
Come I fantasmi di César Aira, opera pubblicata nel ’90 che coniuga il ritratto delle idiosincrasie degli operai edili cileni e argentini con il genere fantastico, Bizzio in Rabbia non oppone il sogno alla veglia, la superficie alla profondità; si colloca al margine del verosimile che a tratti, come recita il romanzo «come se la pellicola della realtà slittasse», rende possibile persino l’impossibile. E, come diceva Alan Pauls riguardo a I fantasmi, «propone contemporaneamente due significati senza decidersi per uno solo» (in “Babel”, n. 21). La storia d’amore e di decadenza di una classe sociale è altrettanto reale della storia del fantasma, l’omicidio del padrone lo è altrettanto dei dialoghi immaginari del protagonista.
Secondo C.E. Feiling, I fantasmi, romanzo in sintonia con Rabbia per più di una ragione, stabilisce «un va e vieni tra la verosimiglianza (operai che si ubriacano a mezzogiorno, bimbi a cui far fare il riposino pomeridiano, panni scoloriti per la troppa candeggina) e l’altamente improbabile (conversazioni che non si addicono al grado d’istruzione di chi le intavola, filosofie quasi femministe da parte di una donna analfabeta e riflessioni sociologiche sull’Argentina)». In Rabbia, dopo un inizio costumbrista che ritrae l’amore tra un muratore e una domestica, a intervalli l’impulso realista nella costruzione della trama abbandona il verosimile nelle situazioni che si presentano al protagonista, questo “fantasma che voleva fare il fantasma”: da un lato, nella finzione dentro la finzione che egli arma per sopravvivere come un Robinson Crusoe all’interno della villa; poi, per le macchinazioni che lo tengono unito alla sua amata, come un personaggio di Bioy; così come nella trascrizione di dialoghi immaginari quasi fossero lunghe riflessioni che occupano la sua mente nel «tempo di un sospiro» e nella condizione del protagonista come qualcuno che al contempo è immateriale, “invisibile” e che, dall’ombra, interagisce con Rosa, la sua fidanzata; e che pure nel suo carattere di testimone concreto ci rivela sia le miserie del ceto alto in decadenza sia le pene dell’amante contrariato che arriva a uccidere per gelosia.
Pablo De Santis, riferendosi a Un sueño realizado di Aira, definisce il realismo airano in termini di parodia. Non è così dal mio punto di vista, e tantomeno in Rabbia. I suoi vincoli con il fantastico non sono parodistici così come non lo sono quelli che stabilisce con il melodramma. In questo senso, come anche nei romanzi di Aira, Rabbia attraversa – senza l’atteggiamento burlesco proprio della parodia – tutti i cliché del melodramma: dall’iniziale «colpo di fulmine» (così lo chiama il narratore), passando per la caratterizzazione di lei come una ragazza «piena di illusioni» e di lui come «il suo complemento ideale», per poi sfociare in un episodio tragico che li separa. Inoltre, nell’impasse in cui lui diventa un fantasma, lei si fa taciturna, sempre «al limite del pianto», e lui la sente piangere nell’attesa. Al momento di ristabilire il contatto con lei telefonicamente lui «sentiva il cuore in tutto il corpo». Dopo essere stata perseguitata da uno dei padroni, «María [il protagonista; N.d.T.] la sentì piangere e abbracciò se stesso come stesse abbracciando lei. La portava nel cuore, dunque di fatto l’abbracciò». Dopo un’avventura di lei con un giocatore di rugby e il regolamento dei conti di María, che tra parentesi «uccise per lei», lui piangendo la perdona e finisce come “sposo, padre e fantasma”. Tali melodrammatici cliché, che nell’opera di Aira hanno la funzione formale di far “muovere” il racconto e che si sovrappongono l’un l’altro in una storia “eccessiva”, qui, senza enfasi, integrano – come abbiamo visto per gli elementi fantastici sul formato realista – il tragico distacco tra il muratore e la domestica con il ritratto del ceto alto.

IV
Tornando all’incontro tra il reale e il fantastico – che caratterizza Rabbia – già in Infierno Albino troviamo un va e vieni tra questi termini. Una delle protagoniste «non era tanto infastidita dai modi dei suoi commensali, che oscillavano da un estremo all’altro tra il reale e il fantastico […] bensì dalla quantità». Alla luce di Rabbia, è interessante più che altro recuperare tale oscillazione per leggere un romanzo che, come diceva Alan Pauls di I fantasmi di Aira, lavora su due significati senza decidersi per uno solo. Ma da questo suo secondo romanzo va messo in risalto un altro passo, ove leggiamo:

– Non c’è dramma senza premessa – diceva Rollo. Una ragazza uccide la madre. Orribile. Ma, perché? Quali sono le tappe che l’hanno condotta all’omicidio? Non c’è dramma senza premessa, no. “La falsa allegria conduce alla tristezza”, “Il materialismo vince sul misticismo”, per esempio, sono frasi banali ma hanno ciò che serve per una premessa ben costruita: carattere, conflitto e conclusione. E di che c’è bisogno ora? […] Che l’autore prenda posizione, disse Rollo.

