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Scrivere di ristoranti, lavorare nei ristoranti

Patrick Abatiell BIGSUR, Società

Il food writing e la critica gastronomica – professionale e non – sono sempre più pervasivi e rilevanti nel nostro panorama culturale; ma questo tipo di scrittura, così come la narrativa letteraria, sembra perlopiù ignorare il lavoro del personale di servizio dei ristoranti, o farne menzione solo in toni riduttivi. Prendendo spunto da due romanzi americani potenti e anticonvenzionali di recente uscita, Una vita come tante di Hanya Yanagihara, e Carne viva di Merritt Tierce, Patrick Abatiell riflette sul modo in cui i camerieri vengono percepiti e rappresentati.
Questo articolo è apparso originariamente su Publicbooks.org, e viene qui riprodotto per gentile concessione della rivista.

di Patrick Abatiell
traduzione di Martina Testa

Verso la fine dell’estate 2010 Eleven Madison Park, un ristorante stellato di New York che serve una clientela di super-ricchi, decise di chiudere per qualche tempo e rinnovare il proprio brand.

A partire dall’apertura, nel 1998, sotto forma di un bistrot francese di media qualità, notoriamente inadeguato rispetto allo sfarzo dei suoi interni, Eleven Madison Park aveva sempre cercato di salire di rango. La breve chiusura doveva segnalare l’ennesima fase di questa ascesa. Quello che riaprì i battenti dopo la pausa era un Eleven Madison Park decisamente più minimalista; la sala da pranzo era stata ridisegnata in modo da ospitare meno tavoli, e il menù del ristorante era stato sfoltito ad arte.

Al posto di una carta tradizionale che elencasse una per una le portate, Eleven Madison Park forniva ai clienti un cartoncino con una «griglia» di sedici vocaboli attinenti al cibo. La concisione era una strategia ben precisa che serviva, stando all’executive chef nonché attuale comproprietario del ristorante, Daniel Humm, a incoraggiare il «dialogo» fra i clienti e i camerieri che li servivano. La griglia diventò, per i recensori e i commentatori, un oggetto quasi totemico, un documento misterioso in cui bellezza estetica e reticenza semantica si mescolavano in modo tale da rendere necessaria un’interpretazione, una lettura più profonda, un’analisi: in breve, ulteriori parole. Ovviamente, era proprio quello il punto.

Come molti ristoranti del suo calibro, Eleven Madison Park è sempre stato interessato a creare dibattito tanto quanto a servire da mangiare. Oltre al purè di sedano rapa e alla tartare di malto artigianale e carote, il suo prodotto principale è il chiacchiericcio, il pettegolezzo. La griglia ebbe senz’altro l’effetto di far parlare la gente, aprendo una nuova fase di notorietà per il locale e altri della stessa categoria. Come scrisse due anni dopo Jeff Gordinier sul New York Times, in un’elegia ispirata dall’ennesima ristrutturazione di Eleven Madison Park, di cui la griglia era caduta vittima, «il menù del ristorante si era trasformato in una meraviglia di design composta di 16 parole che non sarebbe stata fuori posto in una sala del MoMA». In un certo senso, Gordinier aveva ragione. Forse non esiste istituzione in cui la linea già vaga che separa l’apprezzamento estetico dal feticismo delle merci diventa più inquietantemente sfumata che al MoMa. Eccezion fatta, ovvio, per l’istituzione culturale rappresentata dal mangiare fuori. In Occidente le cultura culinaria è un fenomeno tanto discorsivo quanto alimentare: è fatta di ciò che si dice tanto quanto di ciò che si mangia. È preoccupante osservare, però, che l’economia discorsiva che nasce da questo segmento della nostra cultura – e che lega ristoratori, clienti, scrittori e lettori sparsi su una vasta gamma di piattaforme mediatiche – fornisce un quadro distorto del mondo che descrive. Nell’immenso assortimento di testi e pratiche testuali che in genere si raccolgono sotto l’etichetta food writing, la forza lavoro del personale di servizio non viene quasi per nulla rappresentata.

