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La prima trans della narrativa occidentale. Il dottor O’Connor nella Foresta della notte

Timothy Beck Werth BIGSUR, Ritratti, Società

Questo articolo è apparso originariamente su The Awl il 10 agosto 2016 e viene qui riprodotto per gentile concessione dell’autore e della rivista.

di Timothy Beck Werth
traduzione di Laura Bortoluzzi

Quando il romanzo di Djuna Barnes La foresta della notte fu pubblicato nel 1936, scrivere un libro che esplorasse seriamente il tema dell’amore lesbico era un atto radicale. Grazie all’introduzione del suo editor, T.S. Eliot, il manoscritto riuscì a superare indenne la censura. Ma La foresta della notte non è solo uno dei testi fondativi della letteratura lesbica: vi si trova anche una delle primissime descrizioni della disforia di genere nella narrativa occidentale, e forse la prima trans mai apparsa sulla carta. In una serie di scene struggenti, il dottor Matthew O’Connor, ginecologo abusivo, spiega di essere intrappolato nel corpo di un uomo. Ben prima che esistessero parole come transgender e disforia di genere, Djuna Barnes mise una trans al centro del suo oscuro capolavoro. Eppure, come molti trans al giorno d’oggi, O’Connor è sempre stato liquidato come un banale travestito, se non peggio.

T.S. Eliot definì Djuna Barnes una scrittrice dal genio innegabile ma dal talento discutibile, mentre l’autrice si definiva la sconosciuta più famosa del ventesimo secolo. Il romanzo, cominciato quando era già famigerata tra gli americani espatriati a Parigi, ritrae donne omosessuali realmente esistite all’epoca, fra cui la stessa Djuna Barnes. La foresta della notte è figlia della scena letteraria della Rive gauche: la Parigi degli anni Venti, la Generazione perduta. Il romanzo è stato definito una «guida di culto al mondo omosessuale underground delle notti parigine che Djuna Barnes condivise con la sua amante, Thelma Wood», che nel romanzo prende le sembianze della brutale Robin Vote.

Se avete mai accarezzato l’idea di scrivere un romanzo scabroso dal sapore swiftiano su un vostro ex, allora sappiate che Djuna Barnes ha già fatto meglio di quanto potreste fare voi. Nella biografia a lei dedicata, Djuna, Phillip Herring ha raccontato che almeno due dei suoi più stretti amici l’aggredirono fisicamente per come li aveva ritratti nel libro. Nel capitolo finale del romanzo, Robin si umilia inscenando un rapporto sessuale con un cane davanti all’amante respinta. O forse no? È uno di quei romanzi che ti lascia con un’infinità di punti di domanda.

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Il libro ha una trama evanescente che ruota attorno al personaggio di Robin, impegnata a rovinare la vita di un’amante dietro l’altra. Mentre Robin è l’alter ego di Thelma, Nora Flood lo è di Djuna. Nora, mezza pazza e malata d’amore, pedina Robin nelle sue avventure notturne per i caffè di Parigi, finché Robin la lascia per un’altra donna. E ogni volta che Robin manda in pezzi la vita di qualcuno, la sua vittima si rivolge al dottore in cerca di consolazione.

C’è un capitolo in cui Nora irrompe nell’appartamento del dottor O’Connor nel cuore della notte, e lo trova a letto con le guance imbellettate, una parrucca bionda, una camicia da notte femminile, chiaramente in attesa di tutt’altra persona. Dopo un attimo di imbarazzo, Nora si limita a dire: «Dottore, sono venuta a chiedervi di dirmi tutto quello che sapete della notte».

Così il dottore si lancia in un bizzarro monologo sull’abilità con cui il vero intenditore riconosce la provenienza di un uomo dalle dimensioni e dall’eccellenza del suo pene («e alla Bastiglia, Dio m’è testimone, ce ne sono di belli come mortadelle allungate su un tavolo»). Ma il diversivo comico (incredibilmente osceno per l’epoca) arriva dopo un lungo lamento:

«Se li conosco, i miei sodomiti!», disse il dottore con aria infelice. «Lo so ben io contro cosa va a sbattere il cuore quando ne ama uno, specialmente se ad amare è una donna! Perché allora ecco cosa scoprono, che questo amante ha commesso l’errore imperdonabile di non sapere esistere – e si ritrovano con un pupazzo tra le braccia. L’ultimo round di Dio, con un avversario invisibile, perché il cuore possa essere assassinato e portato al volo in quel posticino tranquillo dove può mettersi seduto e dire: “Un tempo fui. Ora posso riposare”».

E in una scena precedente:

«Magari ai vecchi tempi ero una ragazza di Marsiglia che ci dava dentro sul molo con un marinaio, e forse è quel ricordo che mi perseguita. I saggi dicono che il ricordo delle cose passate è tutto ciò che abbiamo per futuro: è colpa mia se questa volta sono venuto fuori come non sarei dovuto essere, io che volevo una voce da soprano leggero e riccioli di grano scuro fino alle chiappe, un grembo grande quanto il paiolo del re e un seno alto come il bompresso di un peschereccio? E invece mi è toccata una faccia come il sedere di un bambino vecchio. Vi pare felicità, questa?»

