Benedizione eterna a chi legge queste pagine

redazione Autori, SUR

Pubblichiamo oggi un altro testo dello scrittore cileno Alberto Fuguet che presenta il libro da lui dedicato allo scrittore colombiano Andrés Caicedo, di cui uscirà per le Edizioni SUR il romanzo «Que viva la música».

di Alberto Fuguet

Traduzione di Stefano Cristi

Quasi un decennio fa, lo scrittore cileno Alberto Fuguet scoprì l’opera del colombiano Andrés Caicedo, e credette di aver incontrato un gemello. Lo scrittore cinefilo che aveva sempre cercato: un autore intenso, reale e indispensabile. E quello è l’autore che emerge in «Mi cuerpo es una celda», la fiammante autobiografia per la quale Fuguet ripercorse gli scritti postumi di Caicedo – che si suicidò nel 1977, a 25 anni –, fino a ricostruire una memoria partendo dalle sue lettere, articoli e diari, come un regista monta un film in sala di montaggio. Un percorso che lo stesso Fuguet racconta in queste righe, epilogo del volume pubblicato da Norma, e che è stato presentato lunedì 30 marzo 2009 al Bafici. [Buenos Aires Festival Internacional de Cine Independiente]

Forse qualcuno ha notato che Mi cuerpo es una celda ha come sottotitolo “autobiografia”. Altri, magari, hanno notato che il mio nome è associato al lavoro di direzione e montaggio del libro. Un libro, è evidente, si edita, si corregge, si perfeziona. Non si dirige, non c’è montaggio, né si utilizza Final Cut Pro. Eppure questo forse è stato montato. Non trovo un’altra maniera di intendere il mio lavoro e il mio legame con Mi cuerpo es una celda che quella di un montatore alle prese con molto materiale e un regista-sceneggiatore che non c’è più. L’aspetto positivo è che mi sono imbattuto in produttori che volevano solo che rispettassi la visione dell’autore. Come farlo senza poter parlare con lui? L’espediente del regista aveva a che fare con l’idea di raccogliere il materiale e convincere la gente a prestarmi quello che aveva. Che si fidassero di me (forse il lavoro più importante di un regista). L’autobiografia è la compilazione dei fatti di una vita raccontati dalla persona stessa. Ogni autobiografia (oggi si chiamano “memorie”) deve essere scritta necessariamente dalla persona che ha vissuto quella vita. È il caso di questo libro. In nessun dizionario o pagina web ho letto che il libro dovesse essere compilato/montato mentre l’autore era in vita. Ho scelto di “fare qualcosa su Caicedo”, di trasformarlo in un progetto personale, legato al mio universo/pianeta e non considerarlo solo un incarico o un articolo di passaggio, quando, tornato da Cali, ho capito o mi si sono chiarite due cose: uno, non volevo scrivere una biografia (né mi ritenevo capace, né mi interessava) e due, avendo al mio fianco una borsa di cuoio nero con centinaia di fotocopie di materiale inedito, ho capito che forse bisognava fare qualcosa di cinematografico. O almeno di diverso. E non perché Caicedo era un cinefilo-cinépatacinéfago puro, ma perché c’era qualcosa di implicitamente visivo nella sua maniera di concepire la vita e di comunicare col mondo. Tuttavia una sceneggiatura non era indicata; ricreare la sua vita ancora meno. Un romanzo biografico è stato per un istante solo questo: una pessima idea. Finché ho compreso che ciò che avevo ottenuto dal mio viaggio a Cali e Bogotá erano documenti. Da lì l’idea del documentario.
Un documentario narrato in prima persona che certificasse, in forma frammentaria, ciò che lui stesso ha vissuto, sentito, visto. Il mio soggetto non era né vicino né vivo, però c’erano lettere, diari, poesie, critiche cinematografiche e materiale che rifiutava qualsiasi catalogazione, in quella borsa di cuoio. Fare la sua autobiografia perché, ora che la sua figura ascende al mito, ora che la sua lapide è costantemente rubata in un cimitero di Cali, ora che tutti mi raccontato cose diverse e contraddittorie (per la prima volta ho intuito quanto possano essere fittizie le biografie, soprattutto le più ricercate: non è che le fonti mentano, semplicemente non erano lì), egli potesse semplicemente raccontare le cose dal suo punto di vista. Dalla sua trincea. Così come accaddero o come lui sente che accaddero. E magari si potesse leggere come un romanzo, un romanzo non romanzesco. L’importante era che tutto questo materiale disperso, quasi sempre reiterativo, potesse leggersi come un’opera organica. Un epistolario non mi  sembrava adeguato. Ho trovato libri del genere di autori che ammiro e ammetto che ho finito per sfogliarli superficialmente. Molte lettere, molti nomi, molte note a pié di pagina, molte digressioni su temi quotidiani e banali. Mentre cominciavo a entrare in sintonia con il materiale di Caicedo, ho visto, forse per caso, forse perché era quello che dovevo vedere, un documentario su Kurt Cobain intitolato About a Son, di A.J. Schnack. Oltre agli evidenti parallelismi fra Caicedo e l’emblematico musicista di Aberdeen (il suicidio in giovane età, la volontà compulsiva di scrivere tutto, il desiderio di fuga dal piccolo paese d’origine, la trasformazione in figure di culto con status di rocker, almeno in Colombia), About a Son mi ha colpito per aver trasformato un limite (l’assenza del materiale tipico per la realizzazione di un documentario) nella struttura base del film. Schnack non aveva a disposizione foto, clips o video privati, non aveva neppure la musica dei Nirvana. Aveva invece un numero considerevole di audiocassette di interviste realizzate dal reporter di «Rolling Stones» Michael Azerrad, per il libro Come as you are: The story of Nirvana. Azerrad non poté utilizzare tutto il materiale (più di venti ore). Quando Schnack seppe che Cobain poteva, da morto, raccontare la propria vita, cominciò a filmare i luoghi ai quali si riferisce Cobain. Luoghi dove visse, studiò, lavorò, creò e suonò. L’idea del film di Schnack fu di lasciar parlare Cobain di se stesso. È quello che ho provato a fare io con Caicedo 31 anni dopo che aveva redatto la sua ultima lettera.