Il problema risulta particolarmente evidente nel contesto attuale, dove la componente letteraria della cultura gastronomica ha subito una vera e propria esplosione. In uno studio recente, Word of Mouth: What We Talk About When We Talk About Food (2014), Priscilla Parkhurst Ferguson ha cominciato a mappare i contorni di questo territorio, e le sue dimensioni sono considerevoli. Le recensioni di ristoranti attirano enormi quantità di traffico online. Proliferano i blog a tema gastronomico, sia amatoriali che professionali. I libri degli chef compaiono regolarmente in cima alle classifiche dei best seller. Le storie di certe materie prime (del merluzzo, per esempio, o delle banane, ma anche del sale, dei suini, dei gamberi e delle ostriche o del carbone) sono tornate di moda dopo il loro momento di gloria, due secoli e mezzo fa. E i libri di cucina oggi dedicano altrettanta energia al loro contenuto narrativo o espositivo di quanta ne impiegano a fornire ricette: più che dare semplicemente istruzioni, cioè, raccontano storie. Nonostante questa impressionante ampiezza del campo, tuttavia, bisogna cercare a fondo, e spesso invano, per intravedere da qualche parte le figure dei camerieri, dei lavapiatti e dei semplici cuochi.

A un certo punto, questa omissione comincia a sembrare diabolica. La National Restaurant Association stima che al momento negli Stati Uniti vi siano 14 milioni di persone impiegate nel settore della ristorazione. Secondo le statistiche del Ministero del Lavoro, solo 2,5 milioni di queste lavorano come camerieri e cameriere, il che vuol dire che molte di più sono quelle che occupano posizioni di gran lunga meno visibili (e quindi più vulnerabili, peggio retribuite, e spesso più impegnative sul piano fisico). In generale, però, il food writing ha sempre tralasciato di prendere in considerazione in modo sostanziale o cospicuo tali forme di esperienza, e quindi non ha ancora iniziato ad affrontare seriamente le rivendicazioni politiche di questo notevole segmento della forza lavoro negli Stati Uniti.

Le conseguenze di una simile invisibilità non sono soltanto estetiche. Finché il personale di servizio resta confinato in uno spazio al di fuori della nostra percezione immediata della «cultura gastronomica», non c’è speranza che vengano risolte le difficoltà sistemiche delle persone che si guadagnano da vivere lavorando nei ristoranti. È un problema che richiede attenzione immediata, e un luogo in cui cominciare a cercare strategie che lo affrontino è il campo della narrativa letteraria.

Verso l’inizio del romanzo di Hanya Yanagihara Una vita come tante, Willem, un aspirante attore obbligato a mantenersi, per i primi anni dopo l’università, lavorando in un ristorante, vive un momento di panico acuto quando si rende conto di essere, a conti fatti, un cameriere. Si trova da Ortolan, magistrale alter ego del tipico locale di alta gastronomia newyorkese, il cui nome allude sinistramente agli abissi di brutalità, morbosità e sofferenza, ancora sconosciuti, che attendono i personaggi nel corso del romanzo. Qui Willem si lascia andare a una serie di angosciose riflessioni su come possa distinguere se stesso e i suoi colleghi «che aspiravano ancora a fare gli attori» da quelli che «avevano optato per una carriera da camerieri», le persone che lavorano nel ristorante senza vantare nessuna ambizione artistica. Findlay, il direttore dell’Ortolan, «anche lui un ex attore» ispira a Willem una particolare forma di terrore, e rappresenta «una sorta di memento mori ambulante, un racconto esemplare con un completo grigio di lana addosso».

Per tutto il romanzo, Hanya Yanagihara assembla scenari che mettono in primo piano non tanto il contenuto dei pensieri di un personaggio, quanto i presupposti e la logica che li motivano. Sono straordinarie scene di lettura psicologica. Willem, qui, è mosso dalla tipica convinzione narcisistica secondo cui gli altri sono solo allegorie di alcuni aspetti della propria vita. Ma il suo sforzo di distanziarsi dai camerieri «di carriera» non nasce solo dall’egocentrismo della prima età adulta. È anche una questione narrativa: c’è dietro il problema di come decidiamo quali storie meritino di essere raccontate, di cosa sembra rendere una vita valida, leggibile, degna della nostra attenzione.

