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I Diarios di José Martí

Raul Schenardi SUR

Il 28 gennaio 1853 nasceva all’Avana José Martí, scrittore, politico e rivoluzionario, leader del movimento per l’indipendenza dell’isola, considerato a Cuba il più grande eroe nazionale.

Per celebrare la ricorrenza, l’Università degli Studi La Sapienza di Roma e l’Ambasciata di Cuba in Italia hanno indetto un incontro per lunedì 28 gennaio alle 17 presso l’aula Odeon della Facoltà di Lettere e Filosofia, durante il quale verranno letti frammenti delle opere di Martí scelte per l’occasione e accompagnate al piano dal cubano Marcos Madrigal. L’incontro non ha un carattere accademico ed è aperto al pubblico.

di Raul Schenardi

Dal canto nostro pubblichiamo oggi alcuni passi dei Diarios di Martí (Galaxia Gutenberg, Círculo de lectores, 1997, con un prologo di Guillermo Cabrera Infante), su cui vale la pena di spendere due parole. Questi testi sono forse più noti sotto il titolo Diario de campaña, nel senso di campagna militare, ma Cabrera Infante, incorreggibile polemista, nel prologo puntualizza: «Bellicisti e bellicosi insistono a chiamarlo Diario de campaña, ma nello spirito di Martí, e dato che fu scritto durante una campagna alla quale Martí alla fine non partecipò, preferisco chiamarlo Diario.» Martí sbarcò a Cuba dopo un lungo esilio l’11 aprile 1895 insieme a un gruppo di indipendentisti e il 19 maggio fu ucciso durante uno scontro a fuoco con le truppe spagnole. Il diario inizia il 14 febbraio 1895 e l’ultima annotazione reca la data del 17 maggio, due giorni prima della morte di Martí. Sempre nel prologo Cabrera Infante sostiene che questi Diari sono il capolavoro letterario di Martí, e scolpisce qusto giudizio: «Non ho il minimo dubbio che la scrittura di Martí – con tutti i suoi eccessi, in virtù di tutti i suoi eccessi – è l’apparato barocco, concettuale ed eloquente più potente che abbia prodotto la letteratura in lingua spagnola dopo Quevedo».

I passi che riportiamo (nella mia traduzione) figurano – in questa stessa sequenza, che non segue l’ordine cronologico – in un romanzo che è riduttivo definire di fantascienza, ma tant’è, bisogna pure capirsi, Garbageland, del cubano Juan Abreu (Mondadori, 2004), dove fanno da contrappunto, disseminati nel testo, a episodi anche truculenti in stile cyberpunk. L’autore, discepolo e amico di Reinaldo Arenas, e come lui dissidente, ha lasciato Cuba ai tempi dell’esodo di massa Mariel. La sua rivendicazione dell’eredità politica e culturale di Martí, così come per un altro famoso dissidente che scelse la via dell’esilio, Cabrera Infante appunto, dimostra se non altro che intorno al nome dell’Apostolo c’è il più ampio consenso: dalle autorità ufficiali del regime castrista ai suoi più feroci avversari.

Per chi volesse approfondire, segnaliamo che i Diarios di Martí si possono leggere in rete qui e anche qui, in un testo corredato di note (insieme a buona parte della sua produzione letteraria in versi e in prosa):

Frammenti dai Diarios

 

di José Martí
traduzione di Raul Schenardi

«Scialuppa.» Partiamo alle undici. Passiamo sfiorando Maisí, e vediamo il faro. Sto sul ponte. Alle sette e mezzo, oscurità. Agitazione a bordo. Capitano scosso. Calano la scialuppa. Piove fitto all’abbrivo. Salpiamo male. Idee diverse e turbolente sulla scialuppa. Ancora acquazzoni. Il timone sbanda. Fissiamo la rotta. Reggo il remo di prua. Salas rema senza sosta. Paquito Borrero e il Generale aiutano a poppa. Cingiamo le pistole. Rotta sull’insenatura. La luna s’affaccia, rossa, sotto una nuvola. Approdiamo a una spiaggia di terra, “La Playita” (ai piedi del “Cajobabo”). Rimango solo nella scialuppa per svuotarla. Salto. Grande felicità.

I pendii fertili ed elevati inclinano, scoscesi a tratti, verso il letto del torrente, ancora stretto, dove scorrono, torbide e agitate, le prime piogge.

Di soave gratitudine si gonfia il petto, e di un affetto intenso, dinanzi all’ampio panorama del fiume amato. L’attraversiamo, nei pressi di una ceiba, e dopo aver salutato una famiglia di mambí, molto contenti di vederci, entriamo nel boschetto rado, dal sole dolce, con alberi sottili dalle foglie acquose. Come su un tappeto avanzano i cavalli, tanto è copioso il prato. Sopra, il bosco di curujey guarda il cielo azzurro, o la palma nuova, o il dagame, che dà il fiore più raffinato, amato dall’ape, o la guásima, o la jaitía. È tutto un festone di fogliame, e fra le radure, sulla destra, si vede il verde tant’è limpido, sull’altra riva, coperto e fitto. Lì vedo l’ateje dalla chioma alta e gracile, con i suoi parassiti e i curujeyes; il caguairán, “il legno più robusto di Cuba”, il grosso júcaro, il lentisco dalla pelle setosa, la jagua dalla foglia larga, la güira incinta, il duro jigüe, dal cuore nero per bastoni e la corteccia per fruste, il jubabán dalle fronde lievi, le cui foglie, strato su strato, “schiacciano il tabacco”, l’acagiù, dalla corteccia ruvida, la quiebrahacha, dal tronco striato, che si apre in rami vigorosi, vicino alle radici (il caimitillo e il cupey e la picapica) e la yamagua, che fa ristagnare il  sangue.

