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La poesia di Marosa di Giorgio

redazione Poesia, SUR

Pubblichiamo oggi una presentazione della poetessa uruguayana Marosa di Giorgio (1932-2004) e alcuni suoi brevi testi a cura di Vincenzo Barca.

«Ho un ricordo di me piccolissima con un vestito blu a pallini rossi. Seguivo mio padre che arava con i buoi. Sul dorso dei buoi si erano fermati uccelli di diverse dimensioni e colori. Era un gruppo soprannaturale. Papà mi disse: “Perché non scrivi un libro?”». Sull’onda di questo ricordo d’infanzia, la scrittrice, in un’intervista, spiega che l’accesso al mondo poetico ha coinciso per lei con un turbamento dei sensi: “Un giorno, nel giardino, mi sono imparentata con la magnolia”. Questa risposta può costituire una sintesi e offrire una chiave di lettura per tutta la sua opera, che è un incessante sviluppo di questo nucleo: c’è il giardino, descritto come il luogo in cui si mescolano diversi ordini di esistenze (umane, animali, vegetali, soprannaturali), il fatto, concepito sempre come irruzione o epifania e il motivo della metamorfosi, un naturale cambiarsi di forme, costume ineluttabile quanto disinvolto nell’universo di Marosa.

Funghi e lucertole e pulcini e orchidee, garofani e donne, uomini e insetti, e sessi che secernono ogni tipo di succo in boschi, in giardini, in parchi, nella semioscurità della selva.

Il suo sguardo su quel mondo in cui esseri così diversi si congiungono e si trasformano non è necessariamente quello umano; perché, nell’attraversare le frontiere con altri mondi, quello sguardo riacquista un’innocenza perduta, si dota di una nuova freschezza, vede le piccole meschinità degli uomini da un osservatorio inedito, disarmato, dal quale appaiono, se possibile, ancora più odiose.

Da questi congiungimenti impossibili sorge come una percezione stra-ordinaria dell’universo, un’intuizione suprema che legge il mondo quasi involontariamente, come per un dono di veggenza.

E d’improvviso le cose più familiari appaiono sotto una luce sinistra, svelano a questo sguardo di bambina quel lato oscuro e minaccioso che si nasconde sotto il travestimento più domestico, più neutrale.

«Scrivo senza una direzione o un progetto, senza fine alcuno. Sono una principessa nuda e scalza, una monaca un po’ zingara che aspetta che le cada dal cielo qualcosa fra le mani».

E ancora, spiegando Marosa con Marosa:

«La mia anima è un vampiro grosso, granata, vellutato. Si alimenta di molte specie e di una sola. Le cerca nella notte, le trova e se le beve, goccia a goccia, rubino a rubino. La mia anima ha paura e audacia. È una bambola grande, con i boccoli, il vestito celeste. Un colibrì le lavora il sesso. Lei bramisce e piange. E l’uccello non si ferma».

Discendente da una famiglia di immigrati italiani, Marosa di Giorgio è nata a Salto, in Uruguay, nel 1932. Dopo la morte dei genitori si è trasferita a Montevideo, dove è morta nel 2004. Autrice di una vasta opera poetica e narrativa, attrice di teatro, era famosa per i suoi recital di poesia, di cui rimangono molte testimonianze registrate. Dopo Poemas (1954), ha pubblicato diversi volumi di poesia, poi riuniti nei due tomi di Los papeles salvajes (1989-1991). I suoi racconti erotici sono invece stati raccolti nel volume El gran ratón dorado, el gran ratón de lilas (2008) uscito per l’editore argentino “El cuenco de plata”, che sta ripubblicando tutta la sua opera.

Da Camino de las pedrerías, El Cuenco de Plata, Buenos Aires, 2006.

Traduzione di Vincenzo Barca

Messale della vergine

–  Lei non ha mai avuto figli.

–  No, anche se un giorno, quando ero piccola, da me, dalla mia pelvi, sono uscite tre lucertole. Di una cartilagine spessa e ad anelli. Tre.

–  Eh.

–  Sì. Camminavano sull’erba. Sembrava che avessero occhi, ma non ho potuto saperlo. Sono sprofondate nel suolo.

–  Oh.

–  Ma prima ho sentito un urlo, come se dicessero: Mamma! Ah, madre! Ah!

–  Oh.

–  Non li ho più riviste. Al momento del parto mi sono uscite dai seni (dal sinistro e dal destro), una gocciolina di sangue e una di latte.

