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Le vite di Sergio Ramírez / 1

Pubblichiamo oggi la prima parte di una crónica di Javier Sancho Más, sulle molteplici vite di Sergio Ramírez, grande scrittore e rivoluzionario nicaraguense. L’articolo è uscito sulla rivista Gatopardo [1], che ringraziamo. Qui [2] potete leggere la seconda parte.

di Javier Sancho Más
traduzione di Giulia Zavagna

Sergio Ramírez è uno dei grandi autori della generazione del post-boom latinoamericano. Ha pubblicato più di cinquanta libri tra saggi, racconti e romanzi. Ma non è stato solo un uomo di lettere: nel 1977 ha guidato il gruppo di intellettuali, imprenditori, sacerdoti e dirigenti civili, in difesa del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (FSLN) in lotta contro il regime di Somoza. Due anni dopo, al trionfo della rivoluzione, fece parte della Junta de Gobierno de Reconstrucción Nacional. Fu eletto vicepresidente del Nicaragua nel 1984. Oggi osserva la politica dalla scrittura.

 

Non a tutti è concesso di vivere due vite vertiginose. A lui sì. In una di queste, Sergio Ramírez è stato protagonista delle rivoluzione in Nicaragua. Ha vissuto il trionfo con le armi e la sconfitta alle urne. È arrivato a essere vicepresidente, uno dei pochi civili in un governo piagato di comandanti del Fronte Sandinista che si era impossessato del potere. Oggi si è allontanato dalla politica e da chi era stato un suo compagno, l’attuale presidente Daniel Ortega.

In un’altra delle sue vite, Sergio Ramírez è stato ed è lo scrittore che si è immaginato una città, León, e un paese, Nicaragua, come territorio letterario, l’autore di circa cinquanta libri, tra saggi, racconti e romanzi come Castigo divino (Mondadori, 1988) e Margarita está linda la mar, che gli ha valso il Premio Alfaguara nel 1998. Nel 2014 è stato lo splendido vincitore del Premio Carlos Fuentes, dotato di duecentocinquantamila dollari – che fu vinto da Mario Vargas Llosa alla sua prima edizione – e il suo nome risuona già tra i candidati al PremiO Cervantes. È uno degli autori viventi più significativi del post-boom (o boomerang, come lo catalogò Carlos Fuentes), in cui figurano autori come Tomás Eloy Martínez, Nélida Piñón, Roberto Bolaño e Antonio Skármeta, tra gli altri. Con meno successo di vendite rispetto ai loro predecessori del boom – con García Márquez in testa – hanno mantenuto, tuttavia, il prestigio della letteratura latinoamericana. Ci sono due cose che non sopporterei gli fossero successe: essersi persi la rivoluzione e non lasciare un’opera letteraria al proprio paese.

Ci siamo messi d’accordo per vederci questa mattina. Quando siamo entrambi a Managua di solito chiacchieriamo il pomeriggio, a partire dalle quattro, quando la città smette di essere un inferno e il vento dà un po’ di tregua. Ma oggi deve andare a trovare Ernesto Cardenal, il poeta, suo vicino, convalescente da una polmonite. Se gli si telefona di mattina, Monchita (la domestica della casa in cui vivono lui e sua moglie, Tulita) risponde: «Il dottore sta scrivendo». Sergio Ramírez è stato il migliore del suo anno alla facoltà di Diritto di León, ma non ha mai esercitato come avvocato. In Nicaragua, tuttavia, lo chiamano ancora «il dottore». La frase di Monchita è il primo filtro che spinge chi ha telefonato a desistere se non è nulla di urgente, perché le mattine sono dedicate alla scrittura. Il suo look da lavoro varia poco: una polo a maniche corte e dei pantaloni leggeri color beige (a volte, bermuda); scarpe Crocs per stare in casa, o mocassini senza calze. Per il resto, immacolato, i capelli ancora forti e con la riga a destra, nonostante un tempo lottasse per domarli. Fino a poco fa, non un solo capello bianco. Non l’ho mai visto sudare. Prima era solito camminare di mattina, ma un problema al ginocchio glielo impedisce, cosa che gli far metter su un po’ di pancia che tiene sotto controllo con la dieta.