Prendendo spunto dalla massima “questo è il libro che Andrés voleva scrivere”, Mi cuerpo es una celda non ha né prologo, né molte note o spiegazioni. Credo che Caicedo riesca a spiegarsi da solo. Caicedo on Caicedo, come quei libri di cinema di Faber & Faber. L’obiettivo era che il libro scorresse come un libro, come un romanzo, come una confessione, senza interruzioni accademiche, né foto, né spiegazioni ad ogni pié sospinto. Spero di esserci riuscito. Che questo sia una autobiografia o delle confessioni alla sant’Agostino, o una specie di documentario impressionistico o il registro di una seduta psichiatrica, è un argomento secondario. L’importante è che il libro già esiste. Un libro di non-invenzione di un autore che finora è conosciuto soprattutto per le sue opere giovanili di narrativa. I primi esemplari di ¡Que viva la música!, il romanzo emblematico di Caicedo, gli arrivarono per posta lo stesso giorno in cui si uccise. Il resto della sua opera di narrativa fu pubblicata postuma ed è quindi anteriore a ¡Que viva la música! In questo senso quasi tutta la produzione di Andrés Caicedo è quella di uno scrittore estremamente giovane (minore di 24 anni) e, per definizione, immaturo e in erba. Nella sua prosa narrativa (soprattutto i diari, le lettere e le critiche) è possibile vedere che si tratta di molto di più di uno scrittore per ragazzi. Non voglio utilizzare questo libro, o questo epilogo, per analizzare e classificare l’opera di Caicedo. Non sono un critico. Però riconosco che ci sono autori dei quali la produzione di narrativa pura mi attrae meno che le loro opere più personali. Di fatto ci sono scrittori la cui opera emblematica non è di narrativa, o almeno è tanto importante quanto quella creativa. Penso a Pavese, a Ribeyro, a Edwards, ad Auster, anche a Sebald. Ho l’impressione che qui, in questo libro, Caicedo dimostra almeno due cose: che non aveva paura di utilizzarsi come materia prima e che la sua saggistica è tanto importante – o anche di più – della sua narrativa.

