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Pedro Lemebel, un caso a parte

Pubblichiamo un interessante testo di Jaime Riera Rehren su uno degli scrittori più atipici dell’attuale letteratura cilena, Pedro Lemebel, ringraziando l’autore e la rivista Artifara, dove è stato originariamente pubblicato in spagnolo.

di Jaime Riera Rehren
Traduzione di Giuseppe Trovato

Disinibito, provocatore, audace, irriducibile ed eccessivo. Questi aggettivi vengono generalmente usati in Cile per fare riferimento a Pedro Lemebel. E per quanto concerne la sua produzione artistica e letteraria gli aggettivi si moltiplicano all’infinito, accompagnati da dotte disquisizioni circa un presunto neobarocco latinoamericano. Ciononostante lo stesso Lemebel non manifesta particolare interesse per simili questioni e ha sempre messo in luce il suo orgoglio di autodidatta e la sua eccentricità in seno al panorama letterario. Da dove arriva questa mosca bianca della letteratura cilena contemporanea, sempre in grado di sfuggire a qualsiasi tentativo di vedersi attribuita un’etichetta circa la sua identità? Durante la dittatura militare era più facile classificarlo: eroe del movimento gay, membro della resistenza, comunista, protagonista del panorama artistico con le “Yeguas del Apocalipsis” (Cavalle dell’Apocalisse), travestito che sfidava apertamente il conformismo culturale e politico di quella società sprofondata nella notte e tenuta in riga dal bastone patriarcale, un corpo fragile che rischiava la pelle sul suolo pubblico di una città devastata e ostile. Ma nonostante ciò Lemebel sconvolgeva chiunque: la sua voce flebile e lacerata proveniva dalla periferia polverosa di Zanjón de la Aguada, una delle più putride ferite di quella parte di Santiago normalmente definita come “quartieri popolari”, una voce in disaccordo con tutte le liste canoniche.

Da allora è passato molto tempo e sebbene Lemebel abbia in numerose occasioni tentato di uniformarsi e integrarsi in un contesto di tolleranza repressiva dove si mettono in mostra i prodigi e i progressi della democrazia, questi continua a svolgere un ruolo sempre nuovo in seno al panorama culturale di un Cile più moderno, allorché la critica letteraria non manca di profondere impegno per relegarlo a un ambito di difficile classificazione. Carlos Monsiváis, ad esempio, stabilisce una rete di parentela con Lemebel: l’argentino Néstor Perlongher, il messicano Joaquín Hurtado, i cubani Severo Sarduy e Reinaldo Arenas e l’argentino Manuel Puig. Il fil rouge tra questi autori sarebbe “l’era della rivendicazione” (Perlongher, Arenas, Hurtado), “la sperimentazione radicale” (Sarduy) nonché il “contributo festoso e vittorioso di una sensibilità vietata” (Puig). Il messicano Monsiváis aggiunge:

In tutti loro il lato gay non si palesa tanto nell’identità artistica quanto nell’atteggiamento di coraggio, determinazione e qualità con cui si affronta un tema e che si concretizza nel movimento delle coscienze i cui valori comuni e la notevole produzione di opere segnano una tendenza culturale.

Sin dalle sue prime apparizioni in pubblico, Pedro Lemebel ha sperimentato varie forme di arte visiva e teatrale in luoghi e strade del Cile, ha scritto romanzi e racconti che sono stati pubblicati in Spagna e tradotti in vari paesi europei ma, a mio avviso, la sua genialità e la sua qualità letteraria, caratteristiche che lo distinguono dagli autori citati in precedenza, si manifestano in un genere che sembrava destinato all’estinzione malgrado godesse di una tradizione di tutto rispetto in lingua castigliana: la cronaca urbana. Visto da vicino, Lemebel riscatta la tradizione di questo genere attuando modifiche sostanziali, vale a dire che non mantiene il tono né la tematica affrontata dal cronista di lingua creola del XIX secolo e inizi del XX, uno stile sottoposto in genere a convenzioni regionaliste e abbastanza conformi al clima dei saloni e dei palazzi signorili. Piuttosto Lemebel adotta in maniera decisa il punto di vista degli emarginati, avvalendosi di un linguaggio assai espressivo che infrange tutti gli schemi della bella prosa descrittiva e che si nutre di un’oralità abbondantemente contagiata. I cilenismi e le metafore eccessive utilizzate da Lemebel sono caratteristici di un registro popolare che in virtù della loro carica espressiva si sono estesi al modo di parlare della maggior parte della popolazione e che tuttavia risultano difficili da tradurre perfino nello spagnolo di altre regioni, come si riscontrerà in seguito. In ogni modo, l’eco musicale di molte di queste parole consente di intuirne senza difficoltà il significato a partire dal contesto. Ascoltiamolo.

