Passaggio di consegne: «Da McOndo a Afterpop»

redazione Interviste, SUR

Insieme al lungo excursus di Stefano Tedeschi sulla ricezione in Italia degli autori e delle opere del Boom latinoamericano degli anni Sessanta e Settanta, ci occupiamo anche di movimenti e autori più vicini a noi nel tempo pubblicando oggi la prima parte di un’intervista non recentissima ma piuttosto interessante a due scrittori che si sono affacciati anche nel panorama editoriale italiano.
Nel 2008, il supplemento letterario del quotidiano spagnolo ABC ha pubblicato «Da McOndo a Afterpop», un’intervista del critico spagnolo Jorge Carrión allo scrittore messicano Jorge Volpi e al boliviano Edmundo Paz Soldán sul tema delle generazioni, dei movimenti letterari latinoamericani e spagnoli degli anni Novanta e dell’inizio di questo secolo, fondamentalmente: McOndo, Crack, Afterpop.

di Jorge Carrión
Traduzione di Raffaella Accroglianò

La letteratura latinoamericana di oggi gode di una certa diffusione  e visibilità, comparabile a quella ottenuta dalle avanguardie dell’inizio del secolo XX. L’interconnettività, che sia i paesi sia i creatori e i movimenti appoggiano, è paragonabile al networking effect della letteratura contemporanea.
Nel 1996 sono coesistite, agli estremi opposti dell’America Latina, le due ultime grandi proposte generazionali in lingua spagnola. Dal Cile, Alberto Fuguet e Sergio Gómez facevano appello agli scrittori sensibili al villaggio globale e alle nuove tecnologie e promuovevano l’antologia ispanoamericana McOndo, in opposizione al realismo magico e commerciale di quel periodo. Dal Messico, Jorge Volpi, Ignacio Padilla e altri firmavano il manifesto del Crack, in difesa della letteratura alta e del ritorno all’ambizione del Boom. Esattamente dieci anni dopo è stato pubblicato in Spagna Nocilla Dream (Candaya, 2006) di Agustín Fernández Mallo, la cui seconda parte, Nocilla Experience (Alfaguara), è apparsa nel 2008. Riprende così un antico dibattito: che ne facciamo di quella che tradizionalmente è stata chiamata «generazione»? La pubblicazione nello stesso periodo dei saggi Afterpop – La literatura de la implosión mediática (Berenice, 2007) e Homo sampler. Tiempo e consumo en la era Afterpop (Anagrama, 2008), di Eloy Fernández Porta – ha dato luogo a una riattualizzazione della tematica generazionale. Il fenomeno è stato discusso da Edmundo Paz Soldán, Jorge Volpi e Jorge Carrión in una prospettiva storica e critica.

Jorge Carrión: Iniziamo dal principio. Questa storia comincia nel 1993, con la pubblicazione a Santiago del Cile di Cuentos con Walkman, un’antologia di nuovi scrittori che ebbe grande successo e generò, di fatto, l’antologia mcondiana….

Edmundo Paz Soldán: Dopo l’antologia di Cuentos con Walkman, circoscritta ad autori cileni di nuova generazione, Alberto Fuguet incontrò lo scrittore messicano David Toscana allo Iowa Writers Workshop. Quando Alberto gli mostrò il libro, David fu positivamente sorpreso e gli suggerì di preparare una nuova antologia, ma a livello latinoamericano… Così nacque McOndo. C’è un aspetto un po’ trascurato: anche se il prologo si riferiva soprattutto alla realtà latinoamericana, tre dei diciassette scrittori inclusi erano spagnoli (Ray Loriga, José Ángel Mañas, Martín Casariego).

J.C.: Questo mi fa pensare ai nomi delle cosiddette «generazioni». Da una terminologia numerica e storica (del ‘27, del mezzo secolo) o legata a un’epoca (modernisti, Contemporáneos), si passa nella postmodernità alle definizioni onomatopeiche (Boom, Crack), tecnologiche o d’ispirazione popolare (Walkman, McOndo, Nocilla). Sarà per motivi giornalistici?