Quando entro nel suo studio lo trovo seduto di fronte al computer, con la mano sinistra a sorreggere il mento, mentre controlla la sua agenda, una specie di Google Calendar. Quasi tutta piena di corsi, conferenze, viaggi, ora quasi sempre per motivi letterari o per le riunioni della Fondazione Nuovo Periodismo, fondata da Gabriel García Márquez a Cartagena de Indias e della quale è socio fin dall’inizio. A volte lo invitano a tavole rotonde di argomento politico, ma accetta solo se coincidono con una presentazione letteraria.

In soli tre mesi, il presidente del Messico gli ha consegnato il Premio Carlos Fuentes; l’ambasciatore di Spagna gli ha conferito l’ordine di Isabella la Cattolica, e ha appena presentato il suo ultimo romanzo, Sara. Tuttavia, appartiene a una generazione per la quale la letteratura e l’imepgno politico andavano di pari passo. «Sembra l’agenda di un ministro», gli dico. «O di un vicepresidente», scherza, anche se non vuole che le biografie dei suoi libri dicano che è stato vicepresidente. «Io non comprerei mai un romanzo il cui autore cerca di vendersi con un’etichetta del genere».

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Le mattine sono dedicate alla scrittura dalle otto e mezza all’ora di pranzo. Lo prende come un obbligo governativo, con la stessa disciplina con cui si è imposto di recuperare il tempo che aveva perso quando a metà degli anni Ottanta si è reso conto che erano dieci anni che non scriveva.

All’epoca erano passati già sei anni da quella mattina del luglio 1979 in cui i sandinisti erano arrivati a Managua e avevano preso il potere, appoggiati da tutti i settori della società nicaraguense e della comunità internazionale. Dopo che l’ultimo membro della dinastia dittatoriale dei Somoza era fuggito dal paese, Sergío Ramírez aveva fatto il suo ingresso trionfale in piazza, su un camion dei pompieri, insieme ad altri membri di una Junta de Gobierno, compreso colui che sarebbe diventato presidente, il comandante Daniel Ortega.

Sergio non aveva sparato un solo colpo. Il suo ruolo nella clandestinità e nell’esilio – in Costa Rica – fu di tipo intellettuale e diplomatico, sia per ottenere appoggio politico e finanziario per l’acquisto di armi, sia per creare una corrente all’interno del Fronte Sandinista che avrebbe finito per imporsi sulle altre. La maggior parte di coloro che fecero parte di quel primo governo avevano appena trent’anni, e la loro impresa sconvolse il mondo intero. Se negli anni Ottanta si parlava di utopia, si parlava di Nicaragua. L’ultima opportunità per il sogno di un mondo nuovo.

Il governo sandinista impose drastici cambiamenti per riequilibrare le grandi disuguaglianze alimentate dalla dittatura che era durata quarant’anni. Si provò una sorta di economia mista, si inaugurò una campagna di alfabetizzazione, diretta dal sacerdote Fernando Cardenal, fratello del celebre poeta, ci furono grandi miglioramenti nell’ambito sanitario e si intraprese una riforma agraria.

Sergio Ramírez

Daniel Ortega, Sergio Ramírez e Violeta Chamorro

Tuttavia, la rivoluzione sandinista prese il potere grazie all’unione di settori molto diversi che, in circostante normali, sarebbero stati concorrenti. Alcuni temettero una deriva autoritaria e l’allontanamento dai principi etici della rivoluzione. Violeta Chamorro, per esempio, vedova di un celebre giornalista assassinato anni prima dalla dittatura, abbandonò molto presto la Junta de Gobierno sandinista. Dieci anni dopo, nel 1990, avrebbe vinto le elezioni in testa a un’alleanza di opposizione che seppellì la rivoluzione.