Eccola lì scarabocchiata sul muro della notte, con un cappello a maglia, tacchi e borsetta rossa; sola e affamata tesse la ragnatela blu da un estremo all’altro di quella strada di studi e uffici, a cinque isolati dal mio quartiere. Tira fuori una sigaretta in modo misterioso e delicato; la vecchia non fuma, per questo non riesce ad accenderla e aspetta quel giovane che dal fondo della strada avanza al ritmo scandito dalle sue scarpe; pensa a lui mentre si avvicina annusando l’aria angusta della notte, alla ricerca di quel profumo fresco; ha gli occhi semichiusi per la gioia e per il catrame delle sue ciglia; con la lingua lambisce i baffi sbiaditi, sogna e ricorda confusamente la storia imprecisa dei suoi quindici anni. È la vecchia, la madonna con le sottovesti di flanella che attende che i destrieri vadano a nutrirsi da lei; forza bello, gli sussurra; vieni tesoro, gli grida; senti piccolo come sta l’uccellino…

I protagonisti della notte hanno paura, i nemici crudeli sono appostati agli angoli e quella notte misteriosa rappresenta proprio l’ambito d’azione di molte delle cronache di Lemebel. Molte di queste cronache ricordano amori fugaci iniziati per strada, a volte caratterizzati dalla violenza e da rischi mortali, ma quasi sempre lambiti da una tenerezza piena di speranza. Oppure si tratta di evocazioni liriche di amici, amiche o fratelli che hanno perso la sfida contro l’aids. Nondimeno, l’occhio e il corpo del cronista non si limitano a osservare questi scenari: man mano che si diffonde la notizia e la curiosità del quartiere alto, si profilano orizzonti che gli consentono di osservare altri aspetti umani e di lasciar trapelare il suo feroce sarcasmo nei confronti della “gente per bene”, tra cui naturalmente non mancano amici condiscendenti.

Come se l’orologio della storia fosse ritornato ai tempi della stirpe arrogante, intorno agli anni Quaranta, quando la capitale pullulava di famiglie nobili imparentate tra loro dalle lettere zeta e doppia erre dei rispettivi cognomi (…). Attualmente questa stessa casta in declino tesse pubblicamente le lodi di questa fragile democrazia in quanto le reti di comunicazione di massa sono nelle grinfie della “Banda Edwards”, [la famiglia proprietaria del quotidiano “El Mercurio; n.d.r.] che trasmette a tutta botta il sermone solenne del lignaggio familiare che ogni domenica su “El Mercurio” mostra con orgoglio il naso all’insù nella foto scattata durante un cocktail in occasione di un evento mondano. La scena pubblica in cui il paese si riconcilia con una coppa di champagne in mano e una tartina tricolore in bocca (…) Quei pochi volti bianchicci, con un’espressione di contegno dettata dalle convenzioni o dallo schiarimento delle meches e delle idee che quatton quattoni scoloriscono le vicende nazionali. Lì, tra le fila pubbliche di un Cile stordito dall’apparenza, si mescolano le famiglie nobili che hanno un’opinione su tutto e le famiglie cilene dal cui incesto viene fuori di tutto: politici, musicisti, preti, modelle, scrittori, vecchie zitelle e perfino checche mascherate con cravatte maschili di questi tempi pacchiani.

Al trionfalismo della scena pubblica – i mezzi di comunicazione spaventosamente conformisti, la convivenza culturale tra il reazionarismo del passato e la grottesca modernità – lo scrittore e artista oppone una resistenza che si corrobora attraverso le numerose tradizioni genuinamente popolari e un desiderio di novità che parte dal basso ed è in grado di proporre alla ormai stanca prosa del paese alcune varianti sintattiche sorprendenti. Forse l’aspetto più interessante della scrittura di Pedro Lemebel è proprio rappresentato dal fatto di riuscire a mettere in luce efficacemente le differenze sociali (cosa che in America latina, non va dimenticato, comporta una visione etnica e fortemente culturale). Questo aspetto della letteratura latinoamericana è andato via via scemando in seguito al tramonto del regionalismo naturalistico, caratteristico della prima metà del XX secolo. Diciamo che rispetto alle correnti attuali che con maggiore o minore fortuna ricercano un po’ di rispettabilità negando spudoratamente che esistano le differenze sociali, la figura di Lemebel si colloca in una linea d’ombra che segna con determinazione e fierezza la distinzione tra classi sociali nell’ambito della società e della lingua.