In Rabbia, la premessa necessaria del romanzo – l’omicidio che scatena tutto – non è, come per esempio si dice in Infierno Albino, «la povertà conduce al crimine»; la si espunge, o piuttosto la si lascia in sospeso, fatto che viene esplicitato nel seguente passo segnalato in una recensione di Sebastián Hernaiz (elinterpretador.net). In un dialogo immaginario Rosa, che non riusciva a capacitarsi dell’omicidio del padrone per mano di María, gli chiedeva: «Perché?»; al che lui rispondeva: «Tante cose».
A questa risposta enigmatica, questo «tante cose», e a questa incertezza chiave nella premessa del dramma, vanno aggiunti sia i due significati che Pauls leggeva in Aira – e che possono essere letti anche qui – sia l’ingresso in Rabbia a una realtà rarefatta, che rende più ambiguo persino un racconto realista. A voler essere precisi, vi sono molte cose che non sono come appaiono: Israel, che porta il nome della nazione ebraica, è un razzista sfrenato; il protagonista, un uomo, si chiama María, nome di donna; il ratto, suo compagno di stanza, «lo guardava come un cane» e in un altro momento è un “topo umanizzato”; infine, tornando al protagonista, egli è al contempo “sposo, padre e fantasma” (conoscendolo come amante sfortunato lo vediamo anche come fantasma e viceversa).
In definitiva, in Rabbia questo impulso realista nella costruzione della trama (rispettando i codici di cui parlava Gramuglio) – e quella fame di realtà dello scrittore alla quale si riferivano Lukàcs e Aira – s’incontra non soltanto col registro fantastico e melodrammatico ma anche con questo immenso magma narrativo pieno di indeterminatezza e incertezza. Tale realismo è una congiunzione, un ibrido dell’attualità (la crisi) e dell’estemporaneità (la villa, il mondo delle ombre e i fantasmi che riportano persino al gotico), un incontro del realismo (la citazione di Defoe, uno dei pionieri secondo alcuni teorici, pure è esplicita) col fantastico e col melodramma.

V
I veri creatori del realismo sono caratterizzati da nuovi procedimenti
Michail Bachtin

Graciela Speranza in Nuevo cine, ¿nueva narrativa? (“Mil palabras”, 2002) suggeriva che la narrativa ascritta a un contesto di globalizzazione e postmodernità non può essere pensata dal punto di vista delle dicotomie classiche del modernismo (progresso e reazione, modernismo e realismo, astrazione e rappresentazione, avanguardia e kitsch), dal momento che esse «si rivelano insufficienti ed estemporanee per pensare l’arte recente». Allo stesso modo nel suo ultimo lavoro, Territorios del presente, pubblicato soltanto parzialmente, Josefina Ludmer pensa questa epoca come un tempo di post-politica, post-classe, post-genere, in cui è necessario rivedere le categorie teoriche con le quali affrontare i nostri oggetti. Cito: «Abbiamo bisogno di un apparato diverso da quello usato fino al 1990. Abbiamo bisogno di altre nozioni e categorie, perché non è cambiato soltanto il mondo ma anche gli schemi, i generi e le specie con le quali lo si divideva e differenziava» (2004).
Come i romanzi di Aira menzionati, Rabbia alza gli argini del realismo, in questo caso per tale sottile indeterminazione che fa dell’opera di Bizzio al contempo un romanzo di fantasmi e un romanzo realista, come dicevamo, “un romanzo realista di fantasmi”, secondo Fernando Molle in un’intervista pubblicata in occasione dell’uscita del libro in Argentina, o un “neorealismo bizzarro”, come lo ha definito Walter Cassara in una recensione su La Nación. Dunque, così come recita il sottotitolo di Il fantasma di Canterville, libro che Wilde invitava a leggere come un “romanzo materialista-idealista”, allo stesso modo l’opera di Bizzio va letta con questi nuovi incroci ossimorici ai quali dovremmo abituarci se non vogliamo continuare a usare categorie che sono di ben poco aiuto per spiegare i cambiamenti che l’arte sta mostrando in tutte le sue manifestazioni. Come vediamo, non è aleatorio dire che gli ultimi aggettivi che accompagnano il realismo della narrativa contemporanea – delirante, sventato, spropositato, farsesco, e ora, realismo di fantasmi – abbiano poco o niente a che vedere con la caratterizzazione che si aveva finora del realismo.
Questo saggio è stato letto nell’ambito delle Giornate sul Realismo, tenutesi a Rosario il 9 e 10 dicembre 2005, organizzate dalla Cattedra di Letteratura Argentina I e II nell’ambito del Progetto di Ricerca e Sviluppo “Problemi del realismo nella narrativa argentina contemporanea”, Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università Nazionale di Rosario.


(1) Va chiarito che, come segnala Martín Kohan nel suo intervento presentato nel corso delle nostre Giornate (Significato attuale del realismo criptico), questa “deriva” è tale se ci atteniamo più alle nostre letture critiche (al nostro “canone antirealista”) che al racconto realista in sé, il quale, se tracciamo un arco che va da Manuel Gálvez a Sergio Olguín o Claudio Zeiger, passando per Bernardo Kordon, Jorge Asís, Dal Masetto e Guillermo Saccomano, mostra una ferrea continuità in tutto il xx secolo.

 

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