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Intervista a Damon Krukowski

Nel suo Ascoltare il rumore. La riscoperta dell’analogico nell’era della musica digitale [1], Damon Krukowski [2], membro prima dei Galaxie 500 e ora del duo Damon & Naomi, punta l’obiettivo sul panorama digitale per provare a rispondere alla domanda: «A quali elementi del mondo analogico bisogna restare aggrappati per destreggiarsi in quello digitale?»

L’intervista, uscita originariamente in versione integrale su Aquarium Drunkard [3], viene riprodotta per gentile concessione della rivista. Buona lettura!

Ascoltare il rumore

Damon Krukowski scrisse per la prima volta di analogico e digitale in un articolo del 2012 per Pitchfork, nel quale analizzò nel dettaglio le percentuali di royalties applicate dai più noti servizi di streaming. Ma è nel suo libro e nel podcast che lo accompagna, Ways of Hearing, che mette il tema a nudo sviscerandolo da una prospettiva scientifica, tecnologica, sociologica ed emotiva. La sua non è una filippica contro il progresso, ma piuttosto un’indagine acuta e molto ben scritta sull’autentico valore della musica. In un ambito soggetto a continui stravolgimenti, l’autore illustra non solo ciò che varrebbe la pena di salvare dell’era analogica, ma anche il modo in cui il «rumore» di fondo agevola tanto la nostra comprensione quanto il nostro legame con la fonte del «segnale» della musica stessa.

 

Aquarium Drunkard: Ho comprato il tuo libro in una libreria indipendente, dopo aver staccato da lavoro in un negozio di dischi altrettanto indipendente. Va da sé che gli interrogativi che ti poni – riguardo quel che rischiamo di perdere mentre la cultura cambia pelle sotto i nostri occhi – sono gli stessi che mi pongo anch’io. Oltre ad acquistare musica, mi servo anche dei servizi di streaming, ma va detto che il tuo, più che un manifesto «anti-streaming», è un testo che solleva una serie di domande spinose sul nostro modo di usufruirne. Ma accantoniamo questo aspetto per un secondo e mettiamo nero su bianco: Che cosa ti piace di più dello streaming?

 

Damon Krukowski: Ne faccio uso spesso e volentieri. Per come la vedo io, tutte queste maniere di condividere informazioni sono utili e trovano spazio nelle nostre vite […] Le considero un bene, a patto di mantenerle aperte e accessibili quanto basta perché siano gli utenti a stabilire come collocarle nella propria esistenza. Più che il mezzo in sé, a spaventarmi dello streaming è il controllo a cui lo sottopongono le aziende. Ogni giorno che passa, le grandi multinazionali ne prendono sempre più il controllo dall’interno. Voglio dire, le dimensioni di Apple, la portata della concorrenza in realtà come Spotify, sono sbalorditive.

Non c’è niente di sano. Penso che lo scenario sia peggiorato rispetto ai tempi in cui una manciata di major discografiche si spartivano il mercato, perché oggi è ancor più difficile eludere le piattaforme online di quanto lo sia mai stato dribblare le aziende che tuttora monopolizzano la grande distribuzione. Nel mondo della discografia indipendente, far circolare un disco senza passare dalle grosse etichette non è poi così dura. Ci sono negozi a cui poter bussare, e un pubblico a cui potersi rivolgere. Niente ci impedisce davvero di espandere la nostra rete di contatti e la nostra attività. Ma le piattaforme online invece… Scavalcare Spotify, Pandora e Apple Music senza cercare di competere con loro ad armi pari, come nel caso di Tidal, per esempio, è tutto fuorché una passeggiata.