Se a questa città è stato dato il nome di Santiago de Nueva Extremadura e in quella valle fertile del Mapocho si è insediata quella casta di meticci che ha dato origine ai suoi abitanti pallidi di povertà, mezzi neri a causa della fuliggine, con gambe corte e ciocche marroni per via del retaggio degli indios araucani; più alcuni tinti e altri damerini biondicci che non scendono mai da Santa María de Manquehue e da La Dehesa. Non hanno mai preso un autobus, tantomeno sono mai saliti sulla metropolitana per non contagiarsi con la lebbra dei salariati. In fin dei conti, nella parte alta della città hanno di tutto: cinema, saune, palestre, negozi, università e centri commerciali. E sebbene tutto sia tre volte più caro, gli abitanti ingellati di Apoquindo superiore adorano questo luogo artificiale dove gli involucri di vetro e cemento sembrano dire: “I love you Sanhattan”.

Non è difficile notare che le cronache di Lemebel mettono da parte la categoria della “oggettività” quando si tratta di descrivere la vita cittadina: in ognuna di esse emerge un diverso stato d’animo – entusiasmo, depressione, aggressività, tenerezza – oppure un freddo atteggiamento di attacco o di difesa contro gli innumerevoli avversari. Nell’attuale contesto della letteratura del suo paese, Lemebel lavora da solo, non esistono reti di influenza, maestri né discepoli. Ma da una prospettiva culturale più vasta, questo scrittore è profondamente rappresentativo di un determinato tipo di sensibilità che si può percepire nella vita nazionale, che si muove all’interno e in direzione contraria rispetto al processo di ammodernamento in atto nel Cile degli ultimi venti anni e che sta mettendo a repentaglio i punti di riferimento della provincia cilena. I lettori di Lemebel – uno degli scrittori più letti in un paese con una bassa percentuale di lettori – da un lato sono gli insoddisfatti lasciati ai margini in termini di distribuzione della ricchezza e dall’altro sono i temerari che interpretano la modernità come un passo in avanti nell’infrangere radicalmente le convenzioni sociali e culturali. In realtà non si tratta di una minoranza di poco conto: la circolazione dei suoi testi si è incrementata in maniera esponenziale grazie alle case editrici clandestine che lanciano per strada migliaia di edizioni pirata ogni anno e allo stesso tempo le sue cronache, pubblicate negli editoriali domenicali del quotidiano “La Nación” di Santiago, vengono lette da un elevato numero di sostenitori appassionati. Man mano che le sue opere cominciano a godere di sempre maggiore popolarità, arrivano anche gli inviti. Pertanto, le cronache di Lemebel vengono internazionalizzate come cronache di viaggio latinoamericano:

Accadde in uno di quei giorni in cui l’amore è un bocca appassionata  che respira il suo alito lungo i marciapiedi dell’Avana. Veniva inaugurata la Sesta Biennale dell’Arte e in qualità di invitato speciale indossai i tacchi a spillo e mi avviai verso la piazza della cattedrale percorrendo il lastricato impervio della città vecchia. I jineteros non mi chiedevano più dollari. Erano ormai avvezzi alle continue passeggiate di una checca cilena che barcollava sui sampietrini coloniali di quelle stradine strette in cui le macchine non potevano circolare ma che erano frequentate da giovani mulatti che facevano baldoria, che blandivano le prede nel canneto erotico della sera. Principessa, dove sta andando? Regina, dove vuole andare? mormorava quella frotta di giovani mentre si rinfrescavano sul marciapiede, usando quel tono affabile tipico degli abitanti dell’Avana mentre ti rivolgono galanterie; quelle esternazioni affettuose che ti cullano e ti fanno arrossire come se fossi un’orchidea quindicenne.