[…]

«Dio, non ho mai chiesto di meglio che cuocere le patate di un brav’uomo e rimediargli un bambino ogni nove mesi di calendario. È colpa mia se il mio unico focolare è il casotto del cesso? E se non posso mai appendere sciarpa, guanti e ombrello a qualcosa di meglio che a una lastra di lamiera che mi arriva agli occhi, facendomi coraggio a tutti i costi perché il rimmel non coli via?»

«Non possiamo usare espressioni come disforia di genere senza aggiungere un grosso asterisco», mi dice in un’intervista telefonica il dottor Chris Freeman, membro direttivo della One Archives Foundation e professore di Inglese e Studi di genere alla University of Southern California. E aggiunge: «Per quanto riguarda l’ambiente culturale di cui scriveva Djuna Barnes, erano in tanti a condurre una vita molto anticonformista dal punto di vista del genere». Incalzato, prosegue: «Di certo il dottor O’Connor può essere visto come un personaggio rivoluzionario. Se non il primo, sicuramente quello descritto con maggior profondità. Quello che oggi verrebbe definito un disforico di genere».

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La professoressa femminista Shari Benstock ha scritto Women of the Left Bank: 1900-1940 a metà degli anni Ottanta, proprio sul finire della seconda ondata del movimento. Fra storia e critica letteraria, il libro mette insieme molte delle analisi sulla Foresta della notte. Eppure, mentre gli amici più intimi di Djuna Barnes erano convinti che fosse riuscita a dare un’anima al dottore, Shari Benstock, come tanti altri, lo considera un patetico travestito sempre a caccia di nuove prede (arrivando a paragonarlo a Hitler).

In un saggio del 1990, il poeta inglese Gregory Woods rincara la dose:

Soprattutto, è poco credibile come trans donna, è fin troppo uomo: falso a letto, quando si traveste per farsi penetrare dagli uomini, e falso sul lavoro, quando penetra le donne con finte scuse. Shari Benstock spiega come il «pettegolo e garrulo» dottore «fa una parodia del linguaggio femminile, rubandone storie e immaginario per insegnare alle donne come sono fatte» (Benstock, 1987, p. 266). Il problema è che, per quanto sia sincero e convincente, il suo travestimento nasconde sempre il fallo; per quanto fiammante di rossetto, la sua bocca racchiude sempre una lingua patriarcale.

Non c’è bisogno di scomodare la critica letteraria dell’era Reagan per trovare persone convinte che le trans sono solo gay vestiti da donna. Oggi rientra nella linea politica ufficiale di alcuni stati l’idea che le trans siano dei pervertiti in abiti femminili impegnati in una complessa messinscena per poter andare in giro a violentare le donne. Ma come dimostra La foresta della notte, ci sono sempre state persone la cui identità non poteva essere contenuta entro il sistema binario dei generi. I trans sono sempre esistiti, e noi gliene abbiamo sempre fatto una colpa.

«Il sistema binario dei generi è stata una delle finzioni più persistenti della modernità, ed è davvero una finzione», ha affermato il dottor Freeman. «Finalmente si è capito che la finzione è innegabile, finalmente si è capito che l’idea dell’esistenza di due e due soli generi, maschile e femminile, è del tutto fasulla. E non c’è bisogno di affannarsi a cercare nel passato tutte le volte in cui la finzione non ha retto. E scoprire che tutta questa storia dei due generi non è mai stata vera».

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Quando Djuna Barnes scrisse La foresta della notte, tra la prima e la seconda guerra mondiale, chiunque avesse una sessualità o un’identità di genere che non rientrava nel sistema eteronormativo era considerato un «invertito». Richard von Krafft-Ebing fu un sessuologo all’avanguardia che inventò la teoria dell’inversione sessuale. Si trattava di una teoria radicale, ma non abbastanza sofisticata da operare una distinzione fra genere e sessualità.

A differenza di Freud, Krafft-Ebing credeva che gli omosessuali lo fossero dalla nascita, per usare la terminologia moderna. Si pensava che i gay avessero un animo femminile, e i «travestiti», se come tali venivano riconosciuti, erano considerati omosessuali collocabili all’estremità del continuum dell’inversione. Se c’è qualcosa che accomuna le femministe radicali, Ted Cruz e i sessuologi all’avanguardia del diciannovesimo secolo, è la convinzione che le trans sono solo dei gay travestiti.

Il periodo fra le due guerre fu un’epoca di transizione drammatica, ed è difficile sostenere che Djuna Barnes sia stata la prima ad affrontare il tema della non conformità di genere. Il pozzo della solitudine fu scritto nel 1928 da una donna di nome John Radclyffe Hall e aveva per protagonista un’invertita lesbica di nome Stephen. Poi c’è Orlando di Virginia Woolf, che esplora la trasformazione di genere attraverso la lente del realismo magico. Il dottor O’Connor è stato paragonato spesso a Tiresia, il profeta gender bender della Terra desolata.