Non è facile stabilire canali indipendenti di connessione con il proprio pubblico. Ed è qui che, a mio avviso, risiede la vera pericolosità dello streaming, di quello strumento a cui, di pari passo, io faccio ricorso di continuo. Sono un fan sfegatato di Bandcamp. Mi piace perché, pur trattandosi di streaming, scampa a ogni genere di controllo centralizzato. È costruito su una matrice decentrata che consente a chiunque di pubblicare il proprio materiale, in più offre una discreta gamma di scelta su come presentare i pezzi e quanto farseli pagare. Ha tutta l’aria di essere la versione digitale di un distributore indipendente. Non mi preoccupa avergli affidato la mia musica, e tantomeno ho l’impressione che sarà ridotta a un formato irriconoscibile, come d’altro canto succede con iTunes e Spotify, in cui si finisce invischiati in uno strano marchingegno infarcito di informazioni errate e impossibili da correggere. Non c’è mai nessuno da chiamare, nessuno a cui ti puoi rivolgere, il tuo controllo o il rapporto con l’azienda sono pari a zero. Ma io utilizzo lo streaming anche su altri canali. Guardo i film online, un po’ come tutti adesso, perché così ho accesso a contenuti che altrimenti farei fatica a reperire. Non ho niente contro lo streaming; a dire il vero, è proprio tutto il contrario. In pubblico e sulla stampa ho spesso difeso l’idea di rendere il servizio – e il consumo digitale di musica in generale – gratuito, mai una volta l’opposto. Il più delle volte negli stralci delle mie dichiarazioni non citano nemmeno le proposte che faccio, forse perché parecchia gente che lavora nei media non le vede di buon occhio. Per esempio, ogni volta che mi intervistano alla radio, non appena dico: credo che dovremmo rinunciare alle royalties sullo streaming, il concetto viene puntualmente cassato. Sono pronto a scommettere che risolverebbe un mucchio di problemi. Al diavolo l’idea di percepire un compenso per i nostri contenuti multimediali in streaming perché, escludendo quella fetta di copyright dal pacchetto, avremo già minato il potere di Apple e Spotify. È una specie di tecnica della pillola avvelenata, per dirla in gergo finanziario, ma sono convinto che spedirebbe a gambe all’aria le multinazionali, che costituiscono una minaccia bella e buona. Ha a che vedere con il concetto di «neutralità della rete»; con le discussioni sul libero accesso che percorrono il mondo della codificazione. Io mi limito a dire che la musica e i media online dovrebbero essere gratis.

 

AD: Aiutami a capire in che modo aiuterebbe a ridurre il controllo delle multinazionali sui servizi di streaming. Immaginiamo che tu ti offra volontario – e che, in quanto artista, non riceva più alcuna royalty dai tuoi ascolti in streaming –, le aziende non continuerebbero forse a battere cassa indisturbate?

 

DK: Credo che sia vero in termini di guadagno, ma anche che verrebbe a mancargli l’opportunità di spacciarsi per una realtà egemone, che monopolizza l’intero mercato musicale. Allora sì che la concorrenza sarebbe reale. Se qualcuno fosse in grado di assemblare uno strumento capace di riprodurre in streaming tutti i brani digitalizzati che circolano là fuori, pensi che ricorreremmo ancora a Spotify? Solo così esisterebbe un mercato musicale effettivamente aperto, e sebbene io non lo consideri la soluzione al problema di come noi artisti ci guadagniamo da vivere nell’ambiente, men che meno ritengo lo sia Spotify.

Al contrario, penso che questa gente ci stia mettendo tutti fuori gioco, dal primo all’ultimo. E che presto sarà la volta delle etichette discografiche. La rivista The Baffler ha pubblicato un bellissimo articolo di Liz Pelly. Un pezzo superlativo, lei è davvero una giornalista coi fiocchi. Fa un’osservazione azzeccata sulle etichette, casomai si trovino in ascolto, che dice più o meno così: «I prossimi sarete voi». E se pure sembrerà scontato a molti di noi musicisti, poiché tutti assistiamo al trattamento che ci viene riservato, le etichette si comportano come se la faccenda non le sfiorasse. Il discorso vale per le major, perché sono comproprietarie e complici dell’assetto attuale. Se prendi a spallate lo status quo limitandoti a rinunciare all’idea di esercitare un controllo sulla tua musica, cosa che di fatto già non fai, allora finirai per compromettere anche il loro, di controllo. In Giappone [Krukowski è stato in tour in Giappone poco prima di rilasciare questa intervista, n.d.r.], il contrasto è estremamente interessante. Laggiù, il mercato dei dischi è davvero florido. La catena Tower Records non ha mai chiuso battenti, tanto che a Shibuja, nel cuore di Tokyo, svetta ancora un loro punto vendita: un edificio indipendente di ben cinque piani. Ed è pieno zeppo di gente! Il commercio è più che redditizio. Ho cercato di capire perché lì il mercato discografico fosse ancora così sano, e la spiegazione più sensata che ho trovato è che in Giappone le multinazionali del settore si sono opposte a ogni forma di collaborazione con i servizi di streaming.

