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La morte incombe sulla città

Scrittore fallito [1] di Roberto Arlt è in libreria, e noi stiamo lavorando a una sorpresa interamente dedicata all’autore,  insieme agli amici di Del Vecchio editore. Nel frattempo, quindi, vi proponiamo questo articolo di Claudio Zeiger, uscito su Radar, che ci svela un altro dettaglio insolito della biografia arltiana.

«La morte incombe sulla città»
di Claudio Zeiger
traduzione di Claudia Tebaldi 

Il 26 giugno del 1942 moriva Roberto Arlt, all’età di 42 anni, dando inizio a un lungo silenzio sulla sua opera, che poi sarebbe arrivato al suo termine, e a una leggenda della letteratura argentina: quella del cadavere che si dondola sopra una città le cui trasformazioni aveva aiutato a decifrare.

Della morte di Roberto Arlt, accaduta (termine che sicuramente sarebbe apparso in un telegiornale del suo tempo) il 26 luglio del 1942, ci rimane questa immagine emblematica che Ricardo Piglia seppe descrivere a partire dalle fotografie della camera ardente mostrategli da Juan Carlos Martini Real. La più impressionante di queste immagini, ricordavano entrambi, era quella del feretro appeso in aria con delle funi e sospeso sulla città. La bara, assemblata nella sua stanza, era molto grande e non passava dalla porta al corridoio, per cui dovettero farla uscire dalla finestra con delle attrezzature e delle funi. Piglia avrebbe utilizzato questa immagine come metafora del posto che occupa Arlt nella letteratura argentina e come parabola della sua vita riassunta nella morte. Ogni volta morirà giovane e ogni volta tireremo fuori il suo cadavere dalla finestra. E così continuiamo, nello stesso giorno, annunciando ancora una volta, come fece El Mundo nella sua edizione del 27 luglio del ’42, la morte del nostro fratello, giornalista, reporter, scrittore, un’altra volta affacciandoci all’ultima acquaforte, all’ultima cronaca, all’interminabile necrologia.

C’è un libro del 1950 che in forma particolarmente meticolosa e con emozione contenuta ricostruisce – tra dato reale ed evocazione, nel migliore stile del film di una vita che passa intero davanti agli occhi nell’istante finale – l’ultimo giorno di questa vita, un sabato che cominciò a mezzogiorno, quando Arlt si sveglia e sente una fitta al cuore, una fitta lancinante.

Forse i giudizi sul libro non sono concordi, soprattutto quelli estetico-letterari, ma il capitolo finale, «La partida inesperada», è notevole. Si tratta di Roberto Arlt, el torturado di Raúl Larra, prima biografia più o meno coerente dello scrittore. Parla della sua infanzia, racconta la famosa storia del padre che gli diceva «domani ti picchierò», che era peggio che picchiarlo in quello stesso momento, assicurandogli la lunga notte di chi sarà giustiziato all’alba. Ritiene che nel suo romanzo inaugurale, Il giocattolo rabbioso,fosse già sintetizzata tutta l’opera posteriore – cosa abbastanza discutibile, visto che si basa essenzialmente sull’idea che Silvio Astier[1] sia la versione più giovane di Erdosain[2] – congettura non tanto accettabile. Astier è Arlt, uno potrebbe pensare contro ogni prevenzione antiautobiografica; ma Erdosain non è Arlt, è l’uomo grigio, l’uomo d’ufficio che potrebbe essere stato Arlt in uno degli incubi dell’autore. Ad ogni modo, Larra poi si dilunga approfonditamente sulla dedizione di Arlt al teatro, si addentra nel rapporto di Arlt con la politica (abbastanza esplicativo, un po’ idealizzato ma attendibile, con dati che gettano alle ortiche alcuni luoghi comuni tra Florida e Boedo[3]) e da ultimo approda in questo finale tanto triste quanto felice del suo libro: la morte inaspettata.

Ovvio: si potrebbe addurre che sia stata più prematura che inaspettata. Lo stesso Larra rende noti i suoi problemi cardiaci e chiarisce che Arlt seguiva a metà le prescrizioni mediche. Ma fondamentalmente la narrazione è dettagliata, e sembra veridica anche quando estrapola immagini e ricordi di altri tempi. Rivela che quel mezzogiorno, mentre si vestiva per uscire in strada, cercò di ricostruire esattamente il volto del padre e ancora una volta non ce la fece; gli si mostrava sempre come un decapitato. Ed evoca anche le sue prime inclinazioni per l’occultismo, che gli fa pensare alle persone care che se ne sono già andate – come sua sorella Lila, come Ricardo Güiraldes – e alla possibilità di rincontrarle un giorno.

Una volta in strada, mette la mano in tasca e tocca un foglietto. È del Círculo de La Prensa. Una convocazione. Quella notte ci sono le elezioni. Perché non andare, pensa. E affianco alla convocazione una lettera. Ricorda di averla scritta la sera prima. È una lettera per la madre, in cui le parla della chimera delle calze vulcanizzate, è la possibilità di avvicinarla con un’invenzione al limite tra il razionale e il miracoloso. Dopo averla infilata nella buca delle lettere, fa un giro per la redazione del giornale, dove ricorda le nottate passate battendo la macchina per scrivere I sette pazzi, e apre i cassetti della sua scrivania, malinconico, ormai quasi perduto.

Poi si allontana dalla malinconia, anche se non smette mai di sentire il freddo di quell’inverno e la fitta al cuore. Prende la metro, scende a Callao e va dritto verso Corrientes, la sua via. Ed è la notte del sabato.

Si arriva fino al Teatro del Pueblo, dove già sta discutendo con Barletta riguardo alla messa in scena di El desierto entra en la ciudad, ma quella notte assiste per la decima volta a una rappresentazione di Gogol’. Ride, applaude e si diverte dall’ultima fila.

All’uscita vanno a bere qualcosa con la combriccola di attori e lavoratori del teatro e solo allora si ricorda delle elezioni nel Círculo de La Prensa. Si precipita là. I giornalisti sono sorpresi di vederlo. È la prima volta che va a votare. E così si conclude il racconto di Larra:

Quando esce, dopo aver votato, non indovina cosa succederà il giorno dopo. Lo porteranno in una bara di legno ordinario, lo copriranno di fiori e gli amici si chineranno sul suo viso illuminato di pace, ripetendosi pieni di angoscia: «È mai possibile?»

Sulla strada di casa gli torna la fitta al cuore. «È la vecchia angoscia che si fa sentire», dice tranquillo, senza timore. Ha tanto da fare; lunedì sicuramente andrà al laboratorio, metterà in ordine le cose e poi partirà per il Delta per una settimana.

Si spoglia senza accendere la luce. Non sa come ma si ricorda di Lila: «Dobbiamo vederci di nuovo in un’altra vita».

Sì, ripete in dormiveglia, dobbiamo vederci. Appoggia la testa sul cuscino. E si addormenta… si addormenta per sempre.

E così, con il suo fantasma che ancora una volta oscilla sopra la città, gli diciamo addio.

 

[1] Protagonista del romanzo Il giocattolo rabbioso. [n.d.t.]

[2] Protagonista del romanzo I sette pazzi. [n.d.t.]

[3] Gruppi letterari antagonisti, nell’Argentina degli anni ’20. [n.d.t.]