…! E rimase impassibile. E benché fosse assolutamente bianca, sembrò ciò che era sempre sembrata: una principessa india sotto la sua pianta di anacahuita

23

Svegliandosi, guardò il mattino. Scuro. Rannuvolato. Dai rami più vicini i cuculi le gridarono qualcosa, dal loro ben fornito nido. Vide i piccioni. Dal piumaggio rosso! E i genitori, neri. Sorprendente, questa cosa.

Si alzò dal letto e poi ci si rimise. Chissà come, qualcosa si era mosso in lei.

Una mattina di compleanno?, laggiù, così lontano, lontanissimo, quando all’ombra di una credenza antica ebbe con quel parente qualcosa che… Non si era più sposata dopo quel fatto. Era stato impossibile. Non sapeva perché.

Qualche altra volta la cosa si era ripetuta, nei giardini, sì. Con altri, certo. Lei si metteva a croce su un albero e…

Passarono anni, anni, anni, secoli quasi. E ora era lì. Esaminò scientificamente il suo corpo. Ancora resisteva: i capezzoli rotondi, beige, come due fagioli grossi, il ventre e le natiche abbastanza salienti, le gambe forti, con alcune vene pronunciate. Questo sì. I piedi, grandi e resistenti. Prese in mano uno specchio con un certo timore, non lo prendeva mai. Il viso, niente da fare, era devastato.

Si alzò. Non riusciva più a rimanere lì. Si mise uno scialle e si legò la chioma rada e quasi bianca. Con un pettine d’avorio, antico. Andò in giardino. I soliti uccelli, in un turbinio, la segarono, la ridussero in pezzi. Ma perché gridavano in quella maniera?

Le piante fra le quali camminava erano annerite, con foglie come ali e pale e paratie. Ma, quando erano cresciute così tanto? Lei non se n’era resa conto.

Ma la decisione era ferma. Anche se aveva una paura terribile. Per fortuna la pioggia leggera, la nebbia, le nascondevano il viso. Non doveva sembrare lei. Per i vicini. E per se stessa. Per fortuna, era ancora tutto chiuso.

Benché anche questa fosse una difficoltà. Non passava nessuno. In quel mentre, qualcuno passò. Lei gli fece: psst, psst!

L’altro si voltò e la guardò. Lei gli fece un gesto eloquente. Gli indicò la lingua fra le labbra. Ansimò. L’uomo fuggì spaventato. Ne passò un altro e accadde la stessa cosa. Ma… un po’ più in là fece qualcosa di più indecente.

Il terzo si fermò sorpreso. Disse:- Signora, non sono di qui.

– È proprio quello che cerco. Venga.

L’uomo entrò. Era lungo, impacciato. Aveva anche un cappello. Si avviò verso il casale. Lei disse:- No, no, per di qua. Venga. Non sono la padrona. Sono … quella che cura le piante.

Aveva una gran paura che gli uccelli la massacrassero di nuovo.

Lo sconosciuto protestò:

–  Ma, signora… qui? Sta quasi piovendo.

Lei era già in ginocchio, e stesa, senza lo scialle e le ciabatte, i capelli sfatti, gli occhi stralunati, come se fosse già posseduta. Un olio bollente le colava fra le gambe. Sentendolo, pensò: Vedi? Che fortuna! Che fortuna! Vedi?

Tutto durò poco. Sentì la linea di fuoco fino all’ombelico, un bisbiglio. Disse:

–  Ho un dolore. Mi fa male l’ovaio.

Dopo il punto centrico, lui si rialzò, rapido; la aiutò, le disse:- Si copra, signora. Vada a casa e beva un tè. Il suo corpo è ancora formidabile. È stato bello. Ora però devo andare, è ora di scuola. Sono un professore. Prenderò un treno.

Lo vide andar via. Leggero, leggerissimo. Anche se con passettini cortissimi.

Sembrava che inseguisse se stesso.

Restò un minuto ferma. Nel nido gli uccelli erano rimasti impassibili.

Allora sentì che dal recinto una vicina la insultava. Se n’era andata la nebbia. Vide un collo corto, una faccia squadrata, una bocca rotonda, striata, che le gridava cose orribili.

Le si avvicinò. Non le venne in mente niente di diverso. Per chiedere scusa. L’altra le fece la linguaccia. Le diceva:- Ho visto tutto… tutto… tutto… Non si vergogna, vecchia signora, signora vecchia?

–  … Mi perdoni, vicina. Perdoni ciò che ho fatto.

L’altra strappò un ciuffo d’erba e glielo buttò in faccia.

Ne strappò un altro e glielo buttò in faccia.