Chiariamoci bene, non l’hanno fatto per una buona causa. Le major nipponiche sono talmente influenti da aver pensato di non essere tenute a cedere le redini del potere. Ciascuna di loro ha avviato il proprio servizio di streaming, e fintantoché l’utente ne usufruisce online, con grande probabilità opterà sempre per un singolo fornitore. Non hanno ceduto i propri diritti a un una terza parte come Spotify e, di conseguenza, non hanno mai smesso di vendere CD. Insomma, la faccenda è davvero semplice come sembra. Quanto a noi, credo che il tradimento dell’industria discografica sia da attribuire alle multinazionali che, entrate in combutta con Spotify, hanno mercanteggiato per il proprio tornaconto. Ho letto da qualche parte che gli artisti affiliati alle major in questione si sono sentiti svenduti, perché – manco a dirlo – sono state le etichette e non i diretti interessati a negoziare quei pessimi accordi sulle royalties. Sotto sotto, non hanno fatto altro che avventarsi sulla loro fetta di capitale.

Ho la sensazione che il mio sia il metodo più semplice per darci un taglio. Finiamola di rivendicare la proprietà della nostra musica. Su Bandcamp, si può godere dello streaming gratuito e allo stesso tempo vendere i propri brani in download, due cose che possono andare a braccetto. Ma che non camperanno a lungo, stando gomito a gomito con Apple. Quest’ultima sta rimuovendo i download di mp3 il più in fretta possibile, perché è una merce che all’artista va pur sempre liquidata. E così cercano di sbarazzarsene. Nel frattempo, da Spotify fanno tanto i misteriosi ma sembrano impegnati a rimboccarsi le maniche per ridurre all’osso il numero delle figure da pagare. Se il punto sta tutto nel non sborsare denaro ai legittimi titolari del copyright, allora perché non estirpare il problema alla radice? A ogni modo, per quanto io mi accanisca sul tema, ho l’impressione che non stia facendo molta breccia.

 

AD: Stando al parere di molti, internet doveva incarnare una conquista controculturale senza precedenti, il sistema che avrebbe reso accessibile ogni genere d’informazione. La nostra è un’epoca, soprattutto ora come ora, in cui le librerie e i negozi di dischi indipendenti, senza contare la stampa alternativa, si trovano indistintamente sotto attacco. Internet somiglia a quel posto di cui un tempo si diceva: «Ok, traslocheremo tutta questa roba online. Se non può esistere nel mondo fisico, è qui che la trasferiremo per lasciarla vivere». Invece no, anche in rete si registrano le stesse aggressioni, in certi casi perfino più violente.

 

DK: Più violente, hai detto bene. La causa è senz’altro da imputare alla mole di quattrini in ballo. Trovo che, tanto per dirne una, la campagna (ancora viva e vegeta e molto agguerrita) per la neutralità della rete, o quella per l’open-source, o quella per la libertà d’informazione prevalentemente online siano le uniche vere battaglie che oggigiorno valga la pena di combattere. Mentre completiamo la nostra transizione al digitale, tracciamo un nuovo perimetro in cui sorge l’esigenza di preservare la libertà d’informazione. Più cediamo terreno al controllo delle multinazionali, maggiori sono i guai in cui ci cacceremo.

Trovo deprimente l’arrendevolezza con cui la gente rinuncia alla propria libertà. Mai avrei creduto possibile scoprirci tanto propensi a dire: «Certo, segui ogni mia singola mossa. Come no, fa’ pure, tieni d’occhio tutto quello che faccio». Ma a che scopo? Di solito ce la vendono come una specie di comodità. L’idea stessa che esista il mercato della tecnologia smart home, poi, ha dell’incredibile. Il concetto che le persone siano disposte a farsi sorvegliare nelle proprie case in cambio della comodità di avere un frigo che sa che hai finito il ghiaccio o roba così? Io proprio non ci arrivo. O chessò, in cambio di non dover armeggiare con il termostato quando cambia il tempo? Sul serio? Siete pronti a farvi spiare per così poco? È tutto talmente strano, talmente remissivo. E, guarda un po’, per queste aziende si sta rivelando una strategia molto efficace.