Da fuori, il governo di Ronald Reagan, temendo una seconda Cuba in quell’area, favorì una guerriglia controrivoluzionaria che fece il suo ingresso nel paese dal confine nord dell’Honduras. Era la «Contra». La reazione del governo di Daniel Ortega e Sergio Ramírez fu una misura impopolare che si adottò al fine di nutrire le truppe dell’esercito sandinista: il servizio militare obbligatorio. Con un’economia precaria, il Nicaragua dipendeva dall’aiuto esterno, principalmente quello della vecchia Unione Sovietica, ragione per cui il paese entrò nel gioco geostrategico della fine della Guerra Fredda. Nel bel mezzo di questo scenario, Sergio Ramírez, un vicepresidente con molto potere, sentiva la mancanza, soprattutto, di avere alcune ore a disposizione per rimettersi a scrivere.

* * *

È solito chiamare il suo studio tranquillo «capsula spaziale». È rivestito in legno, con vista sul giardino di casa, ed è difficile trovarvi ricordi o foto del suo passato politico o allusioni alla rivoluzione. Appena si entra, quando gli occhi si adattano al brusco cambiamento dalla luce all’ombra, ci si ritrova di fronte a un bancone da bar e, a sinistra, una biblioteca su due livelli. Nell’ala destra, lo studio: una piccola scrivania, carica di libri d’arte o fotografia che a volte servono da sottovasi. Ci sono un divano a due posti e un paio di poltrone color marrone scuro, sempre più scolorite dal sole che entra dalle finestre. Non c’è molto spazio. Sergio Ramírez scrive tra due tavoli. Alle sue spalle, una lunga scrivania occupa il centro dello studio, piena zeppa di libri. sono quelli che sta leggendo o quelli che sta per leggere, molti di autori giovani, alcuni manoscritti ancora inediti che lui annota e corregge con attenzione.

Sergio Ramírez

Sergio Ramírez e Julio Cortázar

Scrive di fronte a una finestra allungata, oscurata per mitigare il sole. Sempre su un portatile. Quando viaggia si porta un tablet e il Kindle. Da una parte, appeso accanto alla finestra, c’è un enorme ritratto di Tulita (ormai quasi nessuno la conosce come Gertrudis, il suo vero nome), che sfoggia dei lunghi capelli neri e sorride con gli occhi. L’ha fatto Dieter Masuhr, un artista tedesco suo amico, tra i molti che si innamorarono di quel Nicaragua in rivolta, insieme ad autori come Julio Cortázar, che scrisse un libro il cui titolo definisce la vita quotidiana di quegli anni di entusiasmo e dolore: Nicaragua tan violentamente dulce.

Ma ben presto le madri si stufarono di vedere i loro figli fuggire in altri paesi per non fare il servizio militare o tornare invalidi o morti dal fronte. E Violeta Chamorro, una madre i cui figli erano schierati ideologicamente agli opposti, raccolse le frustrazioni di gran parte della popolazione e vinse le elezioni nel ’90, dopo una campagna durante la quale non cambiò mai il suo vestito bianco e con una gamba ingessata a causa di un incidente. Un paio di mesi prima era caduto il muro di Berlino. Il mondo si dimenticò del paese del Centroamerica che con appena cinque milioni di abitanti aveva sofferto la morte di 50.000 di loro, decine di migliaia di feriti, e centinaia di migliaia di persone che cercarono rifugio negli altri paesi, oltre a un debito economico impagabile e problemi che avrebbero ostacolato lo sviluppo futuro come le richieste di espropriazione indebita.

Nello studio, i tavoli, i cuscini del divano e perfino i vetri sono rovinati e rigati, ma è molto accogliente ed è un piacere sedersi lì a chiacchierare, o restare in silenzio. È la stanza dove di solito si svolgono anche le riunioni di lavoro, quasi sempre piene di giovani. Ci sono foto in cui si vedono lui e Tulita, insieme a Saramago e a Pilar del Río, o insieme a Carlos Fuentes; una busta da aereo con una dedica di Cortázar. Nell’angolo opposto c’è una porta che conduce al bagno e alla parte posteriore della casa, un’altra stanza in cui lavora Betty, la sua segretaria. Nel bagno, austero, c’è un tavolino di fronte al lavandino, dove a volte ho visto il Chisciotte e altre la Bibbia Latinoamericana, insieme a un taccuino e una matita.

