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«Rumore»: un racconto di Alan Pauls

Alan Pauls Alan Pauls, Racconti, SUR

Pubblichiamo oggi «Rumore», un racconto inedito di Alan Pauls, accompagnato da un breve commento dell’autore, che ringraziamo.

di Alan Pauls
traduzione di Giulia Zavagna

Mio padre è morto di un attacco di cuore il pomeriggio in cui Cage e Duchamp giocavano a scacchi in televisione. Mio padre, ovviamente, non arrivò a scoprirlo. Buttò indietro la testa, come se una mano invisibile lo prendesse per i capelli – per quelle ciocche cascanti, rade, che gli facevano da capelli nella parte bassa del cranio –, si precipitò in avanti e affondò la faccia nel fragrante pranzo che non assaggiò mai, un piatto di risotto ai funghi, seconda specialità della sua quarta moglie. (La prima era la gelosia.) Il tutto, da quando si sedette a tavola alla sua morte, durò quattro minuti e trentatré secondi, stando al calcolo che fece la moglie, che vidi alla veglia, e poi alla cerimonia di cremazione, e poi alla prima e ultima riunione che ci fu con gli avvocati e poi, cinque anni più tardi, in un programma televisivo di mezzanotte, che raccontava barzellette oscene con un barboncino in ogni mano, e successe in un quartiere della periferia di Buenos Aires, molto lontano dallo studio televisivo dove i due mostri sacri dell’arte contemporanea dilatavano deliberatamente le loro trance di riflessione per esasperare i cameramen, gli assistenti di direzione e l’appariscente imbecille che faceva da anfitrione del programma.

Per il resto, a mio padre della musica non importava nulla. Era sordo come una campana, fatto che in qualche modo potrebbe essere stata un’attenuante alla sua ignoranza. Ma è possibile che la sua fosse una sordità volontaria – era la tesi della sua quarta moglie, che ho sempre detestato ma che lo conosceva come nessun altro –: altrimenti non si spiega perché fosse così ostile con i cornetti acustici. L’unico contatto che aveva avuto con l’arte contemporanea era la pagina strappata da una rivista che tappezzava il cassetto del comò dove teneva i calzini, e che riproduceva il ritratto che Picasso fece a Gertrude Stein. Non conosceva Cage né Duchamp, e se glieli avessero presentati probabilmente li avrebbe presi per una coppia di viziosi consumati da qualche segreta depravazione: chirurghi, tassidermisti, forse becchini. Non che odiasse gli artisti. Semplicemente non aveva alcuna sensibilità. Era anestetizzato, simbolicamente e fisicamente anestetizzato. Una volta si era aperto un sopracciglio con l’angolo di una finestra e il medico di guardia che l’aveva visitato l’aveva cucito direttamente. Mio padre non ha nemmeno aperto bocca: fu necessario perfino avvisarlo che avevano terminato la medicazione e che poteva andarsene.

Io ero un ragazzo quando morì. In quel momento ero in casa, a Banfield, Temperley, non ricordo bene. Ma ero nella mia stanza, come la quarta moglie di mio padre chiamava il magazzino di cianfrusaglie in cui aveva accettato di stendere un materasso per me, e stavo ascoltando la radio, al programma di Pola Peiping – del quale già allora, che avrò avuto sei, sette anni, in ogni caso non più di dieci, ero un fanatico ricalcitrante –, «Williams Mix» di Cage, quando dalla sala da pranzo – poiché quella cavalla della quarta moglie di mio padre chiamava nell’antro unto in cui aveva trasformato quello che era il garage originale della casa – arrivò un suono morbido, soffice, umido come uno sciabordio, che si era mosso direttamente dal tavolo, dove il volto di mio padre era appena crollato sul materassino di riso e di funghi, per infilarsi con un grande senso dell’opportunità nella sequenza di rumori che propagava la mia radio.

Molti anni dopo – finiva un secolo e ne iniziava un altro, cambiavano il millennio o la stagione, chi potrebbe esserne sicuro –, approfittando del fatto che mi trovavo a Milano invitato al Quarto Congresso Internazionale di Teoria delle Eccezioni, mi sono iscritto per partecipare come micologo amateur al gioco a premi di domande e risposte Lascia o Raddoppia, il programma più visto della televisione italiana. Dubito che nella mia vita mi succederà di nuovo di vincere duecentocinquantamila euro con tanta facilità. Eppure non l’ho fatto per soldi. Nessuno si imbarcherebbe in un’avventura del genere per soldi. Era il mio tributo personale a Cage, che nel 1958, tra la composizione di «Fontana Mix» e l’esecuzione di «Sounds of Venice», aveva fatto in tempo a vincere, anche lui rispondendo a una domanda sui funghi, il premio più alto dello stesso programma (seimila dollari del 1958, l’equivalente di quelli che oggi sarebbero più o meno ottantasettemila euro). Lawrence, l’unico figlio di Cage, apparve in camera, pallido e zoppo, per consegnarmi l’assegno. Non l’ho accettato, naturalmente, e Carla Bruni, la valletta del programma, che aveva passato tutto il tempo a farmi gli occhi dolci dall’altro lato delle telecamere, si è dovuta appoggiare al suo truccatore personale per non svenire dalla sorpresa.