Sono pochi gli scrittori latinoamericani che come Pedro Lemebel (e come ha sempre fatto il suo grande amico Roberto Bolaño) documentano e arricchiscono le tracce delle diversità linguistiche di questa variante dello spagnolo e delle numerose contaminazioni possibili che si possono osservare oggigiorno. Senza concedere nulla al realismo regionalista o al naturalismo, emerge un grande rispetto per la diversità e per la ricchezza della lingua che sfortunatamente sta scomparendo nelle opere di parecchi giovani scrittori di questa regione del mondo, a beneficio del mercato e della traduzione. È inoltre possibile che il suo talento per l’ibridazione e per la ricerca delle risonanze sia strettamente correlato con il modo di esprimere la sua ambiguità sessuale, proprio perché il suo amore per la diversità è ben lungi da quella ossessione di voler ricercare a tutti i costi una identità, fenomeno che ribalta una certa versione paradossale del postmoderno. È a questo che fa riferimento Monsiváis quando afferma:

Uno scrittore e un freak indissolubilmente legati, coloro che stanno al di fuori, nella desolazione e nell’energia tipici di coloro che si integrano solo a modo loro, che stanno ai margini e non portano più su di sé il peso schiacciante del passato. Lemebel occupa il posto che gli spetta grazie agli sguardi (le letture) di ammirazione, di passione e di gioia da parte dei “turisti del disdicevole”, di stravaganza, di solidarietà e di normalità da parte di quanti conoscono la globalizzazione culturale, quella che per i gay ha avuto sia un inizio drammatico con i processi di Oscar Wilde nel 1895 che di giubilo e organizzativo con i moti di Stonewall nel 1969.

Ad un certo punto della sua carriera letteraria Lemebel decide di non replicare l’esperienza della narrativa per dedicarsi completamente alle cronache urbane e ai racconti di viaggio. Ritiene inutile concentrarsi di nuovo sulla mediazione narrativa dal momento che il genere cronaca gli dà la possibilità di provocare in maniera diretta e di manifestare la condizione di avvilimento in modo per così dire creativo. L’immagine grottesca, la ridicolizzazione e la manipolazione dei feticci acquisiscono una connotazione immediata quando la memoria e la verità vengono tirate in ballo: si tratta di due categorie che il cronista non perde mai di vista. Lemebel afferma di dire sempre ciò che pensa e seguita a denunciare la figura imperante del letterato che si erge a magnate della reticenza e della connivenza con l’ideologia del potere, che parla per giustificarsi oppure tace. D’altro canto, Lemebel riesce a risolvere il problematico dilemma scrittore-militante in modo diverso rispetto al passato, poiché è proprio l’essenza stessa della scrittura a manifestare liberamente e informalmente l’appartenenza politica, e il fatto di scegliere un determinato genere non sfugge di certo a tale opzione. Simile scelta rifiuta naturalmente la definizione di genere-gay, considerato un’etichetta-rifugio conformista.

Tuttavia, l’aspetto dell’ibridazione non è legato esclusivamente alla sessualità o alla scrittura. Lemebel si è spesso occupato della genealogia bastarda del suo paese, della spinosa e critica questione araucana, dei simboli originari che la storia ha ufficialmente utilizzato quando ha inventato tradizioni di tutto rispetto oppure quando ha opportunisticamente “raffinato” la razza che ha posto le basi della nazione. Si concentra sulla figura di Caupolicán, capo militare araucano la cui virilità e coraggio furono elogiati da Alonso de Ercilla nell’epopea fondatrice, con lo scopo di demistificare la versione leggendaria e di ripristinare l’esperienza concreta relativa a una possibile storia reale:

Può essere rischioso fare un ritratto dell’eroe di Millarahue, il generalissimo Caupolicán, dopo tante leggende su una minoranza etnica che non ha concesso interviste alla storia. E per quanto riguarda il gran capo, il suo noto e popolare ritratto, la scultura che si trova sulla collina di Santa Lucía, fu una copia di un souvenir venduto a Parigi e che allora rappresentava l’ultimo dei Mohicani. Quindi, se non esiste una versione araucana della sua stessa storia, e se è solo attraverso l’oralità che viene mantenuto e incapsulato con la gelosia il suo atavico segreto, da dove si può ricavare la sua origine? A partire da quale memoria si potrebbe riaffermare o demistificare la prigione estrema sulla virilità riproduttiva che dà vita allo scritto in lingua castigliana? A partire da quale frammento, con tracce di lingua meticcia, lo si potrebbe designare oggi? Per farlo dovrei forse ricorrere alla mia biografia colihue o colipán e aggiornare la memoria dei miei giochi erotici con i figli dei panettieri nella lontana adolescenza del mio popolo indiano. Dovrei menzionare quelle relazioni intime e segrete che ho intrattenuto con il mio popolo e che sono rimaste taciute e immerse in un mutismo ancestrale. Però questo è un altro capitolo privato, probabilmente necessario per fare ulteriormente luce sull’odierna mascolinità dei caupolicani, più alti, con i capelli più chiari, che portano i jeans e hanno uno stereo personale e si chiamano Boris, Walter, Gonzalo o Matías e abbassano la voce quando devono pronunciare il cognome di origine araucana, nascondendo timidamente le ceneri mortificate della loro valorosa stirpe.