Si allontanava. Ebbe paura che quella con un sasso le rompesse la schiena. Si disse: Questa è invidiosa. Io…

Allora sentì un leggero strattone dentro. Ascoltò. Non ci fu nient’altro. Dopo un po’, mentre per distrarsi cucinava, ebbe spasmi vari che riecheggiarono per un pezzo.

I giorni successivi, doveva sedersi per riposare. Finché capì e ammise ciò che le stava succedendo:- Concepisco uova, alla mia età! – E si vide che erano diverse. Si muoveva con cautela. Non voleva abortire. Non aveva mai abortito. Almeno non si ricordava.

Le uova cominciarono a venire giù. Erano piuttosto grandi. Qualcuno si ruppe. Erano tutto tuorlo, poca chiara.

Altri vennero fuori qualche giorno dopo; li covò, li mise al riparo tra le gambe. Li accarezzava, li baciava.

Un giorno di primavera si sentirono dei colpi di becco, il pio-pio allucinante; le uova si aprirono, indenni, uscirono i pulcini, indifesi, contenti, con le loro alucce. Gli diede da mangiare, li aiutò: noci, riso, miglio, lattuga tritata.

Ormai le camminavano al fianco, lei e la sua nidiata; saranno stati tre o quattro, non di più. Non li portò mai in giardino, anche se ne aveva voglia, per paura di quella vicina che aveva visto la sua copula, ma non aveva potuto svergognarla.

I polli crescevano, crebbero molto rapidamente. Erano grossi e un po’ stupidi; la seguivano forse troppo. Le salivano sulla gonna, mangiavano lì.

Un giorno, al mattino, senza pensarci troppo, così, quasi di colpo, le venne in mente di ucciderli. Li fece fuori, li spennò, li preparò.

Spezzatino di pollo.

Con salsa piccante.

Si versò del vino e si sedette a mangiare. Bevve ancora un po’ di vino.

–  Ah! – disse. – Ecco qua. I figli del professore -. E continuava a mangiare.

Ogni tanto si passava la mano sulla bocca e sul mento.

52.

Corse un animaletto scuro, leggero, lungo il muro.  Un topo. All’istante vide. No. Era solo una di quelle cosettine dei giorni di tempesta. Cominciarono i raggi argentati. E, di colpo, si arrestarono.

Il cielo fu di nuovo pallido, lieve, e di un grigio meraviglioso.

Le piante osservavano tutto, assorte, all’erta. Mi guardavano con i loro volti confusi, bellissimi, delicato groviglio di profumo, petalo e anima.

Probabilmente questo mi istigò.  Lasciai cadere la tunica.

E mi avviai nuda tra le piante e i vicini. Per la sorpresa, non mi accorgevo che camminavo nuda, senza alcun guscio, senza alcun tulle, solamente nuda.

Giunsi così a una piccola radura, che già conoscevo. E mi fermai. Era il luogo adeguato.

Di colpo, come un altro raggio, cadde dai cieli un angelo.

Era terribile, con le ali doppie, quattro ali.

Capii subito, senza muovermi, quasi senza respirare, ma forse compiaciuta, o no, che era un angelo copulatore. E senza nessun limite.

L’unica cosa che del suo volto si vedeva erano gli occhi. Celesti e tutto uno scintillio. Gli occhi erano il suo sesso, lo riconobbi. Allora cominciai a guardarlo fissamente, dentro gli occhi. Perché potessimo accordarci, a fondo, nella copula.  Senza pietà, egli fece saltare i bottoncini che mi coprivano i seni.  Ne sprizzò un fiotto verginale di latte che arrivò a terra.

Lui si era già sistemato dietro di me, e mi incendiava le vertebre a una a una; afferrava le piccole ossa con lo sguardo come fossero elementi di un candelabro, li lasciava in brace.

Mi soppesò le cosce.

E di nuovo mi fu di fronte.

Io ero già preparata, già al culmine. Pronta al sacrificio. Non smettevo di guardarlo negli occhi. Le ovaie mi tremavano a una a una. E mi sembrava di averne tante e a grappoli.  Mi si sciolsero i lacci interni. E dicevo:- Ah…Ah… – piano, tenuemente, senza fermarmi.

Nella cavità più profonda, una che neppure conoscevo, qualcosa mi si sollevò dentro. E mi si gonfiò.

Dissi con il pensiero, perché non avevo il coraggio di parlare:

–  Il pulcino è fatto. La gravidanza è avvenuta.

Nell’udire queste parole, l’angelo copulatore chiuse gli occhi, e scomparve all’istante.

E io sono bloccata in quel luogo.

53.