Uno dei pochi elementi che il realismo letterario ha in comune con la vita reale è il fatto che insiste a collocare l’ambizione al centro di queste dinamiche. I personaggi principali, impariamo dalla storia del romanzo, progrediscono. Si sviluppano. Vogliono di più. Il lavoro di servizio nei ristoranti, invece, non rientra praticamente mai in quest’ottica. Come nelle riflessioni di Willem, è invece carico di una serie di connotazioni negative (il fallimento, la delusione, la rassegnazione), e tradizionalmente indica un totale abbandono del campo delle esperienze di vita apprezzabili. Anche in una cultura entusiasticamente impegnata a promuovere un’infinità di pratiche discorsive che celebrano il cibo e la gastronomia, quelle del personale di servizio non sono mai viste come storie di successo. Questo tipo di lavoratori, quindi, non si prestano bene a fare da materiale per un romanzo. Non sono «protagonisti» nel senso convenzionale della parola.

Hanya Yanagihara ci presenta questo problema in miniatura quando descrive Willem al lavoro. Ci viene detto che: «A volte Willem si fermava sulla soglia delle cucine e guardava le improbabili coppie di cameriere piccole e more e di uomini alti e magri come grissini che giravano in cerchio per la sala, pattinando in una strana serie di minuetti». La chiave, qui, è la collocazione fisica del personaggio. Come soggetto narrativo, Willem isola la propria esperienza, separandola (nonostante la letterale prossimità) da quella dei suoi colleghi, che guarda da una posizione di deciso distacco critico ed estetico. Al contrario, i camerieri descritti in questa scena non dimostrano la minima capacità di parlare per sé. Persistono, al contrario, nella loro condizione di  eccezionalità: un’esistenza de-soggettivizzata di corpi in movimento, una massa animata.

In confronto alle 650 pagine di pathos che seguono, il momento di insicurezza di Willem lo fa apparire come un ragazzo coi paraocchi, elitario, naif. Ma è esattamente questo il modo in cui continuano a pensare molti scrittori che operano sul versante testuale della food culture. E, così come Willem da giovane, lo fanno a discapito degli individui che si guadagnano da vivere come personale di servizio, relegando questi soggetti sullo sfondo perché non si conformano alle più banali e tradizionali aspettative su ciò che dà valore a una vita e la rende degna di essere raccontata. Nella sua recensione sul New Yorker, Jon Michaud fa un paragone fra Una vita come tante e un altro romanzo di recente uscita, Carne viva di Merritt Tierce, sulla base del fatto che tutti e due i libri sono incentrati sulla rappresentazione di personaggi la cui vita è devastata da una spinta autodistruttiva. Michaud identifica questa coincidenza tematica e non va oltre, ma forse ha più ragione di quanto lui stesso immagini. Entrambi i romanzi, sembra, tentano di rovesciare i luoghi comuni sul rapporto fra dinamiche aspirazionali e narrativa letteraria. Ed entrambi (anche se in diversa misura) usano il lavoro del personale di servizio come cartina di tornasole a questo scopo.

La differenza di approccio, tuttavia, non potrebbe essere più pronunciata. Il romanzo della Yanagihara passa solo di sfuggita per la sala di un ristorante. L’Ortolan, questo incubo travestito, segna solo una breve fase della vita e del pensiero di un personaggio, e serve da punto di partenza per il progetto più generale del romanzo, quello di rimettere in discussione i dogmi fondamentali della narrativa letteraria. Una volta sollevato il tema, il romanzo passa oltre, e i camerieri che Willem evoca nel loro frenetico andirivieni restano illeggibili, esclusi dallo spazio della narrazione. Il romanzo di Merritt Tierce, invece, si ferma in quel mondo e ci rimane.

La narratrice di Carne viva è Marie, cameriera professionista e madre single con tendenze autolesionistiche, i cui tentativi di costruirsi una vita stabile vengono ripetutamente frustrati dai pericoli, dalle tentazioni e dalle disuguaglianze strutturali che dominano non solo il suo mondo, ma anche il mondo del lavoro nei ristoranti in generale.