E ora qualcosa di meno tecnico, di più personale, una cosa che scrissi molto prima di immaginarmi in questa posizione, in questo luogo, prima di immaginare che sarei finito nel suo appartamento di Città giardino, a leggere in un caffè di Venice, California, i suoi testi più personali. Un piccolo stop prima di continuare, insomma. Caicedo per me, prima di Mi cuerpo es una celda:

È curioso, però lo scrittore cinefilo che ho sempre cercato, quell’amico immaginario che ho aspettato tanto, quel letterato intenso, reale, indispensabile, da saccheggiare/sezionare/imitare quando si ha molto da dire e non si sa bene come, è arrivato tardi al mio servizio. Così tardi che già non ne avevo bisogno. Ancora non posso credere che ho saputo dell’esistenza di Andrés Caicedo da così poco tempo. Molto dopo che in Colombia Andrés Caicedo fosse diventato Andrés Caicedo. A quel punto, nel 2000, Caicedo già era morto da più di vent’anni e i suoi libri erano sugli scaffali già da molto. Dove ero io? Dov’erano i suoi libri? E in effetti: dov’era lui quando ne avevo bisogno? Lo incontrai in una delle mie librerie preferite: la scomparsa Casa Verde, a Lima, di fronte al parco El Olivar, in pieno San Isidro. Ero lì, a perdere tempo, in attesa di un volo. Avevo lasciato la mia stanza dell’Hotel El Olivar e aspettavo un taxi per andare all’aeroporto Jorge Chávez. Così mi misi a guardare i libri, una buona maniera di ammazzare il tempo. Improvvisamente la parola cinema entrò nel mio radar. In mezzo alle migliaia di libri che tappezzavano gli scaffali di quella casa dipinta di verde, mi incantai su un grosso volume blu scuro intitolato Ojo al cine. Il libro stava, notai, equidistante fra Queremos tanto a Glenda, di Cortázar e un vecchio esemplare di Un oficio del siglo XX, il pazzesco libro di critica cinematografica di Guillermo Cabrera Infante. Lasciai gli altri testi che avevo in mano per prendere quel volume sconosciuto. Esagero dicendo che le mie mani tremavano, ma era quasi così. Almeno desideravo che lo facessero (close-up sulle mani che prendono il libro). Intuii che più che  un libro stavo affrontando una persona. La prima cosa che mi colpì fu la serie di foto anni Settanta di un tipo magro, con i capelli lunghi da rocker, grossi occhiali che oggi sono cool ma che prima non lo erano, e un dolcevita turchese. Lì capii che questo Andrés Caicedo, l’autore, era morto. Un tipo balbuziente, pallido, che passa tutto il giorno al cinema, non si mette sulla copertina di un libro. Un tipo così si nasconde. Caicedo arrivò a vivere 25 anni e se ne andò con l’aiuto di 60 pasticche di Seconal, dopo aver ricevuto la prima copia del suo romanzo e aver battuto a macchina due lettere: una intensa alla sua ragazza e una cinefila al suo amico spagnolo. Perché un autore suicida attrae tanto? Perché un cinefilo suicida mi colpì così tanto? Se avessi letto Caicedo a vent’anni avrei pianificato il mio suicidio durante la proiezione serale del cinema Normandie? Caicedo era il Cobain dei fanatici del cinema? Voleva dire che il cinema poteva uccidere. La cinefilia era una dipendenza pericolosa? Non solo un rifugio per vigliacchi? Comprai il libro immediatamente e non smisi di leggerlo: in taxi, in sala d’attesa, in aereo. Non era un romanzo, ma la sceneggiatura della sua vita, un estratto dei mille film che vide. Di nuovo: come è possibile che non l’avessi conosciuto prima? Era così forte il potere di García Márquez in Colombia da uccidere un ragazzo di città solo perché era un fan di Jerry Lewis ed era ossessionato da Kim Novak e dal film Lilith? Caicedo, capii