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Due osservazioni su Rodolfo Walsh

In attesa dell’uscita di Variazioni in rosso [1], uno dei testi più classici di Rodolfo Walsh, pubblichiamo un estratto di una lectio magistralis tenuta da Ricardo Piglia sull’autore. 

«Due osservazioni su Rodolfo Walsh»
di Ricardo Piglia
traduzione di Gianluca Di Cara

Ricardo Piglia analizza il modo in cui l’autore di Operazione massacro ha affrontato con la propria letteratura i punti ciechi dell’esperienza, gli avvenimenti impossibili da narrare, e il modo in cui le storie e le allegorie cui fa ricorso lo avvicinano a Kafka, Borges e Brecht.

1.
Vorrei analizzare il modo in cui uno scrittore può raccontare un’esperienza estrema e riportare eventi che sembrano di per sé impossibili da narrare. Parlo del modo in cui Walsh racconta la morte di sua figlia Vicky – la giovane guerrigliera uccisa in uno scontro a fuoco con i militari fedeli alla dittatura – e scrive quella che oggi è nota come la «Lettera a Vicky [2]», che iniziò a circolare clandestinamente nel 1976.

Dopo aver ricostruito il momento in cui viene a sapere della morte della figlia e il gesto che accompagna questa rivelazione («Sentii il tuo nome, pronunciato male, e impiegai qualche secondo ad assimilarlo. Iniziai a farmi il segno della croce, meccanicamente, come quando ero ragazzo»), Walsh scrive: «Questa notte ho fatto un incubo molto potente, in cui vedevo una colonna di fuoco, poderosa ma dai confini ben marcati, che sgorgava da un qualche abisso». Un incubo quasi senza contenuto, condensato in un’immagine quasi astratta. E dopo scrive: «Oggi sul treno un uomo diceva “Soffro molto, vorrei andare a dormire e risvegliarmi fra un anno”». E conclude ancora: «Parlava per sé, ma anche per me».

Vorrei soffermarmi su questo cambiamento, su questo movimento con cui la parola passa all’altro che parla del proprio dolore, a uno sconosciuto su un treno che dice «Soffro, vorrei risvegliarmi fra un anno». È quasi un’ellissi, una piccola presa di distanza rispetto a ciò che sta cercando di dire, uno scivolamento dell’enunciazione: qualcuno parla per Walsh ed esprime il dolore in un modo sobrio, diretto e molto toccante. Cambia di poco, pochissimo, un pronome per far sì che qualcuno possa affermare al suo posto proprio ciò che lui desidera affermare. Una lezione di stile, un tentativo di condensare l’esperienza cristallizzata.

Walsh ricorre a questo stesso espediente nel testo in cui racconta le circostanze della morte di Vicky, la «Lettera ai miei amici [3]». Narra l’accerchiamento della casa a opera dei militari, la resistenza e lo scontro e, per descrivere ciò è successo, cede di nuovo la parola a un’altra persona. Dice: «Sono venuto a sapere della testimonianza di uno di quegli uomini, una recluta», e trascrive quindi il racconto della recluta che accerchiava la casa. «Lo scontro è durato più di un’ora e mezza. Un uomo e una ragazza più giovane sparavano dall’altro. La ragazza ha saputo farsi notare perché, ogni volta che sparava una raffica di colpi e noi ci tuffavamo di lato per non farci colpire, se la rideva». La risata è lì, narrata da un altro; l’estrema gioventù, lo stupore: tutto si condensa nel racconto. La sua impersonalità e l’ammirazione dei suoi stessi nemici rafforzano l’eroismo della scena. Quelli che vanno a ucciderla sono i primi a riconoscere il valore di Vicky, come nella migliore tradizione dell’epica. Allo stesso tempo, il testimone è anche garante della veridicità della narrazione e permette allo scrittore di osservare la scena e di narrarla, come se fosse un altro. Proprio come nel caso dell’uomo sul treno, anche qui c’è un cambio di narratore e Walsh cede la parola a un’altra persona che sintetizza ciò che lo scrittore vuole dire.

Forse quel soldato non è mai esistito, come forse non è mai esistito nemmeno quell’uomo seduto sul treno; quel che importa, però, è che siano lì per poter narrare il punto cieco dell’esperienza. Può essere inteso come una finzione e ha ovviamente la forma di una finzione destinata a dire la verità. Il racconto si sposta verso una situazione concreta in cui c’è dell’altro, qualcosa di indimenticabile, che permette di concretizzare e rendere visibile ciò che si desidera dire.

Walsh aveva fatto qualcosa del genere già molti anni prima, nel 1964, quando cercava di raccontare il modo in cui si era lasciato coinvolgere dalla storia. Nel prologo alla terza edizione di Operazione Massacro, Walsh narra una scena iniziale; narra, per così dire, la finzione dell’origine, sintetizzando così l’entrata in scena della storia e della politica nella sua vita. Una sera del 1956, mentre si trova in un bar di La Plata dove va sempre a parlare di letteratura e a giocare a scacchi, si odono prima degli spari e poi un rumore di persone che corrono. Un gruppo di peronisti e di militari ribelli assalta il comando della Seconda Divisione dell’esercito: è l’inizio della fallita rivoluzione di Valle, che si concluderà con la repressione clandestina e le fucilazioni di José León Suárez, le basi su cui Walsh costruirà la sua denuncia, Operazione Massacro.