Prendi l’articolo di Lizzy, che ritraeva questa situazione per filo e per segno: la crescente passività nella fruizione di Spotify. Si scopre che l’aumento esponenziale del numero delle playlist fa un bel po’ comodo alla società, perché la gente preferisce limitarsi a sceglierne una, ispirata dalla vaga idea di ciò che desidera ascoltare, anziché imbarcarsi in una ricerca attiva per trovare il genere di musica che fa al caso suo. Ecco l’enorme differenza tra andare in un negozio, leggere fanzines, raccapezzarsi fra quello che vi piace, parlarne con i vostri amici, andare ai concerti, e il limitarsi a pigiare un tasto sul telefono per farsi servire e riverire. Questa idea della comodità si sta dimostrando accattivante. Con me non attacca, ma riesco a capirne il fascino. E non giudico le persone per la loro compiacenza. Sono certo di cascarci anch’io in altri ambiti della vita a cui mi sento meno legato, ma bisogna ammettere che, com’è naturale, le implicazioni sono gigantesche. Noi ci stiamo sbattendo il muso. In termini politici ed economici, è un vero e proprio scempio. Credo che il nocciolo della questione si riduca al gesto quasi primitivo del «fa’ questo per me» o «lascia che succeda», a prescindere dal fatto che a noi vada bene oppure no.

 

AD: La parte del libro che preferisco è il capitolo in cui descrivi la convivenza tra segnale e rumore, e la dinamica per cui il «rumore» che circonda un «segnale» di registrazione finisca spesso smarrito sui siti di streaming digitale come Pandora, Spotify o Apple Music. Intendo cose tipo i credits e le liner notes. È abbastanza facile intuire come le piattaforme online siano perfettamente in grado di integrare quelle informazioni, e visto che il digitale ci viene dipinto come un mezzo che ha una quantità illimitata di spazio e di libertà, allora comincio a immaginare – se solo mi perdessi in fantasticherie e avessi milioni di dollari a disposizione – che agli album vengano abbinati, oltre i credits e le liner notes, dei documentari strafichi, reading di poesia e cover riarrangiate da altri musicisti. Ma chissà… La mole di contesto da riversare in queste piattaforme è potenzialmente sterminata. Ma mi chiedo, perché secondo te le aziende sembrano così poco interessate a sfruttarlo?

DK: Penso che lo credano inefficace. Il rumore viene sempre percepito come inefficace. E per certi versi lo è, se a interessarvi è esclusivamente il segnale. State lì ad affannarvi per spogliarlo del rumore, perché questo vi è solamente d’intralcio. Con «intralcio» intendo non soltanto in termini di percezione, ma anche di efficacia comunicativa.

Quanto alla musica, il primo caso in cui sono stati omessi i credits e le liner notes è Napster. Insomma, arriva questo tizio, Shawn Fanning, che cerca di inventarsi una stringa di codice in grado di trasmettere la musica sulle linee di comunicazione dell’epoca, di una lentezza estenuante quanto i vecchi PC. Senza dimenticare che il dialogo tra utenti si svolgeva da computer a computer, in assenza di server centrali. Si trattava di una rete bella disordinata… e la domanda era: «Come faccio a renderla abbastanza efficace da permetterle di far viaggiare il suono sulle linee senza sbavature?» Ci riuscì facendo fuori tutto, tranne l’mp3. La sua fu una trovata, oltre che un’operazione ingegneristica, geniale. Quando le funzionalità mutarono in maniera drastica – e la faccenda è legata alle aziende commerciali come Apple, che vantavano risorse illimitate –, allora fu chiaro che si poteva pensare in grande. O meglio, che si sarebbe potuto pensare in grande. Ma non appena si appropriarono del modello Napster, le società non aggiunsero niente al lavoro già fatto da Shawn Fanning, fatta eccezione per il prezzo. Se provi a calarti nei panni di Apple a quel tempo, l’avresti vista più o meno così: «Be’, ecco la risposta logistica ideale al problema, non fosse che gli manca un dettaglio». Il profitto. Così schiaffarono un bel $0.99 su ogni traccia, e fine della storia! E ciò è bastato a tenere in piedi quel minimo sindacale di comunicazione efficace. Non solo, ma questo è anche il segreto al cuore di tutti i nostri canali comunicativi. Del perché funzionano, del perché lo fanno come si deve, in tempi rapidi e a basso costo. Tutti noi, dalla mattina alla sera, non facciamo che ambire a quel genere di efficacia. Il punto che intendevo sollevare nel libro è che la nostra smania per l’efficacia può sortire effetti particolarmente dannosi sulla comunicazione reale, a tutto tondo.