presto, fu il cinépata più cinépata di tutti, anche se non usò mai questa parola. Io pensavo di sì e per errore, ma pensando a lui, dopo qualche mese fondai la mia impresa di produzioni audiovisive chiamandola, in suo onore, Cinépata. Andrés Caicedo si considerava più che altro un cinéfago e una vittima di quello che lui chiamava “cinesifilide”. Organizzava cineclub e riviste e non faceva altro che vedere e vedere cinema. La sua meta era chiara: bersi tutto e poi scrivere di tutto quello che vedeva, per poter così tornare, grazie alla scrittura, a quello che aveva appena visto. La sua passione e la mancanza di misura lo portarono ad accumulare tutte le informazioni possibili fino a convertirlo col tempo in un cinéfago senza rimedio. Forse la tecnologia avrebbe potuto salvare Caicedo. Internet Movie DataBase sarebbe stato un luogo ideale per riversare le sue nozioni, le chat lo avrebbero messo in contatto con altri “malati”, le videocamere digitali lo avrebbero aiutato a girare i suoi film dell’orrore e una collezione di VHS o DVD lo avrebbe lasciato dormire tranquillo: lì, in un istante, in ordine alfabetico, avrebbe potuto conservare tutte quelle immagini che non avevano più spazio nella sua testa. Caicedo è sempre stato più un creatore che un critico. I suoi scritti costeggiavano i confini della narrativa e quando si è messo a inventare racconti e romanzi e teatro, ogni cosa sapeva di schermo. Non sapremo mai come sarebbero stati i film di Caicedo. Personalmente preferisco i suoi scritti sul cinema ai suoi racconti e al suo romanzo. Ma la cosa principale in Caicedo è lo stesso Caicedo. È l’idea del cinefilo come martire, il post-adolescente latinoamericano alienato da Hollywood, il solitario che si compromise con lo schermo mentre tutti gli altri solidarizzavano con la causa, il fratello maggiore di McOndo [allusione al movimento letterario anti-realismo magico nato con l’antologia omonima, a cura di Alberto Fuguet e Sergio Gómez; ndr.], la connessione perduta con il XXI secolo, il fan di Vargas Llosa che scriveva sceneggiature di western e di film dell’orrore e divorava le pellicole di Rosen e Truffaut nei cinema del centro di Cali, mentre in quegli stessi giorni un suo compatriota si sforzava di raccontare il passato come se fosse un racconto di fate. Caicedo credeva nella cronaca e non nella narrativa, nel cinema e nell’io, nel mito del poeta e del rocker che muore giovane e lascia un’opera da raccontare. Non è un caso che mentre gli altri scrittori, della sua generazione o più anziani, sognavano Parigi e Barcellona, Andrés Caicedo volle andare a Los Angeles per vedere se poteva realizzare il suo obiettivo. Caicedo arrivò prima degli altri e durò poco. La società non lo uccise, così come non lo uccise il cinema, per quanto possa essere affascinante pensarlo. Eppure la sua eccentricità così tipica di Cali, è riuscita a salvarsi dalla voragine barocca del suo tempo, e oggi Caicedo risulta un precursore. Un precursore, certo, ma anche un tipo fuori fuoco, fuori sync, limitrofo. Caicedo non è mai stato il mio idolo o il mio critico cinematografico feticcio, perché l’ho conosciuto troppo tardi. Ora arriva un nuovo Andrés Caicedo: quello che balla la salsa e dice “viva la musica!”. Caicedo non ballava la salsa; voleva ma non poteva. Caicedo non parlava, scriveva. Tutto il giorno: così come oggi c’è gente che non concepisce una giornata senza “postare” qualcosa, Caicedo scriveva se stesso. Con una scelta tanto eroica quanto pericolosa si chiuse nella sua macchina da scrivere e non poté più capire la sua vita senza di lei.

