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Paz e il suo amico José Revueltas, un prigioniero politico

Guillermo Sheridan Autori, Ritratti, SUR

Pubblichiamo oggi un articolo che racconta l’arresto di José Revueltas attraverso la fitta corrispondenza tra Octavio Paz e Carlos Fuentes. L’articolo è uscito originariamente su Letras Libres dove Guillermo Sheridan cura una più ampia rubrica (che si può leggere qui), ringraziamo autore e testata per la concessione. Buona lettura!

di Guillermo Sheridan
traduzione di Francesca Clemente

Octavio Paz (un poeta) e José Revueltas (un narratore) erano amici dal 1933, anno in cui hanno militato insieme nell’Unione studentesca per gli operai e i contadini. Nel 1938 Revueltas pubblicò con l’amico sulla rivista Taller. Nel 1943 Paz ha scritto a proposito di Luto humano «Cristianismo y revolución: José Revueltas» sulla rivista Sur di Buenos Aires. Nel 1979 ha pubblicato un lungo articolo sul suo saggio giovanile intitolato «Segunda», che tratta di ciò che lui stesso ha definito il «marxismo cristiano» di Revueltas, ossia la sua «visione battagliera e contraddittoria del marxismo e del cristianesimo» (entrambi i saggi fanno parte di Generaciones y semblanzas, il quarto tomo di Obras completas). In Posdata, il libro del 1970 in cui ha analizzato la crisi politica durante la quale Revueltas si trovava prigioniero nel «carcere preventivo» di Lecumberri, Paz ha detto dell’amico: «è uno degli scrittori migliori della mia generazione e uno degli uomini più puri del Messico». Quando, a distanza di anni, sua figlia Andrea gli chiese in Conversaciones con José Revueltas cosa pensasse di quella frase, il vecchio «sorride e si accarezza il pizzetto; affonda un po’ il mento nel maglione e nel giubbotto», e risponde: «“È il linguaggio dell’amore che io e molti altri portiamo dentro di noi”».

Il 16 novembre del 1968

José Revueltas venne arrestato insieme a molti altri nel «carcere preventivo» di Lecumberri. Nello stesso periodo Paz viaggiava a bordo del Victoria da Bombay a Barcellona, dopo aver rinunciato al ruolo di ambasciatore messicano in India. Il 20 novembre Fuentes (che si trovava a Parigi) scrive a Paz che è in viaggio in mare aperto:

Saprai già che Pepe Revueltas è stato arrestato. Il governo lo ha invitato al «dialogo». Ma si trattava solo di una trappola. Lo hanno tenuto in isolamento per sette giorni nella camerata degli omosessuali e adesso lo accusano di furto, omicidio, sedizione e istigazione alla violenza. Abbiamo inviato una lettera di protesta al Le Monde e una al PEN International, ma il nostro PEN, diretto dal Bello Addormentato, non farà niente. Non è possibile che continuiamo a essere così misrepresented. Quando vieni qui, dobbiamo mettere in moto una serie di cose. Ho detto a Rita [Macedo, sua moglie] di tornare con la bambina. Dopo la storia di Revueltas non ci sono più dubbi: se torniamo in Messico saremo arrestati (or worse). [1]

Il 13 dicembre, a Nizza, Paz gli risponde; pensa che loro due e Fernando Benítez, assieme ai «giovani amici» Gabriel Zaid, José Carlos Becerra, José Emilio Pacheco, Carlos Monsiváis, Juan García Ponce, Juan Bañuelos debbano pubblicare un libro collettivo sul ’68: saggi, documenti, una cronologia, una «antologia dell’ignominia». E aggiunge:

Mi preoccupa la faccenda di Revueltas. Bisogna fare qualcosa. Un’altra questione da sbrigare immediatamente è la trasformazione del PEN Club in un organo che rappresenti la vera cultura messicana. Siamo la maggioranza: guarda la lista dei membri!