Cominciamo dalle cose più importanti: Merritt Tierce è una scrittrice dalla prosa formidabile. Il suo romanzo convince soprattutto per la vasta e sbrigliata intelligenza di cui è dotata la narratrice, che è, come personaggio, una meraviglia di autoanalisi e autorappresentazione. Riflettendo su un suo amante, ad esempio, dice: «Aveva la forza oscura e minacciosa di una pantera e nonostante le normalissime righe verdi intorno alle dita dei calzini mi faceva una tale paura che non riuscii a bagnarmi». In maniera tanto prevedibile quanto deludente, i critici hanno spesso definito simili riferimenti alla sessualità femminile «scioccanti», o li hanno usati come prova della «coraggiosa durezza» del romanzo. Ma Carne viva non è un romanzo che punta particolarmente a scandalizzare il lettore. È, viceversa, alimentato da una lucida comprensione del mondo in cui si muove. Il suo sguardo è spietatamente diretto, certo, ma è anche diagnostico, analitico e pieno di saggezza.

Carne viva usa questa intelligenza critica per tracciare una mappa della geografia complicata e a volte oscura del lavoro da camerieri, seguendo Marie nel suo passaggio da un impiego all’altro – dai tavoli di un ristorante di catena a quelli di un piccolo bistrot, a una steakhouse elegante, e così via. E qui, di nuovo, torna in primo piano la questione dello sviluppo esistenziale. I dettagli della vita di Marie cambiano notevolmente da un capitolo all’altro, ma non sono collegati da una storia di progresso o di crescita. Quella che ci troviamo di fronte è invece una serie di disperati compromessi. Ogni successiva fase della vita professionale di Marie può anche segnare un miglioramento della sua situazione economica (e il romanzo di Merritt Tierce mostra una disponibilità senza precedenti a parlare di soldi in termini specifici), ma ciascuna porta con sé anche una maggiore esposizione al rischio, e queste forme di rischio derivano tutte dalle particolari condizioni dei vari posti di lavoro di Marie.

Il che mi sembra una novità. In genere, i romanzi non perdono troppo tempo a seguire i personaggi sul luogo di lavoro, ma la grandezza del libro della Tierce sta anche nel suo insistere sul fatto che la sfera personale è, per molti di noi, inestricabile da quella professionale, che i problemi della salute e della stabilità, del benessere del proprio corpo, dell’amore, della cura dei propri cari, sono inseparabili dalle turbolenze sul posto di lavoro. La letteratura realistica non ha mai mostrato particolare interesse ad affrontare il fatto che la nostra professione, e il modo in cui viene vista sul piano culturale, determina il nostro modo di vivere. Il romanzo della Tierce offre quindi un correttivo di cui c’era un gran bisogno. Racconta meticolosamente come, per Marie, le opportunità di sicurezza siano limitate dalle circostanze in cui è costretta a guadagnarsi da vivere.

Ne esce un ritratto straordinariamente efficace delle difficoltà del lavoro nei ristoranti. La Tierce riesce a restituirci benissimo il sapore di quell’esperienza. In Carne viva emergono dati, emozioni e situazioni di cui quasi nessun food writer convenzionale sarebbe interessato a occuparsi. I ristoranti sono, con frequenza allarmante, organizzati in base a una divisione del lavoro volgarmente basata sulla razza. Possono essere luoghi di grande tensione e ostilità, dato che la pratica della mancia tiene il personale di servizio alla mercé dei capricci dei clienti. Gli abusi e le molestie sessuali (da parte dei gestori dei locali tanto quanto degli avventori) sono all’ordine del giorno. E le cucine sono spesso luoghi contraddistinti dalla violenza e dal rischio di incidenti che si potrebbero evitare. La scrittura che sostiene la «cultura gastronomica» sceglie di ignorarlo, preferendo portare pigramente avanti una forma di discorso in cui non trovano posto alcune delle realtà più sconfortanti del lavoro di servizio nella ristorazione.