A ispirare la personalità del dottor O’Connor fu un irlandese-americano di nome Dan Mahoney, amico intimo di Djuna Barnes. La descrizione di Mahoney come un ubriacone, un filosofo da bar e una drag queen che girava per Parigi nel periodo fra le due guerre è stata tramandata e annacquata da varie generazioni di storici della Rive Gauche. Lo scrittore Charles Henry Ford, che fece una proposta di matrimonio a Djuna Barnes, disse di Mahoney: «Quello che avrebbe sempre voluto essere è una bella bionda con un centinaio di pargoli. Ma quello che è DAVVERO è, come dice lui, “una violetta avvizzita sotto una montagna di letame”». Mahoney era anche il medico abortista non autorizzato della Rive Gauche, quello che curava prostitute, artisti mantenuti e Djuna Barnes. Era un uomo che credeva di essere una donna e voleva essere madre e invece interrompeva gravidanze.

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Prima di scrivere La foresta della notte, Djuna Barnes fu una delle prime autrici americane a sfidare seriamente le leggi contro l’oscenità e ad aprire la strada al giornalismo partecipativo. A soli ventidue anni, si lanciò da un grattacielo e si sottopose ad alimentazione forzata come le suffragette in veste di stunt reporter per riviste come il Brooklyn Daily Eagle. Dylan Thomas, T.S. Eliot e James Joyce erano tutti grandi estimatori della sua opera, mentre ebbe qualche problema con Gertrude Stein. Secondo il suo biografo Andrew Field, Djuna Barnes si sentì insultata e trattata come un oggetto quando Gertrude Stein, durante il loro primo incontro, si limitò a dire che aveva delle «belle gambe». Djuna era famosa per la sua bellezza e Field insinua che Gertrude Stein fosse gelosa di come la guardava la sua compagna, Alice Toklas.

Ma mentre Joyce, Eliot, Hemingway e altri scrittori della Generazione perduta sono ancora oggi delle celebrità, Djuna Barnes è stata relegata al rango di autrice di nicchia. Essere una donna probabilmente non ha aiutato. Essere conosciuta come scrittrice lesbica (etichetta che odiava) probabilmente non ha aiutato. E passare la seconda metà della sua vita rinchiusa in uno studio del Greenwich Village a cercare di disintossicarsi dall’alcol di certo non ha aiutato.

Non a tutti piacerà La foresta della notte. Come alcuni dei migliori libri di Joyce, a volte è quasi illeggibile. Può essere di una cupezza angosciosa e di un fascino straziante, ma può anche disorientare all’inverosimile. Avevo sedici anni quando ho scoperto La foresta della notte. Ho visto un cartello in una libreria Borders che diceva «Letteratura lesbica», e il mio istinto di sedicenne ha pensato: «Wow, lesbiche». Ma con mio grande disappunto, e a meno di avere una passione perversa per l’oscurità della prosa modernista, nel romanzo non c’è nulla di così pruriginoso. Com’è giusto che sia, almeno a mio parere. Djuna Barnes scrisse libri su donne lesbiche per donne lesbiche. È già un miracolo che l’abbiano pubblicata.

Anche i primi lettori della Foresta della notte rimasero disorientati dal libro, e non solo per la sua prosa modernista astratta. Lo storico della letteratura Roger Austen ha scritto che questi primi lettori non capivano perché lo spudorato dottore sodomita non dovesse scontare «una congrua punizione» per la sua «vita depravata». Quel che è certo è che il dottore soffriva. Alla fine del romanzo, O’Connor impazzisce, spinto alla disperazione da un’esistenza senza scampo. In Djuna, Herring racconta che Dan Mahoney fu imprigionato in un campo di concentramento nazista perché straniero, gay e medico abortista.

Oggi abbiamo imparato la lezione. E se la moderna teoria del genere non è esattamente semplice, applicarla a questo libro è molto facile. I gay che si travestono sono sia gay che uomini. Le trans sono donne. Ma come la mettiamo con personaggi come il dottore, uomini che sanno di essere donne, ma non hanno mai avuto la possibilità di fare la transizione? Di recente, alcuni scrittori hanno cominciato a usare l’espressione «proto-trans» per riferirsi alle persone come O’Connor, uomini e donne trans che «non hanno fatto la transizione ma che un giorno usciranno dal guscio per essere ciò che sono veramente, a meno che la società non glielo impedisca». Non conosceremo mai i nomi e le storie degli innumerevoli proto-trans uomini e donne morti in segreto, ma il minimo che possiamo fare è ammettere che sono sempre esistiti.

© Timothy Beck Werth, 2016. Tutti i diritti riservati.

Timothy Beck Werth fa il copywriter e l’editor di giorno e il freelance di notte. Non potete seguirlo su Twitter.

 [Le citazioni sono tratte da La foresta della notte, Adelphi, Milano 1983, trad. di Giulia Arborio Mella.]

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