E.P.S.: Il nome del Boom apparve in un giornale argentino. Nella seconda metà del XX secolo la critica giornalistica comincia ad avere una grande influenza sulla fortuna dei movimenti artistici. A volte consacrandoli e altre banalizzando lo scopo delle loro proposte. In questo anche noi scrittori siamo corresponsabili perché, pur criticandoli, ci siamo serviti dei mezzi di comunicazione.

J.C.: Nel 1996 esce McOndo e si fa pubblicità al Crack. Ho la sensazione che la gestazione dei due progetti, non solo la loro ideologia, sia antitetica. Se dobbiamo credere al prologo dell’antologia, si trattò di un libro fatto con poche risorse e molta forza di volontà, senza un accordo previo per la sua diffusione, senza contratti, senza potenti agenti letterari che appoggiassero l’iniziativa; anche se Mondadori è una grande casa editrice. Al contrario, intuisco che nel Crack vi fu un intervento di certi poteri, da alcuni membri del Boom, a chi voleva riscattarsi, fino a superagenti o case editrici… Mi sbaglio?

Jorge Volpi: Questo è un altro dei malintesi che hanno sempre circondato il Crack. Il gruppo nasce con la riunione di cinque amici, Pedro Ángel Palou, Ignacio Padilla, Eloy Urroz, Ricardo Chávez Castañeda e io, in un Vips di Città del Messico nel 1994, quando nessuno di noi aveva il minimo contatto con alcun tipo di «potere». Padilla, Urroz e io eravamo amici dalle superiori. Tutti avevamo pubblicato i nostri primi libri con parecchie difficoltà (ed enormi resistenze della critica). Tutti e cinque avevamo nuovi romanzi inediti, lunghi e ambiziosi (non dico che fossero necessariamente buoni) e avevamo incontrato molte difficoltà per pubblicarli. Decidemmo quindi di riconoscerci come gruppo (mai come generazione), di darci un nome ironico (Crack, omaggio ovvio ma anche presa in giro del Boom) e provare a pubblicare i cinque romanzi in una stessa collana. Dopo vari tentativi frustrati, l’editore Sandro Cohen di Planeta, e poi di Nueva Imagen, decise di accogliere i nostri libri. In seguito si disse che Cohen fu l’inventore del Crack, un’altra bugia. Quando finalmente i libri furono pubblicati nel 1996, decidemmo di aggiungere “la vera presa in giro” e li accompagnammo con un manifesto. Così nacque il Crack. Senza agenti. Senza pensare al mercato e alle traduzioni. Senza padrini.

J.C: Quindi ci sarebbero due fasi: quella domestica, privata, e quella internazionale. Ricordo per esempio il coinvolgimento della rivista Lateral di Barcellona nella seconda fase. O la pubblicazione del manifesto in riviste inglesi. Come fu la seconda fase, dal tuo punto di vista?

