La solitudine dell'eroe: per avvicinarsi all'opera di Roberto Arlt

redazione Autori, SUR

La scorsa settimana abbiamo presentato un profilo di Roberto Arlt. Oggi pubblichiamo un approfondimento sul tema della solitudine come emerge nei personaggi dei suoi romanzi. Ringraziamo l’autrice, Nidia Marta Velozo, e la rivista Espéculo, dell’Università Complutense di Madrid, dove il testo è stato pubblicato originariamente.

di Nidia Marta Velozo
Traduzione di Alberto Prunetti

I sette pazzi: un romanzo del secolo XX

Al di là del suo valore letterario, un romanzo è importante per la sua capacità di presentare una prospettiva, uno sguardo intra-storico con cui incastonare eventi biografici individuali in episodi storici. Anche quando i personaggi sono elementi di finzione, la costruzione dei caratteri si appoggia alla realtà, di modo che i tratti che li compongono, generali o specifici, siano il prodotto dell’osservazione dell’autore. Queste tecniche collocano l’opera di Arlt in un movimento di rinnovamento del romanzo che si alimenta degli ideali degli anni Trenta. Si fa uso del monologo, dell’alternanza della messa a fuoco, dei punti di vista, delle prospettive, per alludere a uno stesso episodio o alla rottura dei limiti tra finzione e realtà.

Il discorso narrativo è un’organizzazione di fatti che si propone come veritiera. Costituisce un universo in cui non hanno luogo le condizioni di verità del mondo extra-letterario, perché è un universo chiuso, con leggi sue proprie, della cui realtà partecipa tutto ciò che viene consegnato alla lettura. Si tratta di un patto, un contratto di veridicità, in cui i partecipanti si impegnano ad accettare e rispettare le illusioni di verità di un testo. Ma questa illusione deve essere coerentemente sostenuta dalla struttura della narrazione, per la sua prossimità o distanza dalle norme di un determinato genere, dalla rappresentazione che il narratore mette in atto dei fatti, dal desiderio dell’autore di opacizzare lo statuto di finzione del testo letterario.

Il tema esistenziale, la solitudine; le cause e gli effetti che questa implica, perché Erdosain è solo e dalla sua solitudine si sprigionano fatti e situazioni che lo portano a una strada senza uscita. La solitudine verrà analizzata da due estremità: individuale e sociale, cercando di determinare cause e effetti, considerando l’asse Erdosain in relazione con suo padre, i maestri, Elsa, la Guercia, Dio.

Si può anche comprendere tutto questo come una critica di una società che toglie la trascendenza all’uomo, lo spinge all’individualismo e debilita l’interazione affettiva verso gli altri. Ritrae a un tempo l’uomo come prodotto di questa società e assieme ritrae in senso negativo una società che lo giudica e che disattende la responsabilità che le spetta.

La solitudine dell’eroe

Il primo elemento di interesse nell’analisi di quest’opera è la constatazione di una crisi di senso sperimentata dai personaggi principali, come vedremo in seguito. Penso che la solitudine dell’uomo sia la causa principale per cui uno scrittore possa organizzare un romanzo sulla sistematica distruzione dei miti classici. Ormai la concezione classica dell’eroe non è la stessa dell’antichità. La spiegazione definitiva dei fenomeni, indiscutibile o perlomeno duratura, viene sostituita da un campo aperto di interpretazioni distinte, dalla relatività epistemologica e esistenziale. L’uomo perde la centralità. L’insicurezza è quotidiana. È questa la temperie dei primi anni del secolo XX, che inevitabilmente influisce nelle manifestazioni artistiche coeve. Pertanto, prima di provare ad avvicinarci alla complessità dell’opera, bisogna brevemente spiegare questo fenomeno.

La terribile esperienza di un male prodotto da chi ha perso ogni valore che non sia quello dell’efficienza è tipica di una società che ignora la fiducia nei valori religiosi e morali di un tempo, annichilita dai filosofi del sospetto, come li chiama Ricoeur. La diagnosi del male che affligge la società dell’inizio del secolo scorso non è, allora, molto incoraggiante. È un male che ha inizio nel secolo precedente e che con Nietzsche, medico della cultura, potremmo identificare nei termini del nichilismo. Davanti a un panorama del genere e senza la possibilità di ricostruire la speranza ormai danneggiata, l’uomo sembra incamminarsi irremissibilmente verso un mondo abbrutito in cui la barbarie, la morte, il nulla e l’assenza di senso costituiscono l’unico orizzonte. Nietzsche con la proclamazione solenne della morte di Dio esprime il fatto che viviamo nell’epoca dell’assurdo e della più radicale assenza di senso. L’uomo non poteva trovare un senso per spiegare il mondo e pertanto diventava imprescindibile l’avvento di un nuovo essere capace di creare una cultura oltre il nichilismo e la morte. L’uomo assurdo davanti al caos e al dolore. La perplessità davanti all’assenza di senso e alla profonda solitudine.