Aveva sempre amato il nardo. In realtà era stato il suo amante fin da piccola. Fin da bambina, era stato suo marito. Lo aveva preso da una pianta, da un vaso. Quell’alabastro aperto, rapimento rigido, mistero delle cappelle. Ne staccava un rametto e con quello segnava i punti dove, moltissimo tempo dopo, le sarebbero cresciuti i seni.  E una volta, un’estate ardente, passò piano piano il rametto di neve tra le gambe. E lo tenne lì per un po’. Lo faceva oscillare… muovere… lo faceva danzare. Ma benissimo. Davvero molto bene.

Tuttavia provò vergogna, pregava, piangeva, e non lo fece più.

Amava il nardo. Era il suo amante, c’era forse dubbio? Quell’altarino di un fiore così teso, così delicato, così penetrante, che scandiva, che proclamava, con tanto profumo, e a voce bassissima, tutto il bacio. Lei si coricava e si dischiudeva. Con il nardo accanto, vicino. Come se da un momento all’altro dovesse spiccare il salto.

Gli diede un nome umano: Arturo. Perché Arturo era a quel tempo il bel giovane dei giardini. Il suo regno arrivava lontano: era il Maschio, l’Unico, una Stella per cui tutte le ragazze sarebbero potute morire.

Allora aveva chiamato anche il suo amore Arturo, lo baciava delicatamente, ma tante e tante volte.  Erano mille rami e sempre l’unico. Camminava tra le piante cercando e piantando nardi. Un giorno sua madre aveva detto:- Ma guarda come crescono questi nardi!

Prima erano più… belli e più rari, non se ne trovavano.

Lei perdeva perline d’amore, goccioline, nettari, dal suo foro intimo nelle mutandine; riverberava in solitudine con il nardo addosso. In realtà era come essere sposata con un defunto. Se ne rendeva conto. E no. Quella corolla neve la teneva all’erta, la faceva vibrare come una corda di mandolino. Come una corda. Una cosa unica.

Finché crebbe, tutta balze e falpalà.  Le crebbero trecce color oro, color di ginestre dorate. Le rimasero gli occhi, grigi. Aveva un curioso, enorme desiderio di restare incinta. Si appoggiava un ramoscello di nardo sul ventre. Sopra il vestito, sotto, quella luce nuziale.

Un giorno, in chiesa, la vide un giovane dalle spalle larghe e dalla faccia dura. Le disse, dietro al confessionale, dove l’aveva chiamata: – Ascoltatemi, vergine, sapete che io vi amo, vi ho seguita tante volte. Sposiamoci ora. Questa è l’ora e la data.

Compirono da soli tutto il rito.

Uscirono correndo dalla chiesa, attraversarono un bosco che prima non c’era e trovarono, come no, un letto pronto.

Lui le tolse gli abiti sacri, le sciolse le lunghe ginestre d’oro.

Si infilò tra le sue gambe. Le chiedeva:- Ditemi, devo saperlo, vi sarete già coricata con qualcun altro… con qualcuno. Ditemi, signora, dov’è, che voglio  ucciderlo.  Chi era? Chi è? Perché in questo momento voi non mi sembrate… vergine. Non so. C’è qualcosa.

La guardò meglio: – Mi sembrate femmina già… vecchia. Mi sembrate una femmina antica, vecchia. Ditemi chi e quanti furono.

Lei rispose, titubante e ferma:- Sì. Tanti. E per molto tempo. In tanti.

– Ma con chi? Con quanti? Vedo che sono stati parecchi.

Vivevano in un paesino e questo aveva un’enorme importanza, a quanto pareva.

– È stato con Arturo. Sì. Con lui. È questo il nome.

Lui diede un balzo. Gridò: – Non so se lo perdonerò. No! E anche voi!

Ma lei sorrideva, ora, angelicamente, e sanguinava già, appena appena ma incessantemente. Le scendevano giù tutte le sue perle. Da dentro. Come se si fosse rotta una collana.

Lui disse: – Ah, bene. Bene.

La assillò, intimamente, ancor di più, dubitava, insisteva. Diceva:- Non sarà un tranello? Una qualità artefatta, false perle messe lì da una… modista?

Lei si stupiva. Oppure no.

In quel momento lui notò che le valve di lei lo attanagliavano, si chiudevano e si aprivano, producendo ancora sangue e perline. Ma di quelle giuste, legittime.

Tornò ad assillarla e a tormentarla in ogni modo.  Le provocava un’estasi maggiore, la fece galoppare. Dentro quelle lenzuola, scorrazzarono a lungo. Finché non si fermarono, esausti. Finché si abbracciarono. Finché si addormentarono.

Ma, tra loro, rimaneva Arturo.

Un rametto di nardo triste come il marmo, che li separava, come se fosse Arturo.

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