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L’una e l’altra Federica Aceto intervista Ali Smith

Federica Aceto BIGSUR, Interviste

Federica Aceto, traduttrice di L’una e l’altra, ci mostra in questa intervista la complessità di Ali Smith conversando di fantasmi, adolescenza, ispirazione e scrittura.

di Federica Aceto

Federica Aceto: Mentre lavoravo alla traduzione di L’una e l’altra (How To Be Both) continuava a tornarmi in mente una frase di Simone Weil:«Ogni essere grida in silenzio per essere letto altrimenti». Per te l’atto di raccontare è un modo di rispondere a quel grido silenzioso?

Ali Smith: Che bella citazione. Sicuramente io sono attratta dal linguaggio silenzioso, ovunque esso sia, e dai linguaggi inespressi. E sicuramente mi attrae l’idea che noi siamo esseri molteplici e variegati e che riconoscere, accogliere e coltivare la nostra  multiformità è fondamentale per vivere bene con noi stessi e con gli altri.

FA: I protagonisti di questo romanzo sono una ragazza adolescente e un fantasma. Si direbbe che le adolescenti e i fantasmi (le prime, soprattutto) siano presenze ricorrenti nella tua scrittura. È un binomio che rappresenta, tra le altre cose, la simultaneità del passato e del presente nell’arte e nella vita?

AS: Volendo sì. Anche se Francesco non è un fantasma, ma un uomo/una donna reale, e allo stesso tempo è frutto dell’immaginazione. L’adolescenza, poi, è una fase della vita piena di tensione un po’ per tutti, il momento in cui dentro di noi cominciano a formarsi delle certezze, come scolpite nella pietra, è un periodo con un nuovo tipo di fissità narrativa. Quindi direi che più che altro rappresentano un gesto verso le possibilità dell’immaginazione accanto alle apparenti realtà, qualcosa di strettamente connesso con i nostri dialoghi interiori su questioni metafisiche dell’epoca in cui iniziamo ad avvertire la fissità delle cosiddette narrazioni prestabilite o dominanti (la vita, la morte ecc. come dice Virginia Woolf) quando queste cose cominciano a influenzare la nostra esistenza in modo più incalzante..

FA: L’una e l’altra sono George e Francesco, il passato e il presente, ciò che è visibile e ciò che è nascosto sotto la superficie, il maschile e il femminile. Emily Dickinson ha scritto «Uno più Uno fa Uno. A me pare che per te Uno più Uno fa Uno, Due e Centomila allo stesso tempo».

AS:E anche l’essere vivi e l’essere morti, il tragico e al comico; tutti gli opposti in genere. Conteniamo moltitudini (per parafrasare Walt Whitman).

FA: Hai detto che non ci sono elementi autobiografici in questo romanzo, a parte il fatto che – come la madre di George –sei rimasta colpita dalla bellezza dall’affresco di del Cossa raffigurante un uomo lacero vestito di bianco vedendolo su una rivista. Ma sicuramente la presenza della vita di un autore nella sua opera non va cercata solo nella narrazione di fatti o aneddoti, un po’ come succedeva con i pittori dell’antichità che si intravedevano in un angolino o che guardavano l’osservatore da uno specchio. O come Hitchcock all’inizio dei suoi film. Dov’è che possiamo vederti fare capolino in questo libro?

AS: Da nessuna parte.  Io semplicemente sono lì che ammiro sbigottita l’assoluta bellezza di Palazzo Schifanoia.  Sto lì a guardare gli affreschi sapendo che è il genere di arte che ha dato il via alla grazia rinascimentale, è il genere di arte che ha creato Shakespeare, che ha creato Mozart, che è dietro tutte le forme d’arte gentili, generose e amabili che arricchiscono la vita e ci permettono di capire e di essere capiti.

FA: Mentre traducevo la parte del libro in cui parla Francesco mi sono resa conto che dentro di me era in atto uno strano meccanismo, una specie di tentativo semicosciente di fare una traduzione a ritroso, come se il mio compito fosse restituire al lettore la lingua vera (l’italiano del Quindicesimo secolo) dalla quale in teoria tu avevi tradotto il testo. Ovviamente questo ragionamento era senza senso, la verosimiglianza filologica non è il punto del lungo flusso di coscienza di Francesco. Quando finalmente l’ho capito mi sono sentita molto più a mio agio. Ma tutto ciò mi ha portato a riflettere sul fatto che L’una e l’altra si può riferire anche all’atto delle traduzione: una traduzione è l’originale e al tempo stesso non lo è. È l’una e l’altra cosa e nessuna delle due. La domanda che voglio farti è: temi mai – sia come autrice tradotta in numerose lingue, sia come lettrice di libri scritti in lingue che non conosci – che in traduzione ci siano sempre cose che non vanno ?