J.V.: La fase “domestica” del Crack, come la chiami tu, è durata un bel po’. Dopo la pubblicazione del manifesto nel 1996 abbiamo ricevuto decine di attacchi e insulti dalla stampa messicana, da parte di contemporanei e scrittori un po’ più anziani di noi, a causa della pretesa di apparire come gruppo, cosa vista malissimo in un paese dove i gruppi proliferavano senza osare presentarsi come tali, vedi quelli che orbitavano allora intorno a Nexos o Vuelta. Molti servizi facevano riferimento, per esempio, “all’autonominato gruppo del Crak”, alludendo evidentemente agli “autonominati zapatisti”, come se fossimo un gruppo di guerriglieri. Riconosco che nel nostro obiettivo c’era un certo desiderio giovanile di creare imbarazzo e scandalizzare, anche se in realtà chiedevamo una specie di ritorno al Boom e criticavamo ferocemente l’obbligo per uno scrittore latinoamericano di scrivere realismo magico. La seconda “tappa” del Crack, se possiamo chiamarla così senza essere pedanti, inizia con il Premio Biblioteca Breve a En busca de Klingsor (In cerca di Klingsor, Mondadori 2000; n.d.r.) nel 1999 (cinque anni dopo la formazione del gruppo) e si consolida con il Premio Primavera ad Amphytrion (Ombre senza nome, Fanucci 2005; n.d.r.). Da quel momento inizia un improvviso interesse, fuori dal Messico, per il gruppo a cui appartengono quei due messicani che hanno appena vinto dei premi in Spagna. (In quel periodo io continuavo a fare il mio dottorato a Salamanca e Nacho Padilla era tornato in Messico da un anno). Cominciano quindi le traduzioni, le ristampe di alcuni nostri libri, il nuovo scandalo mediatico (ora causato dalla nostra presunta complicità con il “mercato” o dall’“abbandono” dei temi latinoamericani, cose entrambe false). I successivi momenti importanti per il Crack furono la pubblicazione in Spagna del manifesto (su Lateral), la pubblicazione presso l’editore Muchnik nel 2001 di romanzi di Palou e Vicente Herrasti (che entra nel gruppo) e alla fine, nel 2004, di Crack: Instrucciones de uso (Mondadori), la narrazione delle avventure del gruppo a dieci anni dalla sua nascita.

J.C.: Nel tuo racconto c’è un’ellissi. Che cosa accade tra la situazione ancora edenica del 1996 e quella istituzionalizzata del 1999?

J.V.: Tra il 1996 e il 1999 noi autori del Crack abbiamo continuato a pubblicare in Messico romanzi e saggi in modo costante e, allo stesso tempo, la maggior parte dei membri ha lasciato il Messico per studiare altrove (Nacho e io a Salamanca, Ricardo ed Eloy negli Stati Uniti). Abbiamo combinato la vita accademica con quella letteraria. Ed è stato come studente di dottorato che ho ottenuto il premio Biblioteca Breve.

J.C.: D’altro canto, quello che suggerisci a proposito delle riviste come nuclei “generazionali” è interessante. È evidente che tutti gli scrittori hanno una rete o un gruppo che può essere identificato con ciò che cinquanta anni fa s’intendeva per “generazione”. “L’alleanza” tra Fuentes, Goytisolo, Ortega o Ríos, per esempio, va in questa direzione. La “solidarietà” testuale e personale tra Vila-Matas, Piglia, Villoro o Bolaño, anche.  Il problema è esprimersi, rendere visibili queste reti, soprattutto a partire da una forma letteraria che si percepisce come anacronistica: “il manifesto”…

J.V.: A differenza di altri gruppi, noi del Crack abbiamo deciso di rendere pubblica la nostra amicizia letteraria (senza contare su una rivista, come tradizionalmente hanno fatto altri). Il manifesto sin dall’inizio fu un’insinuazione ironica, una burla seria, una provocazione. In questo senso funzionò perfettamente, dato che la reazione degli altri gruppi (che non si presentarono mai come tali) fu molto violenta. Tutti sapevamo che un manifesto era “anacronistico”, come dici tu, ma quella era l’intenzione… Tuttora continuiamo a credere che i gruppi letterari animino la vita intellettuale e per questo continuiamo a rivendicarne l’esistenza.

E.P.S.: Alla fine degli anni Novanta, di contro, l’idea di un movimento artistico o di una proposta generazionale veniva scartata. Erano tempi postmoderni, e bisognava essere ironici, scettici, consapevoli di tutto. Incluso della stessa tradizione letteraria. Il prologo all’antologia McOndo aveva un tono serio solo a metà. Fu la critica a interpretare il prologo come un manifesto, riducendo così l’elemento generazionale a ciò che mostrava l’antologia: si trattava semplicemente di scrittori nati negli anni Sessanta che avevano cominciato a pubblicare nei Novanta.

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