La mattinata nell’accampamento. Ieri hanno ucciso del bestiame e allo spuntare del sole i gruppi sono già accanto ai paioli. Domitila, agile e brava, con il suo fazzoletto egiziano, fa un salto in montagna e ci porta delle provviste: pomodori, coriandolo e origano. Uno mi offre un pezzo di malanga. Un altro, in una tazza calda, succo di canna e foglie. Spremono un mazzo di canne da zucchero. Dietro la casa, il pendio con i suoi poderi carichi di noci di cocco e banane, di cotone e tabacco selvatico: in fondo, lungo il fiume, un rametto di puledri; e nelle radure, aranci, attorno ai monti, tondi, gradevoli; e l’infinito azzurro sopra, con quelle nuvole bianche, che scorrono smarrite… dietro la notte. Libertà nell’azzurro.

… ai piedi del mango frondoso, la spessa canna da zucchero; il mango era fiorito, e l’arancia matura, e una palma caduta, con l’abbondante radice filamentosa che l’avvince ancora al terreno, e il cocco, curvo sotto il peso, dalla chioma ruvida, e la ceiba, che apre le sue forti braccia in alto nel cielo, e la palma reale. Il tabacco spunta in una zona recintata e, accanto a un ruscello, sbucano fuori caimitos e guanábanos.

Passa in fretta una mucca, muggendo di dolore, e salta lo steccato: piano avanza verso di lei, come se ci vedesse poco, il vitello smarrito; e subito, come se la riconoscesse, s’inarca e l’accosta, con la coda in aria, e si attacca alla mammella: la madre muggisce ancora.

La pioggia notturna, il fango, il bagno nel Contramaestre: la carezza dell’acqua che scorre: la seta dell’acqua.

E altre fiaccole, qua e là… accendono gli alberi secchi, che scaldano e sprizzano faville, e lanciano in cielo il loro fusto in fiamme e una piuma di fumo. Il fiume canta per noi. Ci occupiamo degli esausti. Sono già intorno a noi, gli yareyes nell’ombra. Tale è l’ultimo corso d’acqua, e sull’altra sponda il sogno.

Passano volando alti nel cielo, come grandi croci, i fenicotteri dalle ali nere e i petti rosa. Procedono in file, a uguale distanza uno dall’altro, e le file si discostano dietro. Al timone c’è una fila più corta. Lo stormo avanza ondeggiando.

Dal sentiero sbucammo nella savana di Pinalito, che scende, ripida, verso il ruscello delle pietre, e poi verso la collina della Risueña, dal terreno rosso e sassoso, curva come un uovo, e in fondo graziose teste di monti, dai contorni bizzarri: un boschetto, un’altura che somiglia a una sella, colline degradanti. Ci inoltriamo nella savana di Vio, conchiglia verde con il mondo intorno, e le sue palme, e in mezzo un isolotto qua e là, come rosoni, o uno spino solitario, che dà buona legna: i viottoli neri solcano l’erba verde, cosparsa di fiori violetti e bianchi. A destra, in alto sulla fitta cordigliera, la cresta dei pini. Scrosci di pioggia.

In un gruppo si parla dei rimedi per la nube negli occhi: acqua salata, latte di ítamo, «che rese la vista a un gallo», le foglie spinose della romerilla, «ben macerate», «una goccia di sangue del primo che vide la nube». Poi parlano dei rimedi per le ulcere: la pietra gialla del fiume Jojo macinata fine, gli escrementi bianchi e pelati del cane, miele di limone; altri escrementi e malva. Dormiamo sul monte su stuoie di jagua. Jaragua, legno forte.

Ciascuno con la sua offerta: buniato, salame, liquore di rose, zuppa di banana. A mezzogiorno, in marcia su per la collina, l’acqua del fiume alla coscia, un bel bosco sottile di pomarrosas; arance e caimitos. Attraverso radure fitte e boschi di manghi privi di frutti arrivammo a una macchia di palme, con in fondo due montagne bellissime. Lì c’è l’accampamento. La donna indigena… dagli occhi ardenti, circondata da sette figli, con un vestito nero strappato e il fazzoletto col velo fissato in alto sulle trecce, pela il caffè. La gente appende amache, si occupa della canna da zucchero, fa fuoco, portano la canna al torchio per farne succo per il caffè. Lei introduce la canna, scalza. In precedenza, alla prima sosta, nella casa della madre con la figlioletta spaventata, il Generale mi ha fatto bere del miele, affinché potessi provare che dopo averlo bevuto la sete si placa. Si fa del rum di pomarrosa.

Entriamo nell’appartamento a cavallo, per il gran fango che c’è fuori, prima di poter smontare, e dalla melma e dall’aria viene un lezzo, a causa di tutto il bestiame morto nei dintorni: l’accampamento, curvo, è fitto di amache. In un angolo, in una cucinona, dei paioli sul fuoco. Ci portano del caffè, ajengibre e decotto di foglie di guanábano.

D’improvviso scendiamo in un bosco alto e allegro, gli alberi caduti servono come ponte alla prima pozza, sopra foglie soffici e fresche pietraie, andiamo, sotto una gradita ombra, nel luogo del riposo: l’acqua scorre, le foglie della yagruma imbiancano il terreno, portano della canna da zucchero a strascico, per l’acquazzone, enormi foglie carnose, mi avvicino al rumore e vedo, in mezzo a petre e felci, fra anse piene di sassolini e allegre cascate, scorrere l’acqua limpida.

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