A dire il vero ritengo che il food writing abbia, come genere di scrittura, un potenziale di impatto positivo sulla realtà. Lo vediamo in forma embrionale, ad esempio, nel successo un po’ controverso del movimento della «filiera corta», in cui la scrittura (sotto forma di editoriali, analisi critiche, manuali di cucina, blog) ha avuto un ruolo molto significativo. Le questioni che ne sono emerse – il trattamento giusto degli animali, l’agricoltura sostenibile e così via – sono importanti. Ma il motivo per cui questi temi hanno fatto presa è in larga misura che sono anche estremamente trendy e facilmente mercificabili. I clienti ben informati sanno cos’è un ristorante che propone cibi «a filiera corta», e sono di norma capaci di spiegare in maniera decente i principi basilari del movimento. Ma il movimento a favore della filiera corta si ferma letteralmente troppo presto: si occupa di come il cibo arriva dal produttore alla cucina. Va fatto uno sforzo ulteriore. Dobbiamo ancora assistere alla nascita di una scrittura, di una politica, che esamini il modo in cui il cibo compie l’ultima tappa del viaggio, dalla cucina alla tavola.

Come esempio di compensazione degli endemici difetti del food writing, e della cultura gastronomica in genere, il romanzo di Merritt Tierce non potrebbe arrivare in un momento migliore. Le principali pratiche testuali vigenti in questo campo culturale hanno un gran bisogno di essere rimesse in discussione. Le modalità dominanti di rappresentazione visiva (pensiamo alle foto di pancake su Instagram) si limitano a un vocabolario che regolarmente trascura o esclude di proposito il personale di servizio. Nel frattempo, il proliferare delle recensioni anonime ad opera di sedicenti gourmet su piattaforme come Yelp mostra totale indifferenza rispetto al netto squilibrio di potere che esiste fra i commentatori anonimi e la posizione altamente precaria e vulnerabile del personale di servizio, la stabilità del cui posto di lavoro è spesso appesa a un filo.

È facile, ovviamente, demonizzare i recensori di Yelp, in parte perché tendono a usare toni presuntuosi e compiaciuti nelle loro critiche agli impiegati dei ristoranti. Sono facili al moralismo, il che li rende ridicoli, ma sono anche in buona compagnia. Gli potranno mancare, in molti casi, la grazia espressiva e il gusto sofisticato dei critici culinari mainstream, ma condividono con quelle voci più influenti una generale noncuranza per la realtà del lavoro del personale di servizio.

Ecco un facile esempio. Da quando ha cominciato a recensire ristoranti per il New York Times nel 2011, Pete Wells si è sforzato non solo di distinguersi dai suoi predecessori, ma anche di ribaltare alcune delle più fondamentali regole e convenzioni del food writing come genere. Lo vediamo, ad esempio, verso l’inizio della sua recensione di uno Shake Shack a Brooklyn: «Sì», afferma, «sono pronto ad assegnare delle stelle a un chiosco di hamburger». Chiaramente, Wells si fa vanto di non essere un critico gastronomico all’antica.

È triste, però, constatare che decisamente lo è. L’oggetto delle sue recensioni può senz’altro apparire idiosincratico e originale – se ci si limita, quantomeno, agli archivi del Times – ma il tenore del suo approccio, la rapidità con cui disprezza e offende, non sono altro che i più tipici veicoli dell’espressione di un senso di superiorità borghese.

Ciò è particolarmente vero se osserviamo l’atteggiamento di Wells nei confronti del personale di servizio, che, in perfetto accordo con le convenzioni della critica culinaria, nelle sue recensioni appare soltanto di rado. E quando appare, viene perlopiù fatto oggetto di commenti derisori, o volgari, se non proprio di esplicito disprezzo.

Prendiamo, ad esempio, il suo recente articolo su Rebelle, un ristorante vagamente francese, costoso, che punta molto sul vino, situato nel Lower East Side di Manhattan. La recensione è imparziale e scritta in tono brioso. Prende in esame l’atmosfera del locale oltre che le pietanze. Ma malgrado tutta la sua attenzione ai dettagli, sembra quasi ignorare la presenza di un personale di servizio. Wells non è il solo a evidenziare questo problema: si sta semplicemente conformando alle convenzioni del suo settore. Il problema, però, esiste ed è questo: il settore in questione è laido, classista e antiquato. Se volessimo fare l’impossibile, e prendere sul serio la critica gastronomica, dovremmo immaginare un ristorante come una sorta di vivace fantasmagoria in cui il cibo e le bevande arrivano all’esame del critico di loro spontanea iniziativa. È lo scenario della più classica forma di feticismo delle merci: la tavola vampiresca di Marx vi si troverebbe perfettamente a suo agio. In questo tipo di scrittura il cibo si materializza come per caso, entrando in scena con una repentinità sconcertante. Una volta lì, trasuda linguaggio descrittivo, ed è presumibilmente sulla base di questo linguaggio che si valuta la bravura del critico. Wells, in questo senso, non lascia a desiderare. La sua, a volte, è un’ottima prosa.