La crisi di senso è un tratto tipico delle società moderne e Roberto Arlt, immerso nel suo tempo, non poteva non rifletterla nella sua opera: ruppe di fatto il monopolio discorsivo della cultura, tenuto in mano dall’aristocrazia intellettuale e sociale argentina, che fino agli anni Venti esprimeva con presunzione la propria arte e l’assenza di impegno nel mestiere di scrivere.

Trasgressore, seguace del rischio, delle cause perse imposte in certo modo dall’epoca, Arlt fu, prima nei suoi romanzi ma in generale in tutta la sua opera, l’oratore e il combattente di questo fallimento e, soprattutto, il narratore dell’angoscia esistenziale della modernità e del brutale scontro tra il nuovo individuo che si profilava nella società portegna (immigrante e figlio di immigrati, povero e assieme cosmopolita, lavoratore e al tempo stesso marginale) con il contesto economico che si sollevava in maniera piramidale nell’esuberante città di Buenos Aires del secolo XX. Scrisse: “Credo che ci sia toccata l’orribile missione di assistere al crepuscolo della pietà e che non ci rimanga altro rimedio che scrivere distrutti dalla sofferenza, per non uscire in strada a mettere bombe o fondare postriboli”.

Con la pubblicazione delle sue opere, in particolare dei romanzi, Arlt divenne una sorta di paladino della nuova generazione di scrittori professionisti, di scrittori di mestiere; fu al tempo stesso il detrattore e il sostenitore della pestilenza di quei decenni che lo videro protagonista indiscusso.

Nel 1929 pubblica il suo secondo romanzo, considerato il più importante. I sette pazzi, il cui seguito compare due anni dopo: I lanciafiamme.

La storia raccontata in questi libri si può riassumere brevemente in questi termini: l’esattore di uno zuccherificio, Remo Erdosain, è accusato di truffa. Per restituire il denaro sottratto si rivolge al farmacista pazzo Ergueta e al pappone Haffner (il “Ruffiano malinconico”) e entra nella Società Segreta dell’Astrologo Alberto Lezin, che progetta la fondazione di una nuova società basata sulla sottomissione della maggioranza. Erdosain è incaricato di distruggere la vecchia società attraverso gas letali e il ruffiano Haffner finanzierà la nuova società attraverso lo sfruttamento delle prostitute. Erdosain, angosciato e abbandonato dalla moglie Elsa, si trasferisce in una pensione lurida, dove inizia una relazione con la figlia della padrona, la Guercia. La vicenda si conclude con la fuga dell’Astrologo con la moglie del pazzo Ergueta – la prostituta Hipólita-, l’incendio della villa in cui si complottava la rivoluzione, l’assassinio della Guercia da parte di Erdosain e il suo suicidio. Come hanno dimostrato i critici, i due romanzi contengono ingredienti della situazione politica sia argentina che internazionale: i fascismi e il comunismo, le aspirazioni rivoluzionarie e il potere capitalista, le minacce della dittatura militare, il Ku-Klux-Klan, l’angoscia del periodo tra le due guerre mondiali. Eppure, nonostante la trama sia fitta di azioni, all’autore interessa soprattutto la vita interiore intensa, squilibrata e angosciata dei suoi personaggi e, a una lettura attenta, si scopre una tematica esistenzialista: che senso ha la vita? L’amore e la comunicazione sono possibili? L’uomo non è eternamente condannato al fallimento? Erdosain è un uomo che soffre, mentre sogna e sente il suo corpo affondare nel fango (I lanciafiamme), capace di rotolarsi nella porcheria e di anelare la purezza. Il critico Masotta vede i personaggi di Arlt come testimoni di una società in stato di putrefazione.