Un giorno prima, il 12, Paz aveva scritto a Arnaldo Orfila ringraziandolo dei messaggi di solidarietà per la sua rinuncia al ruolo di ambasciatore, ma aggiunse:

Spero che ora si possano canalizzare queste energie a favore di José Revueltas. Il suo caso è più importante del mio. Non so se sono state avviate le pratiche per ottenere la sua libertà. Ho letto una petizione firmata dalla maggior parte dei membri del PEN Club. Credo che non sia abbastanza. Ma ho pensato che io e Fuentes, con l’aiuto di molti amici, potremmo organizzare una campagna internazionale.

Oltre a questo, Paz propone come «questione da sbrigare immediatamente» la trasformazione del PEN Club nell’«organo che rappresenti la vera cultura messicana».

Il 10 giugno del 1969

Quando era ancora in Messico, Fuentes raccomanda a Paz di non tornare in patria per il momento. L’ambiente è «irrespirabile e invivibile […] Il massacro di Tlatelolco ha terrorizzato tutti, i ragazzi sono ancora in carcere, non c’è la benché minima prospettiva di dialogo, Martín Luis [Guzmán] si congratula per il trionfo della democrazia in Messico. Amen». Il 2 agosto aggiunge che, secondo lui, Díaz Ordaz ha dato il via a una vera e propria «campagna del terrore». Il 19 luglio José Revueltas scrive un «Mensaje a Octavio Paz». Nella lettera, che risale al periodo in cui Revueltas si trovava nel «carcere preventivo», lo scrittore racconta a Paz che il suo compagno di cella, Martín Dozal, un giovane maestro di ventiquattro anni, legge i suoi libri e, in particolar modo, la poesia «El cántaro roto»:

Martín Dozal legge Octavio Paz; le tue poesie, Octavio, i tuoi saggi, li legge, li riguarda e poi medita immensamente, ti ama immensamente, riflette su di te, qui in carcere tutti riflettiamo su di te, tutti questi giovani messicani ti pensano, Octavio, e ripetono gli stessi sogni che hai avuto tu durante la veglia. […] Perché se leggono Octavio Paz un motivo c’è. Non sono i giovani obesi e solenni che stanno là fuori, i segretari personali, i campioni di oratoria, i vincitori di fiori naturali, i futuri tiranni grassi di Cempoala, il rospo immortale. Sono l’altra faccia del Messico, del vero Messico, e tu, Octavio Paz, guardali in prigione, guarda il nostro paese incarcerato insieme a loro. Martín Dozal legge Octavio Paz in prigione. Bisogna rendersi conto di ciò che significa tutto questo, quanto è grande questa cosa, che speranza profonda c’è in questo semplice fatto. Ebbene prima o poi questo tempo, questi libri, questi insegnamenti che ci risvegliano dovevano arrivare. […] Questa tua poesia grandiosa, questo fulmine, Octavio, e l’ubbidienza ipocrita, la falsa costernazione e il pentimento vile degli accusati, dei quotidiani, dei sacerdoti, degli editoriali, dei poeti-consiglieri ricchi, sporchi, tranquilli che gridavano al ladro e nascondevano in fretta le monete, gli escrementi, per cancellare quello che avevano detto, per dimenticarlo, per far finta di niente, mentre Martín Dozal la leggeva e piangeva per la rabbia e noi facevamo tutti le stesse domande della poesia: «Solo il rospo è immortale?»

Il 25 dicembre (scrive Ángel Gilberto Adame in Octavio Paz. El misterio de la vocación) Paz firma una lettera aperta con Fuentes, Cortázar, Vargas Llosa, García Márquez, Juan Goytisolo, Norman Mailer, Alberto Moravia e William Styron che dice:

Noi sottoscritti, senza alcun titolo se non quello di intellettuali fedeli ai principi civili di giustizia, democrazia e rispetto dei diritti umani, desideriamo dichiarare la nostra solidarietà nei confronti dei prigionieri politici messicani, tra cui figura l’illustre romanziere José Revueltas, e fare un appello alle autorità messicane competenti affinché, in nome delle tradizioni libertarie e rivoluzionarie di un paese che ha dato vita al primo movimento di emancipazione popolare del Terzo Mondo nel nostro secolo, correggano le violazioni notorie alla procedura legale vigente nel caso di questi uomini – quasi tutti di età compresa tra i diciotto e i ventitré anni – che sono stati arrestati per la loro fedeltà allo spirito di libertà rivoluzionaria, che invochiamo, e concedano loro la libertà immediata e incondizionata.