Ma una parte così ridotta di questa prosa è rivolta all’osservazione del personale di servizio che vale la pena di soffermarsi sulle eccezioni. Da Rebelle, come altrove, il personale entra in scena solo in quanto oggetto di rimprovero. In questo caso, Wells esprime disappunto per il fatto che la cameriera gli consiglia, a quanto pare «con il tono di chi recita un copione», di ordinare come se il menù prevedesse obbligatoriamente una successione di quattro portate. Wells fa una vigorosa obiezione, interrompendo il paragrafo e rivolgendosi alla cameriera col discorso diretto.  «No», le ribatte. Punto. «Il vostro è un menù alla carta». Il «no» di Wells è la prima parola in tutta la recensione che affronta il personale di servizio come qualcosa di diverso da un puro elemento di sfondo, e ha una funzione potente. È un momento di apostrofe aggressiva.

Come figura retorica, l’apostrofe evoca o chiama in causa qualcosa che non è presente. La sua funzione non è referenziale, bensì performativa. Fa comparire qualcosa – se non proprio creandolo dal nulla, quantomeno dandogli una leggibilità. In questo caso, ciò che fa comparire è una cameriera. Anzi, non tanto una cameriera quanto una posizione strutturale, una posizione di netta inferiorità rispetto a Wells, recensore e cliente. Dobbiamo essere chiari: qui non si tratta di analisi critica, si tratta di interlocuzione diretta.

Questo uso improprio della retorica è tanto più frustrante in quanto con il punto sollevato da Wells, in sé e per sé, mi trovo d’accordo. A nessuno piace sentirsi vendere più di quanto si ha intenzione di comprare, neppure nell’ambito di una cultura per avere accesso alla quale ci viene richiesto di considerare normale l’esborso di una notevole quantità di denaro (12 dollari, per dire) in cambio di, non so, una lenticchia con un po’ di brodo sopra. Quello che non mi va giù è la prontezza con cui Wells mette in scena un rapporto di subordinazione forzata. È l’equivalente letterario della peggior specie di maleducazione al ristorante. Wells, di fatto, chiama la cameriera al suo tavolo solamente per rimproverarla. Subito dopo, la congeda.

È un peccato, specie perché Wells nota qualcosa di importante. Riconosce il fatto che questo blando tentativo di indirizzarlo verso l’opzione più costosa è probabilmente frutto di un copione, imposto alla cameriera dal suo datore di lavoro, chiunque egli sia. Nel farne una colpa alla cameriera stessa, però il critico sbaglia clamorosamente il bersaglio della sua indignazione.

Il suo ricorso alla metafora teatrale è indicativo. La finzione perpetuata da Wells, dai recensori di Yelp e da altri critici gastronomici mainstream è che il servizio al tavolo nei ristoranti sia un tipo di performance, e quindi sia soggetto ai parametri della critica estetica. «No», si potrebbe dire, rubando a Wells il suo espediente retorico carico di paternalismo. Non è una performance. È lavoro.