Indipendentemente dalla diversità che caratterizza la messa a fuoco esistenzialista delle situazioni della vita umana, questa concezione si contraddistingue anche per la sensibilità verso i problemi dell’esistenza individuale e per la fiducia nelle forze creatrici personali. I temi su cui riflette l’esistenzialista sono quelli che gravitano attorno all’uomo e alla realtà umana (essere umano, libertà, realtà individuale, esistenza quotidiana). Heidegger è il filosofo che sembra più lontano da questa prospettiva: per lui il problema fondamentale della filosofia è quello ontologico, vale a dire il problema dell’essere, e pertanto il problema dell’uomo rimane subordinato a questo. Eppure l’esserci, l’ente che è l’uomo, si colloca in un luogo privilegiato a ogni domanda sull’essere. L’angoscia è una categoria decisiva dell’esistenza perché rimanda all’”io” concreto; l’angoscia si relaziona col problema dell’autenticità dell’esistenza e con la sua eventuale alienazione. L’angoscia dell’uomo che è solo ma ha una natura sociale: per questo il filosofo scrive che “essere solo è un modo deficiente di essere con”. Allora si può percepire la solitudine come un vuoto e si può provare a riempirlo in maniera inautentica attraverso relazioni superficiali dei rapporti sociali.

I sette pazzi inizia così: “Mentre apriva la porta dell’amministrazione, adorna di vetrate giapponesi, Erdosain desiderò tornare indietro. Capì di essere perduto ma ormai era troppo tardi”. Il narratore extra-diegetico ci pone di fronte al protagonista, alla mancanza di possibilità di quest’uomo che “rimaneva impassibile”, che rimaneva lì in un apparente deprivazione di sentimenti e con una semplicità tanto esplicita quanto perturbatrice: “non si muoveva di lì… voleva dirle qualcosa, non sapeva come…”. La solitudine del personaggio è evidente fin dalle prime pagine: ancora davanti agli altri – in questo caso i dirigenti della sua azienda – non sa come comunicare, come dire quello che deve dire.

La solitudine è uno stato psicologico che si presenta quando l’individuo si allontana dal contatto con gli uomini o in una relazione che implica un’assenza di interrelazione tra questi e gli altri. Si porta come conseguenza una rottura delle possibilità di comunicazione; può anche succedere che altri cerchino di far arrivare un messaggio all’individuo che si sente solo e questi non manifesti alcun interesse. Erdosain c’è, è lì. Ma la sua incapacità di essere con gli altri è tale che può solo chiudersi nel suo silenzio, alienato in una situazione d’angoscia, di disperazione e assenza di ogni speranza. Un personaggio dominato dalla solitudine, dall’angoscia esistenziale, dall’assurdo. Un personaggio che si agita in un mondo sterile e afflitto. Si possono individuare delle differenze tra stare solo e sentirsi solo. Sono differenti i sentimenti di solitudine che ciascuno può sperimentare: il protagonista, in un continuo succedersi, determinerà e delineerà il suo essere nel mezzo di profonde contraddizioni.

La solitudine ha due ragioni fondamentali: la lontananza dell’individuo dal suo gruppo sociale e il rifiuto che la società mostra verso una persona. Erdosain propone che la solitudine sia il dramma dell’uomo che, chiuso in se stesso, non incontra risposte dalla società. Non comprende neanche le ragioni del furto. Si può anche affermare che le persone che sperimentano la solitudine, hanno la tendenza a allontanarsi dalla loro società, per circostanze differenti, come ad esempio sperimentare dei sentimenti che le facciano considerare meno idonee a vivere in un gruppo sociale. Così Erdosain diceva a se stesso: “ ‘Sì, sono un lacchè. Ho l’animo di un vero lacchè’ e stringeva i denti dalla soddisfazione d’insultarsi e di degradarsi in questo modo davanti a sé stesso”. Per riaffermare la propria condizione di disadattato. La voce del soggetto dell’enunciazione si sporge di colpo per sostenere la deprivazione di valore del personaggio.

Erdosain vive pateticamente questa solitudine, che è espressione – aldilà dell’apparente contraddizione – dell’incapacità di stabilire veri legami sociali. Arriva alla sua casa, che è una stanza priva di mobili, vuota come le persone che la abitano. Lì lo aspetta Elsa, che lo abbandonerà e se ne andrà col Capitano. Elsa rimane sorpresa davanti al racconto delle situazioni che Erdosain ha sofferto fin dall’infanzia, col padre, col maestro. Da piccolo il personaggio ha sviluppato un problema psicologico, che lo metterà a contatto con svariati conflitti, individuali e sociali. Osservando la sorpresa di Elsa, di fronte alle umiliazioni patite da suo marito, si misura l’assenza di comunicazione della solitudine dell’uomo umiliato. Gli unici legami che possono unire queste persone sono quelli biologici, quelli del sesso e del sangue. Rotto ogni legame, l’uomo torna a rimanere solo tra gli altri, insensibile al suo essere in quanto prossimo: “era inutile quanto faceva, nella sua vita c’era una realtà ostensibile, unica, assoluta. Lui e gli altri. Tra lui e loro si interponeva una distanza, forse era l’incomprensione degli altri, forse la sua follia”. Una barriera che non potrà superare.