Come tutti i paesi dell’America latina, il Cile è prevalentemente abitato da meticci e poco meno della metà delle nascite avvengono fuori dal matrimonio, spesso senza un riconoscimento di paternità. L’uso del termine “huacho” ha ancora oggi una valenza offensiva dietro cui si cela una realtà assai comune. Pedro Mardones, nato a Santiago nel 1955, conosceva l’identità del padre, ma già da piccolo prese il cognome della madre, Lemebel, e rivendicò il suo essere “huacho”. Si può affermare che nel suo caso egli racchiuda in maniera esemplare molto del carattere di fondo della comunità, e che il suo talento letterario, gli eccessi, il fatto di occuparsi costantemente di questioni patetiche e volgari si siano intensificati nella lotta intrapresa contro la censura interna e la falsa autorappresentazione di una sobrietà dissimulata di cui fa sfoggio il paese. In un mondo assillato dal pudore e dalla dissimulazione, da un familismo orientato verso la politica e la cultura e verso qualsiasi manifestazione della vita pubblica, nonché dominato da dinastie che detengono il potere sin dall’insediamento della repubblica, nessuno oggi osa criticare in pubblico Pedro Lemebel, forse perché sanno che il Cile che lui ha analizzato con tanta precisione rappresenta un’immagine pericolosamente vicina alla realtà.

In questo modo, i concetti di patria, ordine e protezione familiare riempiono la bocca dei propagandisti di questa nera parentela che rafforza la propria complicità nelle sofisticate vetrine dei cocktail, dei seminari, delle mostre di pittura presso la CTC, e non importa che siano di Guayasamín, di Balmes o di Matta perché lì è riunita la combriccola dei cileni, sotto i riflettori, e non fa lo stesso avere rapporti con la soldataglia fascista, con il socialismo riciclato oppure con l’esilio che sa di pantano parigino e vedere il presidente Lagos, Hortensia Bussi e Lucía Pinochet respirando la stessa aria e lo stesso fumo…

Già nel 1982 Lemebel si era aggiudicato il primo premio in occasione del concorso nazionale Javiera Carrera, racconti pubblicati nel libro Incontables (1986). In ordine di data di pubblicazione i libri di cronache sono: La esquina es mi corazón (1990), Loco afán, crónicas de sidario (1994), De perlas y cicatrices (1998), Zanjón de la Aguada, (2003), Adiós mariquita linda (2005). A partire dal 1994 le sue cronache vengono pubblicate settimanalmente nel quotidiano “La Nación” di Santiago de Chile e di tanto in tanto presso le riviste “Punto Final”, “Rocinante” e “The Clinic”. E da allora sono state pubblicate le prime traduzioni delle cronache in inglese presso le riviste “Grand Street” y “Nacla Report”. Il romanzo Tengo miedo, torero è stato pubblicato nel 2000 e tradotto in francese e italiano [Ho paura, torero, Marcos y Marcos, 2004; n.d.r.]. La cronologia delle opere di “Las Yeguas del Apocalipsis” comprende alcuni interventi memorabili come: “Refundación Universidad de Chile”, presso la Facoltà di Arte, 1988; “Tiananmen”, performance, Sala d’arte “Garage Matucana”, Santiago 1989; “¿De qué se ríe Presidente?”, intervento presso la sala Carlos Cariola, Santiago, 1989); “La conquista de América”, impianto e performance, ballo nazionale scalzo su mappe e vetri, presso la Commissione cilena per i diritti umani, Santiago, 1989; “Lo que el Sida se llevó”, impianto, fotografia e performance, Istituto cileno-francese di cultura, Santiago, 1989; “Suda América”, impianto e performance presso l’Hospital del Trabajador, Santiago, 1990; “Cuerpos contingentes”, performance e mostra collettiva, Galleria d’arte CESOC, Santiago, 1990; “Las dos Fridas”, impianto e performance, Galleria Bucci, Santiago, 1990; “De la nostalgia”, impianto e performance, cine arte Normandi, Santiago, 1991; “Tu dolor dice minado”, performance, Facoltà di giornalismo, Università del Cile, Santiago, 1993; “La mirada oculta”, mostra collettiva, Museo d’arte contemporanea, Santiago, 1994; “Las Yeguas del Apocalipsis”, Biennale dell’Avana, 1997). Inoltre Lemebel ha tenuto diversi seminari presso università cilene e dell’America del Nord.