Ripeto: Andrés Caicedo non ha scritto questo libro così com’è e non l’ha neanche immaginato, almeno coscientemente, tuttavia è il suo libro. Non si è seduto a scrivere Mi cuerpo es una celda. Semplicemente si è seduto ogni giorno a scrivere qualsiasi cosa. Tutto quello che c’è nel libro è stato scritto da Caicedo. Il materiale di base è stato lettere, foglietti, diari non finiti, agende, quaderni ad anelli, critiche cinematografiche, articoli e “scritti”. Direi che più del 60% non è mai stato pubblicato. Un 80% del materiale con il quale ho iniziato a lavorare era inedito. I fan e i lettori attenti troveranno materiale che forse già conoscono, anche se editato ed ordinato in un’altra maniera. Questo libro, insisto, è stato montato. Rivisto. Alcune lettere sono state ridotte. Altre, con la stessa data, fuse insieme. Quegli scritti che appaiono in forma di appunti, post scriptum, annotazioni in un diario, sono una mia invenzione nata da numerose frasi di Andrés, presenti in lunghe lettere di argomento né cinefilo né personale. Andrés Caicedo non ha scritto un vero e proprio diario. Aveva dei quaderni nei quali, durante l’adolescenza, scriveva di tutto (El libro negro, Editorial Norma, 2008). Passati i vent’anni, tutto quello che scriveva era su fogli sciolti o a macchina. Le pagine scritte a mano furono l’eccezione e sono comprese in questo libro. Invece di un diario scrisse le sue lettere. Centinaia e centinaia di lettere indirizzate a un gruppo relativamente ristretto di destinatari. A volte scriveva tre o quattro lunghe lettere al giorno; logicamente alla fine raccontava le stesse cose. Non tutte le lettere vennero inviate o ricevute dal destinatario. Certe erano indirizzate a persone che vivevano nella sua città o addirittura in casa sua. Tutte, tranne quelle scritte a mano, erano scritte su carta copiativa. E conservava un copia, che raccoglieva in diverse cartelle chiamate Da me a me, Da me al cinema, ecc. Grazie alla sua famiglia (soprattutto suo padre) e poi a Luis Ospina e Sandro Romero Rey, molto di questo materiale è stato conservato, salvato e, parzialmente, pubblicato. Prima di suicidarsi quel 4 marzo del 1977 lasciò un baule con le sue cose: libri, dischi, riviste e poi sceneggiature, manoscritti, cartelle di lettere, quaderni, foto… Buona parte di questo materiale è stato classificato da suo padre e poi consegnato alle sue sorelle e a Luis Ospina. Da quel materiale uscirono i suoi libri di narrativa e, con il tempo, libri come Ojo al cine e El cuento de mi vida. Ma erano parecchi bauli e molto profondi. La famiglia alla fine ha regalato molto materiale, compresi gli originali dei suoi libri, alla Biblioteca Luis Ángel Arango, di Bogotá. Lì ho trovato testi inestimabili. Altre lettere e scritti, più privati, erano dalle sorelle. Molte lettere chiave – senza copia carbone – me le ha passate Patricia Restrepo. Gran parte del volume che forma il magma di questo libro, ce l’aveva Luis Ospina. Per maggior chiarezza: una parte del materiale di Mi cuerpo es un celda è apparso nel dossier “Nueve cartas inéditas” del numero di novembre-dicembre del 1996 della rivista culturale colombiana El Malpensante; in Ojo al cine (Norma, Bogotá 1999; a cura di Luís Ospina e Sandro Romero Rey); e nel notevole El cuento de mi vida (Norma, Bogotá, 2007; a cura di María Elvira Bonilla). Buona parte delle lettere che Luis Ospina ha editato e selezionato per Andrés Caicedo: Cartas de un cinefilo (collezione Cuadernos de Cine Colombiano, editi dalla Cinemateca Distrital della città di Bogotá, 2007) compaiono qui come lettere o con altro formato. Come spiega Ospina nella sua presentazione, le montò pensando all’aspetto cinefilo. Quando ho avuto da Luis una quantità esorbitante di questo materiale inedito (grazie ancora per averlo conservato e per aver avuto fiducia in me), mi sono imbattuto in qualcuna di queste lettere. Io le ho montate in un altro modo, senza concentrarmi solo sull’aspetto cinefilo.