AS: Mi piace questa domanda, Federica.  E mi fido di te. Mi fido dei miei traduttori. Leggere, proprio come scrivere, è sempre un atto di fiducia, di fede, un’inclusività aperta.

FA: Come in altri tuoi romanzi, anche in L’una e l’altra c’è un personaggio misterioso, un imbroglione bugiardo, affascinante e inquietante che all’improvviso, dopo aver sconvolto le vite dei protagonisti, scompare senza lasciare traccia.

AS: Il romanticismo è pieno di immaginazione ed è esso stesso un borseggiatore che ruba nel nostro cuore. In alcune storie questa imbroglioneria, per coniare una nuova parola, è inevitabile.

FA: I tuoi libri sono un po’ come una scatola magica di riferimenti, citazioni, immagini che evocano altre immagini, altri libri, canzoni, dipinti e così via. Come strutturi e imbrigli le idee e i vari riferimenti? Come organizzi il tuo lavoro? Porti sempre con te un taccuino per prendere appunti non appena ti viene un’idea? Tracci schemi, mappe concettuali o altro prima di affrontare la scrittura di un romanzo o di un racconto?

AS: È il romanzo stesso a produrre la sua struttura mano mano che ci lavori. Devi avere la sensibilità necessaria per lasciare che la struttura si sviluppi. Tengo un taccuino in tasca, per quando non sono alla scrivania, e un altro accanto al letto, perché i romanzi e i loro personaggi continuano a parlare e a dirti cose qualunque cosa tu faccia, e bisogna sempre rimanere all’ascolto, essere sensibili a quello che dicono.  Per questo romanzo ho avuto anche bisogno di una timeline, per ricordarmi le cose realmente successe nel corso della vera vita di del Cossa.  La timeline è sulla mia parete, e va dal 1350 al 1600, in modo da inserire la vita di Francesco nel contesto di quella di altri pittori e di avvenimenti storici ferraresi, e per potere aver un quadro generale dell’epoca e della nazione. Mi è stata molto utile.  È stata una sorta di fil rouge della sincronicità.
Ma la cosa davvero necessaria è avere fiducia nel processo.  Se ho qualcosa inciso nel cuore (come Maria Stuarda, che diceva di avere la parola Calais incisa nel suo), sono queste tre parole: fidati del processo.

FA: In uno dei tuoi racconti fai incontrare la protagonista con la sé stessa adolescente: l’adulta prova a rassicurare la ragazzina, a placare la sua angoscia adolescenziale e la sua  ipersensibilità nei confronti della vita. Questo racconto, in un certo senso, mi sembra rappresentare il nocciolo della tua scrittura: il desiderio di rassicurare qualcuno  sul fatto che la vita è molto più complicata, ricca, difficile e allo stesso tempo più bella di quanto ci possa sembrare osservandola da una prospettiva limitata. La mia impressione è che per te raccontare storie sia qualcosa di imprescindibile dall’amore e dal rispetto per l’altro (quello che non siamo, quello che non siamo più, quello che ancora non siamo, ma che un giorno potremmo essere).

AS: Mi piace molto questa lettura.
Io penso che tutto quello che ho scritto riguardi la vita del dialogo, la vita nel dialogo, l’importanza, il potenziale insito nel dialogo.  Mi chiedo se tutto quello che ho scritto riguardi anche il nostro modo di leggere, non solo i libri, ma il mondo.  Ma chi sono io per dirlo? Non ne ho idea.  Non hai mai certezze su quello che fai. Bisogna affidarsi a quello che succede tra te e il libro – quel particolare libro, quel particolare dialogo.  Se lavori bene ne verrà fuori qualcosa di buono.  Come diceva James Joyce:«le cose buone vengono scrivendo».  La speranza è questa.

 

© Federica Aceto, 2016. Tutti i diritti riservati.

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