Col passare del tempo cercherà di sopportare il rifiuto, che lui stesso formula così: “Sentiva di non essere più un uomo”. “Non era più neppure un organismo che assorbiva sofferenza, era qualcosa di ancor più inumano… chissà, forse… un mostro ravvolto in se stesso”. La solitudine lo conduce alla negazione del suo io attraverso situazione indesiderate, un punto limite che si risolverà con la morte. Erdosain non trova un luogo attraverso il quale fuggire, non può riconoscersi. Il rifiuto patito da piccolo, la sensazione di incapacità lo spingono all’introversione, a generare cattivi atteggiamenti, fino a sentirsi completamente solo, fino a rendersi conto di quanto sia difficile comunicare con la propria famiglia. E che ormai Elsa non c’è più: “Elsa era così lontana dalla sua memoria che, in quell’ipnosi transitoria, gli sembrava addirittura una menzogna averla conosciuta. Chissà se esisteva fisicamente? Prima poteva vederla, ora doveva fare un grande sforzo per riconoscerla… e la riconosceva a malapena. (…) Ora la sua vita scorreva in silenzio verso il fondo, si sentiva riportato indietro negli anni…”. Così torna alla solitudine più profonda.

I sentimenti di solitudine che l’uomo può sperimentare sono molteplici, dal momento che ciascuno descrive la propria solitudine in accordo con le caratteristiche che di questa vede emergere; pertanto si può distinguere tra la solitudine prodotta da una personalità evasiva e quella propria di una personalità antisociale, che si fortifica progressivamente: “A causa del suo carattere scontroso non poteva avere relazioni con altri bambini della sua età…” “Il bambino insensibilmente si abituò alla solitudine, fino a quando questa gli divenne cosa cara”. Il bambino solitario nei suoi giochi distruggerà le cose che ama, come in seguito distruggerà la Guercia. In anticipo sul suo crimine “si sentiva più orfano che mai nella terribile solitudine della casa di tutti… la vita gli sfuggiva dalle mani… In questo dissanguamento, Remo rinunciò a tutto…” la prossimità del crimine lo ha messo in posizione di trovarsi in maniera riflessiva nell’autenticità del proprio essere, portandolo in una situazione limite, che presuppone il riconoscimento della possibilità del crimine. Così tutti i vincoli sociali per l’uomo Remo Erdosain sono recisi. Con l’assassinio della Guercia, Erdosain compie un movimento strategico. L’assassinio è gratuito: non risponde a nessun calcolo tattico, che valuti quel che conviene in una data situazione: è solo una sfida totale alla vita e alle possibilità della comunicazione.

Due vertici, l’individuale e il sociale, che si possono ridurre a questo. Dall’umiliazione al silenzio e dal silenzio all’umiliazione, in una relazione dialettica tra l’uomo e il suo mondo. L’uomo è un soggetto nel mondo, aperto al mondo. In termini sartriani, l’uomo crea se stesso. La morte, ineludibile, è lei stessa oggetto di attenzione per gli esistenzialisti. L’uomo vive per morire e ognuno muore solo. Per Heidegger, la morte è l’ultima possibilità dell’uomo; per Sarte, la fine di ogni possibilità; per tutti gli esistenzialisti, la suprema realtà trascendente. L’essere-per-la-morte è il vero destino e l’obiettivo dell’esistenza umana.

I sette pazzi si collocano in relazione con Dio e il peccato. Erdosain passa dal sentirsi un Dio a rompere il vincolo con Dio in quanto peccatore. Una rottura che lo lascerà ancora più solo: “Mi allontanerò per sempre da Dio. Rimarrò solo in terra. La mia anima e io, entrambi soli”. Ognuno dei personaggi stabilisce un contatto personale con Dio. A Ergueta nella rivelazione si manifesta il Figlio dell’uomo che gli permette di accedere alla conoscenza divina. Per l’Astrologo il Dio vivente inventato è il Capitale, dato che l’uomo ha bisogno di credere e di adorare un dio vivente, cioè presente. O che rimanga in attesa perché è possibile che la morte di Cristo abbia messo in ombra la necessità di un Dio vivente, magnifico, adornato da racconti copiati dalla Bibbia. Perché le generazioni devono credere in qualcosa.