Va detto, in difesa di Wells, che pecca per convenzione. La sua non è una posizione delirante e fuori dagli schemi. In questo, sembra differire da Robert Sietsema di Eater. In un suo recente post, Sietsema richiede la nostra attenzione per lamentarsi di un fenomeno tipico dei ristoranti che definisce, in maniera piuttosto bizzarra, «approvazione obbligatoria»: con ciò intende una modalità di dialogo comune nei ristoranti di oggi, in cui i camerieri costringono i clienti ad ammettere che gradiscono le pietanze. Fanno domande tendenziose, si lamenta Sietsema. Il che rende imbarazzante, per i clienti, manifestare insoddisfazione. «Guai a chi si rifiuta di stare al gioco», scrive. Per lui, evidentemente, la posta è molto alta. Difficile non provare pietà per una figura pubblica che capisce così poco del mondo che occupa e che per qualche motivo si sente nella posizione giusta per commentare. Sietsema ha totalmente capovolto la sperequazione di potere fra gli avventori del ristorante e il personale che li serve, ma non è chiaro se ciò sia il risultato di una specie di stupida indifferenza, o se il falso problema che diagnostica sia semplicemente la manifestazione paranoica di una sorta di repulsione elitista.

In realtà, da che mondo è mondo i clienti dei ristoranti non hanno mai avuto nessun problema a sporgere le loro lamentele. L’intero settore della ristorazione è per molti versi basato sul concedere ai clienti una sorta di sconfinata libertà di parola. Sono, in generale, autorizzati a dire quello che gli pare. Il personale di servizio, viceversa, è rigidamente limitato nella propria espressione. Come Merritt Tierce ci mostra più volte in Carne viva, la stabilità del posto di lavoro di una cameriera in molti casi dipende totalmente dalla sua capacità di trattenersi dal fare commenti, anche di fronte a insulti, molestie o abusi. La pratica delle mance non fa altro che esacerbare il problema, dato che i clienti di un ristorante sono liberi di stabilire l’entità della gratifica in base alla tolleranza mostrata dal personale di fronte alla loro maleducazione. Stranamente, tuttavia, questi limiti non sono sufficienti per Sietsema, che sembra ritenere degno compito del critico la regolamentazione del discorso. Manifesta una nostalgia quasi maniacale per i tempi in cui, a tavola, il dialogo si limitava a quelle che chiama «le tipiche domande da cameriere che vogliamo davvero sentire: “Posso portarle qualcos’altro?” o “Ha finito, posso portar via?”» – in altre parole, le più funzionali espressioni di pronta supplica.

C’è una lunga tradizione di pubblici fustigatori che usano la retorica della critica come alibi per la forma più primitiva di lagnanza borghese. Questo atteggiamento potrà anche trovare spazi in cui manifestarsi, ma non va scambiato per attività intellettuale e non va degnato di attenzione. Questi non sono critici, sono consumatori. Confondono l’espressione della loro capricciosa sensibilità ferita con la lucidità di sguardo.

Chiedetelo a chiunque abbia lavorato in un ristorante per qualche tempo: è un mestiere duro. E la cultura di questo ambiente professionale ha un disperato bisogno di essere rimessa in discussione. Può darsi che stiano arrivando i soccorsi, visto e considerato che alcune amministrazioni statali e municipali degli Stati Uniti hanno cominciato a considerare prioritaria una legislazione sul salario minimo per i lavoratori dei fast food e di altre forme di ristorazione. Tali misure sono senz’altro benvenute, ma arrivano con grande lentezza, e ancora non è chiaro se questi cambiamenti stimoleranno davvero il profondo ribaltamento culturale di cui il settore ha bisogno. Proprio per questo è ora di promuovere un tipo di food writing più critico, più intelligente e più politicamente impegnato, che sia disposto a lasciarsi alle spalle la tradizionale enfasi sulla soddisfazione del cliente, e che si assuma una buona volta il compito di rappresentare il lavoro del personale di servizio per quello che è veramente. Immaginate un tipo di scrittura che faccia posto ad altre «tipiche domande da cameriere», come, «potresti per favore guardarmi negli occhi quando mi parli?» o «potrei per favore avere un’assicurazione sanitaria?»

E tutto questo è tanto più importante perché, culturalmente, il lavoro di cameriere merita una dignità molto maggiore di quella che gli viene data. Chiedetelo a chiunque abbia lavorato in un ristorante: è un’esperienza potente. Può essere un lavoro di incredibile umanità, di grandissima gioia.

Patrick Abatiell studia per un Ph.D. alla New York University. Ha scritto di lavoro nei ristoranti per The Awl e Public Books, rivista a cui collabora regolarmente. Lavora in un ristorante.

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