Quella sera, Walsh esce dal bar con gli altri avventori, corre lungo le strade alberate e alla fine si rifugia a casa sua, vicina al luogo degli scontri. E solo allora narra: «Non posso dimenticare che, attaccato alla persiana, ho sentito morire un soldato per la strada. Quell’uomo non diceva: “Viva la patria!”, ma solo: “Non lasciatemi solo, figli di puttana”». Una lezione di storia, ma anche un’altra lezione di stile. Ancora una volta, cede la parola, dando a un’unica scena e a un’unica voce più significati. Ed è proprio quel soldato steso a terra, che sta per morire, quello che racchiude in sé una fitta rete di significati distinti. Ancora una volta la parola è ceduta all’interno della narrazione, spostando verso l’altro l’esperienza della storia.

Walsh ci mostra in che modo possiamo narrare ciò che sembra quasi impossibile da dire. La letteratura sarà il luogo in cui è sempre l’altro a parlare. O, per meglio dire, lo stile sarà sempre quel movimento verso un altro enunciato, una presa di distanza rispetto alle proprie parole.

2.
La capacità di raccontare in questo modo ellittico è definita da una qualità, per così dire, antiromanzesca: la brevità, la rapidità, la temporalità spezzata, la capacità, insomma, di costruire la storia a partire da situazioni minori, scene fugaci, linee di dialogo. Non esiste uno sviluppo lineare inteso nel senso narrativo tradizionale. Il racconto va avanti a raffiche, con grandi tagli e scansioni, improvvisi scoppi di azione. In questo senso, le narrazioni di Walsh sono collegate ai brevi racconti, alle allegorie e agli stili concisi tipici della prosa di Kafka, di Borges e di Brecht.

Il senso della finzione non è meramente linguistico, ma dipende dalle referenze esterne del racconto e alla situazione extraverbale. Il traduttore del suo racconto «Nota al pie» comprende ben presto che la letteratura non è fatta di sole parole: «Uno poteva sapere come si chiamava una cosa in due lingue, e i vari modi di chiamarla nelle due lingue, ma non sapeva che cos’era questa cosa». Mostrare questa verità referenziale, senza mai nominarla, è una tecnica narrativa chiave per la finzione di Walsh. Basta pensare a «Esa mujer», il più celebre dei suoi racconti; chiunque può leggervi la disputa tra due uomini per il cadavere perduto di una donna, ma finché non si sa che quella donna – mai nominata – è Eva Perón, l’intero racconto non funziona. L’effetto della finzione dipende da una lettura in grado di integrare il contesto e decifrare l’implicito della storia.

La definizione più esplicita di questo modo di leggere appare in un’intervista del 1970, in cui Walsh interpreta in chiave politica il suo ultimo racconto, «Un oscuro día de justicia» (1968). Il racconto narra della storia di alcuni ragazzi irlandesi in un collegio cattolico della provincia di Buenos Aires, ma Walsh insinua che si possa interpretare anche in un modo diverso, cambiando la collocazione storica della vicenda in un presente più vicino, con un richiamo agli eroi e ai salvatori che vengono da fuori il paese (come Guevara o Perón) per risolvere i conflitti. Il racconto allude molto sottilmente al contesto che permetterebbe di inferire la lettura, più o meno allegorica, proposta da Walsh. Non c’è nessun indizio, all’interno del racconto (salvo la parola pueblo, ovvero popolo, per riferirsi agli abitanti del collegio), che possa definire meglio questo senso.

Un altro esempio ancora più chiaro e programmatico è quello del 1969, anno in cui a Walsh e ad altri autori viene chiesto di scegliere il miglior racconto che abbiano letto, affinché possa essere inserito in un’antologia. Borges, Mujica Láinez e Sabato ne scelgono di molto prevedibili, mentre con la sua scelta Walsh definisce nettamente la sua poetica narrativa: propone un brevissimo racconto cinese, anonimo, che intitola «La rabbia di un uomo di valore» [4]. Da una parte dimostra che la letteratura non è fatta solo di grandi nomi, ma che nel vasto mare dei racconti esistono anche esempi di straordinaria efficacia narrativa; dall’altra, Walsh politicizza la lettura dell’apologo cinese, con un riferimento alla lotta dei vietnamiti contro l’imperialismo statunitense. Il racconto narra di resistenza all’autorità e di coraggio individuale e niente, al suo interno, permette di carpire questo contesto storico. Salvo l’interpretazione di Walsh, che legge questa storia microscopica come un esempio immaginario, un exemplum fictum, di una realtà assente.

C’è qualcosa della costruzione dell’ostranenie, il «vedere in un altro modo» dei Formalisti russi, in questo spostamento del contesto che modifica il senso della narrazione. Si tratta di una certa configurazione interpretativa che nel testo c’è e non c’è e che, per concretizzarsi, dipende in tutto e per tutto dal lettore. L’avvenimento, il fatto, è lo stesso. A cambiare sono il quadro di riferimento e, di conseguenza, il significato. L’operazione politica consiste nell’introdurre una nuova prospettiva – un’inquadratura – che permetta di vedere in modo diverso ciò che è reale.