Avrebbe voluto Andrés Caicedo che i suoi resti letterari fossero riesumati? Ho oltrepassato alcuni limiti etici? Cos’è più importante: rispettare la volontà dell’autore, l’intimità di alcuni o la protezione emotiva di altri? Ogni tanto nasce un piccolo scandalo letterario quando compare un diario o una lettera, o quando si porta a termine e si pubblica un romanzo incompiuto. Ci sono autori che lasciano testamenti chiari (“non pubblicare niente fino alla mia morte” o “passati cinquant’anni dalla mia morte”) e altri che non desiderano che la loro opera continui a crescere da postuma. Ci sono scrittori che bruciano i propri scritti, altri che lasciano solo ciò che è già stato pubblicato e altri che donano – o vendono – a importanti biblioteche, lettere, quaderni, manoscritti. Andrés Caicedo voleva e cercava la fama letteraria e cinematografica. Non ha lasciato un testamento legale, però nelle sue conversazioni con amici e familiari chiarì che il suo non era un esercizio privato. Nella lettera di addio a sua madre, con la quale si apre questo libro, dice: “Spero che un giorno si possano pubblicare i libri sulla mia adolescenza che ho scritto con tanta attenzione: El atravesado, ¡Que viva la música!”. Poté vedere entrambi i libri pubblicati. “Lascio un po’ di opere e muoio tranquillo” dice nella stessa lettera. In effetti lasciò scritti e alcuni numeri della sua rivista «Ojo al cine» e foglietti con critiche cinematografiche che consegnava all’entrata del suo cineclub. Lasciò anche molti manoscritti di narrativa: questi, con l’aiuto di amici e familiari, sono diventati libri come Noche sin fortuna e Calicalibozo. Rispetto alle lettere, lo stesso Caicedo ha lasciato istruzioni esplicite e implicite, ritenendole parte della sua produzione. Nella lettera per il critico Miguel Marías, nell’ottobre del 1975, dice: “stimolato dal tuo esempio, rinnovo il genio epistolare, dove trovare, dopo la mia morte, alcune delle cose migliori che ho scritto”. Il fatto che molte delle lettere erano scritte su carta carbone e che conservava le copie in una cartella dove era scritto di suo pugno e a penna il titolo “Da me al cinema”. Luis Ospina ha scritto nella prefazione di Cartas de un cinéfilo che “dentro, organizzate in stretto ordine cronologico, c’erano le copie che Andrés faceva di ogni lettera che scriveva. Grazie a questa precauzione anticipatoria di Caicedo – sempre preoccupato per il destino post mortem dei suoi scritti – possiamo leggerle oggi”. Per Andrés Caicedo le lettere non erano solo un mezzo per inviare informazioni, ma un fine letterario, forse il modo migliore che aveva di esprimersi: “quanto è privilegiato lo spazio della lettera: avere tutto il tempo del mondo per parlare, perché si ascolta senza dire niente; avere tutto il tempo del mondo per ascoltare. È la conversazione perfetta. Se quando ti scrivo ho paura, la distanza è tale che la mia paura non ti contagia, ti attrae ma non ti ferisce”. In una lettera a Patricia Restrepo dice: “Io ti adoro ogni giorno di più, ogni minuto che passa ti adoro di più. Ti giuro che è la prima volta che uso questo termine e non me ne preoccupo, nemmeno se questa lettera assurda la leggesse tutto il mondo”. Non so se queste lettere o il libro, questa autobiografia che ho costruito con le sue lettere e altri testi, arriverà a tutto il mondo. Però questa è l’intenzione. Che quel corpo che stava in una cella, ora sia parola. Le sue parole. Eterne, frettolose, colombiane, cinefile, estremamernte appropriate, inimitabilmente sue.


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