Secondo Arnaldo Orfila, la lettera è apparsa «perlomeno su El Día» ed è stata letta su Radio Universidad. Paz chiede a Fuentes di inviargliela e prende nota di alcune riviste e quotidiani statunitensi con i quali poter intercedere per divulgarla ulteriormente.

Il primo gennaio del 1970

Le autorità del carcere di Lecumberri mandano i prigionieri per crimini comuni ad aggredire i prigionieri politici che il 10 dicembre avevano indetto lo sciopero della fame. Il 4 gennaio, a Austin, Paz scrive a Fuentes che è diretto a Cambridge, in Inghilterra. Farà uno scalo a New York e pensa «di approfittarne per rendere nota la situazione messicana, soprattutto il problema dei prigionieri politici». Aggiunge:

Bisogna riconoscergli un qualsiasi gesto di solidarietà, seppur minimo. Ho pure pensato di inviare un messaggio a Pierre Emmanuel, che è il nuovo presidente del PEN Club. Se vedi la moglie di Revueltas dille, per favore, che io non mi dimentico di loro e non ho intenzione di darmi per vinto. Non so se ti ho raccontato che Revueltas e [Eli] De Gortari mi hanno scritto. Io non ho risposto perché credo che una mia lettera potrebbe essere inutile o addirittura dannosa… però la loro situazione mi angoscia e mi tiene sveglio, un po’ come a tutti. Faccio quel che posso.

L’11 gennaio José Revueltas invia una lettera a Arthur Miller – credendo che sia ancora il presidente del PEN –, che aveva inserito in México 68: juventud y revolución ed è pubblicata parzialmente online. Revueltas racconta a Miller che i carcerati sono in sciopero della fame ormai da trentatré giorni. A Austin, nella stessa lettera a Fuentes, Paz parla di questo sciopero:

Ti confesserò – con te posso e devo essere franco – che non sono molto d’accordo con gli obiettivi dello sciopero della fame. Ripeto: con gli obiettivi, non con lo sciopero. E ti dirò di più, lo sciopero mi sembra un grave errore. C’è una regola universale ed elementare che è applicabile sia al gioco d’azzardo che alla politica: non bisogna giocarsi il tutto per tutto se non alla fine o quando si è sicuri che la puntata sarà l’ultima e definitiva. Un’altra regola, che è la conseguenza di quella precedente: non si deve mettere l’avversario in condizione di rispondere con misure estreme se non si ha la possibilità di replicare con misure ancora più estreme e decisive. Il governo non è così debole da accettare la petizione di libertà immediata e incondizionata – al contrario, proprio perché è una domanda incondizionata è obbligato a non concederla – e i prigionieri, davanti alla risposta negativa del governo, non hanno alternativa se non quella di portare lo sciopero alla conseguenza più estrema: l’estinzione. Ci sono due possibilità: un suicidio collettivo o un cedimento da parte del governo, causato dalla pressione dell’opinione pubblica nazionale e internazionale. Il gruppo che ha concepito quest’idea assurda conta sulla seconda ma, prima di arrivare a esaminarla, voglio soffermarmi sulla prima, for the sake of the argument. Il suicidio collettivo è molto improbabile, sia perché non è facile che quasi cento persone si immolino nello stesso momento (ci sarà sempre qualcuno che cederà e questo favorirà dissensi, dispute o divisioni), sia perché se si presentasse davvero questa possibilità, per un miracolo di abnegazione, il governo avrebbe a disposizione i mezzi per impedire questo autosacrificio. Per quanto riguarda la seconda possibilità: né gli scioperanti né i loro amici e simpatizzanti possono fare affidamento su organismi nazionali o internazionali per intraprendere una grande campagna. In Messico il governo controlla tutti i mezzi di informazione e i partiti di «opposizione» ufficiale non muoveranno un dito per gli scioperanti: all’estero, le grandi organizzazioni internazionali – dalla destra alla sinistra, da Washington a Mosca, senza dimenticare Pechino e l’Avana – non hanno nessun interesse nella causa degli scioperanti. E anche se a dispetto di tutto questo si riuscisse a infiammare l’opinione pubblica mondiale, l’esperienza mostra che l’indignazione internazionale da sola è impotente, come abbiamo visto in tutte le dittature del Novecento secolo, dagli Urali alle Ande. Infine, l’opinione pubblica messicana dall’ottobre del 1968 è schiacciata o anestetizzata dalla propaganda governativa. L’opinione internazionale, come tu sai, vive un momento di apatia e sfiducia. Un’ondata di «sensatezza» copre quasi totalmente l’Occidente. Insomma secondo me lo sciopero della fame avrebbe dovuto avere obiettivi limitati e concreti. Gandhi non ha mai digiunato per pretendere che gli inglesi se ne andassero immediatamente e incondizionatamente. La forza dello sciopero della fame sta nel fatto che rappresenta una misura estrema, una misura estrema che non ha pretese incondizionate ma che si propone obiettivi negoziabili: è un espediente del debole per convincere il forte. È un atto riflessivo, non un’azione disperata e irrazionale. Ti dirò tutto ciò che penso: vedo in questo atto un infantilismo e un’enfasi che occultano un certo gusto per la catastrofe, un’inclinazione quasi morbosa verso il martirio. Superbia e nostalgia per la sconfitta… saremo testimoni di quel tipo di reazione, in Messico e in tutto il mondo; ci saranno sempre più atti di disperazione e di autosacrificio…

Lo sciopero della fame è stato revocato il 20 gennaio, dopo «mille ore», come riportato in un documento dei prigionieri. Qualche mese dopo, il 19 novembre del 1970, a Cambridge, Paz torna a parlare di questo tema in una lettera indirizzata a Fuentes. Alcuni giorni prima, poco dopo il termine della sua presidenza, Díaz Ordaz aveva ribadito in televisione le accuse nei confronti di Paz, che secondo lui non aveva rinunciato al ruolo in ambasciata. Paz disdegna «la meschinità di quell’uomo irascibile e dispeptico». I problemi sono altri:

Ciò che mi distrugge non è la sfacciataggine del nostro presidente (il suo mandato è terminato nel giro di una settimana) ma le condanne recenti. Sono mostruose e riguardano un tema politico imminente in Messico, quello della liberazione dei prigionieri politici. Un tema imminente e precedente a qualsiasi tentativo di riforma. Se il nuovo regime vuole governare e non solo dominare e conservare il potere, la prima cosa da fare è liberare i prigionieri.

Paz è tornato in Messico nel febbraio del 1971. A marzo è stato a Lecumberri a trovare Revueltas (così è stato riferito a Luis de la Barreda, l’addetto alla sicurezza). Hanno chiacchierato per un’ora nel giardino annesso alla camerata, sotto il sole. José Revueltas è stato rilasciato «per protesta» nel maggio del 1971, ma non gli sono mai stati ritirati i capi d’accusa e di fatto, come ha detto Martín Dozal, nel 1976 è morto con una sentenza di condanna.

 

[1] Nella corrispondenza Fuentes soprannomina José Luis Martínez, il direttore dell’Istituto Nazionale di Belle Arti nei sei anni di carica di Díaz Ordaz, «il Bello Addormentato».

 

© Guillermo Sheridan, 2017. Tutti i diritti riservati.

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