Ce ne accorgiamo nelle nostre interazioni faccia a faccia. Se incontriamo qualcuno che vis-à-vis va talmente al sodo da rinunciare a ogni protocollo di convenevole sociale o di condotta umana, lo troviamo inquietante, non è così? Magari quel tipo farà faville come uomo d’affari, o in qualunque accidenti di obiettivo stia cercando di perseguire, però ci fa anche venire i brividi. Noi sappiamo riconoscere la differenza. E se davvero la riconosciamo, perché non rivendicarla o pretenderla anche sui nostri mezzi di informazione? In un certo senso, siamo diventati insensibili alla sua importanza per il semplice fatto di averla sempre avuta davanti agli occhi. Quando compravate il giornale, d’accordo, magari correvate dritti ai titoli, ai risultati delle partite o alle vignette satiriche, ma sottomano avevate anche il resto delle pagine. A furia di darla per scontata, l’inefficacia è stata fagocitata dal sistema, mentre voialtri neppure ci facevate caso al valore di quegli elementi accessori.

Oggi la sfida imposta dai media digitali, proprio perché sono un mezzo maledettamente efficace, è quella di spingerci a inseguire l’efficacia a tutti i costi, con tanta foga che pare quasi di viaggiare su un’astronave progettata dalla NASA. Tutto quello che non è indispensabile alla riuscita della missione viene lasciato a terra. Ce ne stiamo ingabbiati in questo pianeta digitale, della serie: «Wow, che fine hanno fatto tutti quegli elementi accessori che invece erano utili da morire?» Demandare l’efficacia, o anche solo tornare a contemplarla, costituisce un agguato al profitto, al potere monopolizzante delle multinazionali, a una montagna di interessi che pervadono la nostra economia. Ecco perché a oggi se ne sono perse le tracce.

D’altra parte, internet è ancora una dimensione aperta e libera, dove chiunque può permettersi di fornire il proprio personalissimo contesto a suppergiù qualunque cosa. Questo ci riporta alla ragione per cui abbiamo il dovere di lottare affinché una simile possibilità non muoia.

Le organizzazioni a tutela dei musicisti come la BMI portano avanti queste battaglie con le aziende. Possono intimargli: «Rimetteteci i credits», e voi siete liberi di sgolarvi fino allo sfinimento, ma ciò non basterà a raddrizzare la stortura principale del sistema. Eppure, per ciascuno di noi sarebbe un tale gioco da ragazzi se solo ci comportassimo diversamente! Costruitevi un contesto intorno ai mezzi di comunicazione. Se vedete che lo smantellano, datevi da fare per opporvi. Sapete, presto o tardi potrebbero toglierci YouTube; per adesso, io lo trovo fantastico. È un tale casino.

 

AD: Chi non ha ancora letto il tuo libro, potrebbe erroneamente pensare che la tua posizione sullo streaming e sulla musica digitale sia: «Statene alla larga», ma in verità, dici l’esatto opposto.

 

DK: Già, non la vedo affatto così, non è mia intenzione e non è mia abitudine. Ascolto ancora lp, ma non sono certo il tipo che crede siano il solo e unico modo di ascoltare o di far circolare la musica. Al tempo stesso, dal momento che siamo inondati dai media digitali, credo che faremmo meglio a rammentarci tutti i giorni di quello che non c’è e che manca. Ripristinare i credits e le liner notes è un ottimo esempio tangibile per la gente del settore. Del tipo: «Guarda, sui supporti fisici c’erano un sacco di informazioni in più». Il che non equivale a dire che i dischi in carne e ossa erano un formato superiore, ma solo che in quello attuale è andato perso qualcosa potenzialmente di grande valore.

 

AD: Però, il motore di questo libro non è la nostalgia.

 

DK: No, e mi sono in fatto in quattro per evitarlo. Soprattutto per via degli anni che mi porto sulle spalle. Ho un’età in cui la nostalgia è una trappola ammiccante che è sempre dietro l’angolo ad aspettarti, perché più accumuli passato in cui poterti cullare e più aumenta il rischio di cedere a quel sentimento. È una specie di tagliola. A tenermi in riga ci pensano una manciata di artisti che ho conosciuto nel corso della mia vita, tutti disperatamente anti-nostalgici e tutti che ammiravo alla follia. Uno era John Cage, un altro Chris Marker, il regista. E poi Nancy Spero, l’artista visiva. Personalità più vecchie di me che ho avuto il privilegio di incontrare e a cui non fregava un accidente dei propri lavori più datati, assorbiti com’erano nei loro progetti attuali, in quello con cui erano alle prese lì per lì.