Quella sera ho cenato con Lawrence. Era un uomo mediocre che parlava a voce molto bassa, credendo così di fare onore alla scuola di suo padre. Maltrattava i camerieri senza motivo. Una brusca raffica di malinconia mi ha impedito di finire la cena. Lawrence mi ha invitato a salire nella sua stanza, una sontuosa suite con vista su Piazza Brunelleschi e, una volta lì, come mezza dozzina di scarpe ortopediche in vista, sparpagliati sul tappeto, mi ha offerto droghe di ogni tipo. Ho accettato un finger di prendimi. Ha aperto il frigobar: ne aveva almeno dieci bicchieri pieni, pronti per l’uso. Prendimi autentico, di prima qualità. Non so come siamo arrivati fin lì, ma mezz’ora più tardi parlavamo delle nostre vite di figli. Lui ha messo dei video con registrazioni di vecchie presentazioni del padre, che si portava sempre dietro in caso lo invitassero a fare qualche conferenza all’università. È stato allora che ho visto per la prima volta Cage giocare a scacchi con Duchamp. In calce all’immagine immobile, in cui i due giocatori non facevano altro che invecchiare, c’era la data della partita, il giorno della morte di mio padre. Lawrence, infastidito, voleva mandare avanti il video. Io l’ho fermato. «È tutto così», protestò, «va avanti così per ore». «Lo so», gli ho detto. Ho aspettato un attimo. Lawrence si è alzato e si è servito dei finger. Duchamp alzò una mano e la mantenne sospesa sulla scacchiera, le punte delle dita che quasi sfioravano la testa di un alfiere bianco. Poi, pentito, la ritirò. Allora ho sentito un rumore, qualcosa di morbido e umido, come uno sciabordio, e Cage, che aveva appena dato una lunga succhiata al suo bocchino, ha girato la testa e ha guardato fuori dall’inquadratura con una distratta curiosità.

 

***

un racconto di Alan PaulsHo scritto «Rumore» su commissione, per una rivista di musica diretta da Diego Fischerman che pubblicava (e pagava!) un racconto di un autore argentino per ogni numero, ma pensando anche – che gloria, lo strabismo – a una rivista molto più antica, anche questa di musica, chiamata Ruido, che faceva Pablo Schanton con – credo – Pablo Schteingart, agli inizi degli anni Novanta. Quindi ho scritto il racconto con in testa due riviste che parlavano di musica che io praticamente non conoscevo: classica quella di Fischerman, pop-elettronica quella dei due Pablo. Non ho scritto per soddisfare un tema o un’aspettativa (cosa scrivono gli scrittori quando devono scrivere «di musica?») ma piuttosto per vedere in che modo quello che scrivevo poteva scivolare nei contesti – ed eventualmente dialogarvi – di quelle due riviste che mi ricordavano le mie lacune e io, forse proprio per questo, rispettavo e leggevo. Come previsto, ho preso la musica dal suo lato più crudo, quello del rumore. Mi sono sempre piaciuti i rumori che si sentono nei concerti dal vivo. Di fatto, per molto tempo sono stati la sola ragione che a mio avviso giustificava l’andare a sentire musica dal vivo. Al contrario di quello che mi succedeva con il cinema, dove avrei sgozzato il mio vicino di poltrona per non abbassare la voce mentre deglutiva o tossiva, per il rumore dei culi che si sistemano a sedere, il fruscio dei cappotti, i bisbigli, lo scricchiolare del legno, le porte che si aprono una volta iniziato lo spettacolo e fanno entrare il rumore dalla strada, tutto il brusio che a prima vista attenta all’integrità della musica mi sembra che la renda più bella e complessa, più materiale, più tesa, la tempra e le dà suspense. Il rumore – con la sua natura accidentale – ha una potenza che la musica sfiora solo al prezzo di degradarsi, di trasformarsi in quel dispotismo invadente che subiamo in ascensori, negozi o attese telefoniche. E quando ci si mette, cambia tutto: quello che si ascolta, ovviamente, ma anche quello che si vede, si immagina e si pensa. Il rumore è l’unità minima della trasformazione di qualsiasi cosa. È ciò che connette qualsiasi cosa con un altro mondo. Per questo il protagonista di «Rumore» è il rumore (e la sua relazione con la televisione, l’ecosistema antirumore per eccellenza); un rumore in particolare: quello che fa una faccia che crolla in un piatto di risotto ai funghi, che segna la vita del narratore della storia e si impone, attraversando lo spazio e il tempo, in una famosa immagine televisiva in cui due geni dell’arte contemporanea – due impassibili militanti del rumore – giocano a scacchi in silenzio. Come l’impermeabile che Fellini aveva in grembo mentre rispondeva a una vecchia intervista della RAI, così vecchia che gli intervistati entravano in scena con ancora addosso giacche e cappotti, una scheggia di realtà caduta in mezzo a uno studio televisivo per ricordarci che da qualche parte c’era un altro mondo.

© Alan Pauls, 2012. Tutti i diritti riservati.

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