Gli porto un ritaglio di giornale con una foto che conservo perché riflette un’incognita che ha segnato la sua vita. Si tratta di una celebrazione per uno dei primi anniversari della rivoluzione. Lui, il secondo da sinistra, si gira verso il lato opposto sorridendo a Tomás Borge, comandante della vecchia guardia del Fronte nonché uno dei fondatori. Insieme a lui, Daniel Ortega, con i grandi occhiali che portava allora, sorride. Li accompagnano altri comandanti. Eccetto Borge, sono tutti giovani con i capelli al vento e indossano l’uniforme verde oliva a maniche corte. Sergio Ramírez, invece, ha una camicia chiara. La domanda è che cosa ci faceva lui lì? Un intellettuale, un democratico, uno scrittore, un civile in un governo di comandanti. «Quelli erano vestiti da safari. Me li fece un sarto mandato da Fidel Castro alla casa di El Laguito, dove alloggiavo quando andavo a Cuba. Li usavo per le cerimonie ufficiali, ma quando viaggiavo per questioni di Stato e dovevo incontrare primi ministri o cancellieri, usavo dei completi che compravo a Madrid in calle Serrano. Erano cari, perché dovevo essere “di bella presenza”, come diceva mia madre». «In tutte quelle foto, sia quando stai entrando a Managua il giorno del trionfo della rivoluzione nel ’79, sia quando stai lasciando la politica nel ’96, hai la stessa espressione: serena, ma in certo modo distaccata».

«Essere “l’altro” è una cosa che ho cercato di sviscerare nei miei scritti. Sentirti estraneo o emarginato. Ho questa sensazione da quando ero bambino. Per due ragioni: per lo strabismo del mio occhio sinistro – ero l’unico che aveva gli occhiali a scuola, altra cosa per cui mi offendevano –, e perché sono molto alto. A dodici anni ero praticamente alto quanto lo sono adesso, più di un metro e ottantatré. Ero magro e goffo e non sapevo ballare. Questo generava un’alienazione, questa è la parola esatta: alienarsi. Però fare letteratura aiuta in qualche modo. E poi, per la mia altezza, iniziai a frequentare ragazzi più grandi di me. Quindi, imparai cose che i bambini della mia età non sapevano. Ti parlo di esperienze sessuali, bevute, ecc., estranee alla mia età».

Quando parla, è solito sfregarsi l’occhio sinistro, quello che guarda altrove e che dà l’impressione che sia addormentato o assente.

A volte, nel pomeriggio, passano allo studio Tulita e i loro figli, Sergio, María e Dorel, tutti nati quando la coppia viveva in Costa Rica durante gli anni Sessanta e all’inizio dei Settanta. Oggi vivono a Managua, vicini gli uni agli altri, e i figli li vengono a trovare con i nipoti.

Passa anche Antonina, vedova di Rogelio Ramírez, il fratello piccolo di Sergio che è morto anni fa durante un viaggio diplomatico in Corea. Una volta stava piovendo e lo studio era pieno di parenti. Sergio figlio chiese a Sergio padre perché aveva fumato tanto durante i suoi anni di governo se non aveva mai provato una sigaretta prima.

«Non lo so», rispose evasivamente. «All’epoca fumavano tutti».

Ma lui non aspirava il fumo, e alla fine si rese conto di non essere un fumatore, quindi smise e basta. Sergio raccontò che la rivoluzione lo assorbiva al punto che sua moglie, Tulita, finì per prendere un appuntamento alla Casa de Gobierno per decidere con lui questioni domestiche in sospeso. Tulita confermava con un mezzo sorriso e con il suo tono afono e caldo: «Sì, c’era puzza di fumo da tutte le parti in quell’ufficio», disse, allungando le dita verso suo marito e accarezzandolo con dolcezza. Lui aveva l’aspetto di un bambino obbediente che si lascia rimproverare.

 

© Javier Sancho Más, 2015. Tutti i diritti riservati.

[Leggi qui [2] la seconda parte della crónica]