È stata una lezione importante che credo di aver fatto del mio meglio per imparare. Solo che richiede una certa dose di disciplina. Ma torniamo alla musica. Stando alla mia personale esperienza, perfino ai tempi dei Galaxie 500, quando si fa parte di una band e le cose iniziano a ingranare, è molto facile cedere all’idea di continuare a battere la stessa strada, qualunque essa sia, che ha portato al successo. Non si fa altro che ripetersi all’infinito. Vi fanno molte pressioni… Se diventate più prevedibili, tutto sommato siete anche più vendibili. E così finite per tramutarvi in un logo o in una caricatura di voi stessi. Succede alle band e a ciascuno di noi, ma tutti subiamo una costante pressione commerciale anche nella vita di ogni giorno. Interpretiamo una versione di noi stessi in cui ci sentiamo a nostro agio, o che magari sembra cavarsela egregiamente col mondo, peccato solo che precipitare in quella trappola sia molto pericoloso anche in termini di sviluppo personale. Nessuno vuole ridursi a una parodia dei lati più esasperati della propria persona, capisci che intendo? Vogliamo essere, sì, noi stessi, ma per intero.

Per me, ecco che cos’è l’anti-nostalgia. Io ne portavo i segni già in passato, e questo vale per la mia musica fin dai giorni dei Galaxie 500, quando mi rifiutavo di suonare la stessa cosa trita e ritrita che tutti si aspettavano. No, non ho intenzione di indossare dalla testa ai piedi i panni della persona che a te piace pensare che io sia, perché è una noia mortale. Anche eseguire gli stessi pezzi una sera dopo l’altra non è certo il massimo per un musicista. Ho visto parecchie band scendere a compromessi per ragioni commerciali, o perché è più facile. In fondo, ripristinare il modello dell’efficacia è un’utile scappatoia e risolve un gran numero di problemi. Sgomberate il campo dal rumore – perché è così che il pubblico lo recepirà – fatto di quegli aspetti della musica che non vanno più d’accordo con la vostra nuova personalità. Quella gente vuole solo il segnale, sbava per sentire le hit. Sono convinto che ogni singolo performer vive questo tormento, da qualche parte dentro di sé.

 

AD: Allo stesso tempo, il libro restituisce un paio di scene profondamente suggestive e di grande bellezza. Sono momenti pescati dal passato, come quando ti dipingi a casa tua ad ascoltare i Pink Floyd con indosso un paio di cuffie gigantesche. A volte parli del comprare dischi, dei negozi di musica, e io mi trovo a riflettere sul rapporto tra storia e nostalgia. Quando accenni al fatto di resisterle, mi chiedo se può esserci un qualche parallelo con il modello di digital disruption e con l’idea che è necessario rigettare ogni vestigia del passato mentre sfrecciamo verso il futuro. Eppure, non credi di aver toccato un argomento che è un tantino più sfaccettato? Che quando c’è di mezzo la nostalgia, non dev’essere necessariamente o tutto o niente?

 

DK: Hai ragione a farmelo notare. Io possiedo una forte vena nostalgica da poter spremere come un limone. […] Per esempio, il mio slancio lirico poggia spesso sul passato. Sono fatto così, riesco a metterlo a frutto ed è quello che faccio perché ci scorgo una certa verità emotiva. Però, ci hai visto giusto, il paragone con le strategie di disruption è piuttosto interessante. Tagliare i ponti col passato in favore delle moderne forme di efficacia è un modello molto pericoloso. E lo stesso si può dire della nostalgia acritica. Sono entrambe tentazioni a cui bisogna voltare le spalle.

Quando cominciai a proporre il libro, lavoravo a quattro mani con un agente. Sottoponemmo il manoscritto a una serie di editori, e la loro reazione non lasciò spazio a dubbi. Se solo avessi abbracciato un elemento o l’altro di questa semplice equazione, avrei avuto un appeal commerciale molto maggiore. Se solo avessi sentenziato che il futuro è luminoso o, al contrario, grigio, avrei venduto questo libro come il pane. Se andate in libreria, troverete pile di volumi fatti così, parecchi dei quali sono bestseller perché contengono un messaggio immediato, e questo è un problema con cui tutti noi dobbiamo fare i conti. È un po’ come dire: «Ce l’ho io una risposta semplice». Io mi sono opposto, ed è stato un altro di quei frangenti decisivi della mia vita in cui, consapevole di avere a portata di mano un potenziale commerciale, l’ho praticamente boicottato. E così sono rimasto in questa specie di limbo, ma credo dipenda dal fatto che la disruption rappresenta un’insidia tanto quanto la nostalgia acritica. Nessuna delle due rispecchia davvero il nostro modo di rapportarci al mondo.

 

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