Invece il Dio di Erdosein non risponde: è un Dio che si assenta dal mondo. Anche corpo e anima si sdoppiano, è necessario ammazzare il corpo per fare un favore all’anima, ma il fantasma in catalessi ritorna dall’aldilà per dire che al corpo non piace rimanere chiuso nella tomba. Davanti al silenzio di Dio, lo interroga quasi per scongiurarlo e la sua preghiera cambia violentemente di segno: “Dio bisognerebbe torturarlo. Sono morto e voglio vivere”.

Ma se tutti sono pazzi, si potrebbe affermare che l’unica vera sofferenza è quella di Erdosain, perché nessuna teoria basta a raggiungere il Dio che cerca. La città prende la forma dell’angoscia di Erdosain, si comprime, si espande secondo l’angoscia del suo cuore. Nel capitolo “La cupola di cemento” lo troviamo come Cristo in Croce. Tormentato dal dubbio, esclama: “Padre, perché mi hai abbandonato?” E davanti al silenzio di Dio, arriva all’ingiuria: “Canaglia di un dio, ti abbiamo chiamato e non sei venuto”. In questo capitolo tenta un soliloquio nella forma di imprecazioni e preghiere a Dio. Dio lo trovano tutti, meno Erdosain. Che non è un ermeneuta di Dio. Il dialogo prosegue con una disquisizione sull’esistenza di Dio. E se non esistesse? Se non esistesse, bisognerebbe conservare il segreto? Domanda che Gesù si era posto e che riporta a sua volta alla posizione di Erdosain: Dio si è allontanato dal mondo. È qui che si fa più evidente l’assenza di un Dio vivente. Quest’episodio costituisce forse il momento culminante del romanzo: l’esperienza dell’assenza di Dio ha per il personaggio la forza di una vera rivelazione esistenziale, l’incontro dell’io nella solitudine. Perché alla fine Erdosain raggiunge Dio attraverso il crimine. Ha commesso il suo crimine uccidendo un’adolescente Guercia e deforme. Il peccato che non si può nominare ha trovato un nome. Così Erdosain estromette se stesso dalla commedia umana. Lui non ha a che fare col Dio vivente, ma col Dio oscuro dell’angoscia. Si suicida con un colpo al petto. Per la prima volta, non ha sbagliato. Remo Erdosain è capace di trasformare la coscienza di “una vita gettata al mondo per perdere” nel riconoscimento umile “che la terribile impotenza di essere solo estingue la sua forza”. Arriva addirittura a riconoscere la propria morte nel momento in cui è vivo e il proprio desiderio di vivere, ma questa non è la soluzione. In questo mondo non c’è posto per i rattoppi: deve sparire completamente per ripartire da zero. La solitudine assoluta.

Erdosain si trova in una situazione di assoluta solitudine, la solitudine dell’uomo che ha perso ogni possibilità di comunicare. Una solitudine che si sviluppa progressivamente, un processo in un’esistenza assurda e inautentica. Prima si prospetta la rottura della vita quotidiana (Elsa, l’azienda in cui lavora); poi il tradimento (Barsuit). Così taglia ogni vincolo sociale, ogni amicizia, fino alle forze oscure del sangue. L’umiliazione, la crudeltà e l’allontanamento dell’individuo dalla società. Ma le cause di questa solitudine hanno un’origine più lontana: si potrebbe dire che vanno ricercate nel silenzio dell’uomo umiliato. Più precisamente: del bambino umiliato su cui il padre e il maestro lasciarono la traccia incancellabile del rifiuto.

La solitudine, il disinteresse e l’indifferenza caratterizzano le reazioni del protagonista, sia nelle sue relazioni sociali che in quelle familiari, fino alla relazione con se stesso. L’angoscia è una categoria decisiva dell’esistenza, si relaziona in questo romanzo col problema dell’inautenticità dell’esistenza.

Brevissima conclusione

In conclusione si potrebbe dire che il motivo della solitudine sorge come conseguenza naturale del divorzio tra coscienza e mondo, concetto che comprende anche gli altri e, nella sua ricerca, comprende anche Dio. L’incomunicabilità totale segna l’unico cammino possibile, quello dell’autoeliminazione di quest’uomo, dell’eroe che si costruisce per autoeliminarsi.


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